Il primo tangibile effetto del ritorno degli States alla dottrina multilateralista e atlantista con Biden è una vistosa divaricazione tra la posizione della Francia e quella della Germania. E in Italia con Mario Draghi… Il corsivo di Teo Dalavecuras
Tanto tempo fa, quando ancora esistevano le latterie, la geopolitica si chiamava banalmente “relazioni internazionali” e l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale, appunto) non aveva decine, se non centinaia di “concorrenti” come oggi, c’erano alcune certezze, con tutto il margine di approssimazione che le certezze umane comportano, purché le si tengano a rispettosa distanza dalla mentalità burocratica.
Una di queste era che gli Stati Uniti, rispetto al resto del mondo, tendono a oscillare tra un atteggiamento isolazionista ed uno interventista. Alla prima si associava una seconda certezza, cioè che l’interventismo rifletteva un orientamento politico “riformista”, o “progressista” o ancora, all’americana, “liberal”; il conservatore, invece, era naturalmente portato a una politica isolazionista.
Benché oggi il mondo sia diventato così piccolo che l’isolazionismo è fuori dal novero delle cose concepibili, l’approccio ai temi delle relazioni internazionali dei progressisti rimane diverso da quello dei conservatori e basta confrontare la retorica di Joe Biden a quella di Donald Trump per rendersene conto.
Trump non credeva nell’interventismo e si racconta che all’inizio del suo mandato lo avesse spiegato in modo piuttosto brusco ai vertici del Pentagono. Biden, la cui corsa alla presidenza era stata sostenuta anche da una lettera aperta firmata da alcune centinaia di esperti e funzionari della politica estera e di sicurezza americana, non perde occasione per rilanciare l’alleanza atlantica che è simbolo dell’interventismo (in “senso buono”, al punto che il termine interventismo è caduto in disuso, ormai si parla solo di multilateralismo) degli Stati Uniti. Lo ha fatto anche in questi giorni alla Conferenza sulla sicurezza globale di Monaco di Baviera, lasciando chiaramente intendere che a Washington ci si aspetta che l’intero mondo occidentale si allinei senza tentennamenti alla politica di isolamento e contenimento dei nemici del progresso e dei diritti umani, Russia e Cina, delineata da Biden.
Del resto, l’atlantismo deve essere tornato di moda se Mario Draghi, l’italiano sicuramente meglio sintonizzato sui trend globali, ha battuto sul tasto dell’atlantismo non appena ne ha avuto l’occasione, nelle dichiarazioni programmatiche al Senato e informalmente ancora prima.
Gli esperti di geopolitica, che non mancano, discuteranno sul perché e il percome di questa svolta che è già stata sposata dalla Francia di Emmanuel Macron (lo stesso che non moltissimo tempo fa aveva definito la Nato in stato di “morte cerebrale”) e dal Regno Unito ma, con assai minore entusiasmo, dalla Germania che pure è sempre stato considerata il più fedele alleato europeo dell’America.
Insomma, nelle cose che contano il superamento della “anomalia” Trump procede a vele spiegate, per il resto, dazi doganali e altri dettagli, ci sarà tempo. Solo per noi europei, in particolare per l’Italia, a voler essere proprio pignoli oltre ai dazi rimane un piccolo problema: il primo tangibile effetto del ritorno degli States alla dottrina multilateralista e atlantista è una vistosa divaricazione tra la posizione della Francia e quella della Germania, come dire la gamba destra e la gamba sinistra dell’Unione europea, ciò che può solo preannunciare una battuta d’arresto nella marcia d’avvicinamento, già di suo così arrancante da non potersi dire marcia e neppure cammino, verso l’orizzonte dell’integrazione politica del continente o almeno di una sua significativa frazione.
D’altra parte, è fisiologico che nel momento in cui l’America chiede loro di “stringersi a coorte” sotto la sua guida, la coesione dei Paesi europei, già strutturalmente scarsa, tenda a sfilacciarsi ulteriormente e la prospettiva dell’integrazione, se mai ce ne fosse una, a sbiadire.
Fin qui in teoria nessun problema: a qualcuno, come chi scrive, può dispiacere, ma non è da escludere che quel che l’Italia guadagna dal rilancio dell’atlantismo sia più di quel che può perdere dall’allentamento della coesione europea, già assai precaria di suo.
Nelle dichiarazioni programmatiche, però, Draghi ha sottolineato che “questo governo sarà convintamente europeista e atlantista”, e all’inizio delle sue dichiarazioni aveva manifestato in termini assai enfatici il proprio “europeismo”: “Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza”. Termini enfatici ma non senza una punta di furbizia: il premier fingeva di ignorare che a Bruxelles non c’è nessuna “sovranità condivisa” ma una burocrazia “irresponsabile” non sempre all’altezza delle situazioni, come la vicenda dei contratti per i vaccini sta lasciando trasparire.
Si dirà che questa è sempre stata, con sfumature diverse, la retorica delle leadership “europeiste”. Si dirà che europeismo non significa necessariamente – anzi, non significa sostanzialmente mai – impegno per l’integrazione politica ma solo per una burocrazia europea sempre più articolata e dalle competenze sempre più estese. Si dirà che da un uomo di mondo come Mario Draghi non ci si poteva aspettare niente di diverso.
È certamente così, ma non puoi concludere il tuo discorso proclamando: “Oggi, l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere” e al tempo stesso condurti da uomo di mondo. Stride: “dovere” non è parola che appartiene al lessico dell’uomo di mondo.
Anche se, a onor del vero, l’uso di mondo, in certi limiti inseparabile dal ruolo, di Draghi, opera nel male come nel bene: per esempio nelle parole misurate con cui ha prestato, nel discorso in Parlamento, l’obbligatorio “lip service” alla rinnovata crociata americana contro gli avversari geopolitici di sempre.
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