da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Claudio Chianese)
La nomina di Draghi non è il fallimento della politica; è il tradimento perfetto & consapevole. Siamo al totalitarismo del disincanto. Riflessioni intorno al governo degli “esperti”.
Considerate Albert Speer. Studente brillante, già a ventidue anni assistente di Heinrich Tessenow, architetto visionario, ideatore di una grandiosa Berlino da consegnare all’umanità futura, efficientissimo ministro della produzione bellica in una Germania martoriata dalle bombe alleate. En passant anche nazista, vent’anni di carcere comminati a Norimberga per crimini contro l’umanità. Considerate l’ovvia morale: più di saper fare le cose, è importante sapere cosaè giusto fare. Meno ovvia una consapevolezza che la figura di Speer suggerisce: non esistono tecnici apolitici. Dai chimici della Grande Guerra ai Chicago Boys di Pinochet, i mezzi non si possono scindere dai fini, e la politica è la scienza dei fini. Più a fondo, la tecnica stessa è un modo irriducibile di stare al mondo – la grande lezione di Heidegger, e non sfuggirà al lettore il paradosso di invocare proprio lui dopo Speer. Anche Mario Draghi, in qualche modo, riconosce queste implicazioni nel suo discorso in Parlamento: la sua nomina non è, dice, un fallimento della politica. Infatti è un tradimento, perfettamente consapevole: la politica che fa ghosting dopo la catastrofe, adotta gli strumenti che servono alla sublimazione delle responsabilità. Maggioranze bulgare, larghe intese, unità nazionale: poi ogni partito raccoglierà il suo coccio d’Italia, una volta conclusa la nuova stagione terribile che non ci vuol molto a profetizzare. Così sempre, da quando Giolitti si presentava in coalizione con Mussolini.
Ma il punto sta molto oltre al curriculum in chiaroscuro di Draghi, a un programma ancora mezzo da definire, e tutto da sviluppare. Piuttosto riguarda una categoria astratta, “spiriti di malcostume sociale”, che si incarna storicamente nelle forme di un tempo.La Bocconi, la Luiss, i master di economia e finanza in giro per il mondo, fabbricano in migliaia di copie ogni anno l’archetipo dell’esperto contemporaneo. Ci sono, certo, differenze quantitative, c’è chi è più competente di altri. Competente, però, nelle stesse faccende. Altra, necessaria, constatazione: il concetto di competenza esiste solo relativamente a un sistema di riferimento. Le delicate schermaglie teologiche sull’una o le due nature di Cristo decidevano, nella tarda antichità, il destino delle nazioni, oggi non hanno più dignità del gioco di parole. Eppure un trattato contro l’arianesimo può essere complesso quanto uno sulla gestione del debito pubblico: competenze diverse per epoche diverse – le nostre molto meno eleganti, purtroppo. La gente, dice Ivan Illich, pensa sia indispensabile sapere ciò che insegna la scuola, ma ciò che è indispensabile sapere lo decide la scuola. Da qui il brutto mito dei competenti, introiettato al punto di essere fuori discussione, sorgente dell’effluvio di saliva canina con cui una stampa livello MinCulPop ha salutato il nuovo premier. Ma anche paradigma di giustificazione: liberati dal dovere esistenzialista di formulare il proprio fine, basta scegliere il mezzo migliore. In questo caso, Draghi. Inspiegabile la trasversalità della gioia in Italia, le frotte di poveri cristi che inneggiano al governo dei migliori, a meno di adottare l’interpretazione più semplice: è la gioia di non essere costretti a pensare.
Illich, che come sempre ha capito tutto, rileva:
“Le principali istituzioni delle società moderne hanno acquisito l’inquietante potere di sovvertire i veri obiettivi per i quali sono state originariamente costruite e finanziate. Sotto l’egida delle professioni più prestigiose, le ineffabili istituzioni hanno finito soprattutto per produrre una paradossale controproduttività: la sistematica disabilitazione dei cittadini”.
Lo sfondo di questa “epoca delle professioni”, come la chiama Illich, è un deserto della fantasia. Senza alternative al liberismo tanto vale che decidano i tecnici del liberismo; se è incontestabile la medicalizzazione della società, allora conta solo l’opinione dei medici; senz’altro obiettivo che la sopravvivenza eterna del presente, il presente ha già i suoi custodi. I criteri sono semplici: titoli accademici, successo professionale, reddito annuo. Complicato sarebbe, invece, il futuro, che però si invoca proprio perché non arrivi mai. Il capitale umano di cui parla Draghi – cioè i ragazzi, tutti insieme centrifugati nell’osceno frullatore lessicale dell’economista – è un investimento per la vecchiaia del mondo. Solo che la vecchiaia è perenne e la senilità ideologica una malattia infantile dell’Occidente. Il nostro è un totalitarismo del disincanto. Viene da lontano: dagli orrori gemelli dell’illuminismo e del positivismo, ma prima ancora da un certo deismo spinoziano, l’ansia di geometrizzare l’universo. L’opposto, in effetti, sarebbe un misticismo che squalifica in principio il concetto di competenza, il sovvertimento evangelico secondo cui i bambini sanno e i sapienti no. La grazia – e la Grazia – degli analfabeti, direbbe Pasolini.
Totalitarismo, dicevamo, e non dittatura: le due cose non coincidono. C’è pochissimo di repressivo negli strumenti disciplinari occidentali, non è affatto un colpo di stato se adesso in Italia i partiti si compattano intorno a un vago europeismo e alle sue logiche socioeconomiche. Le logiche di Christine Lagarde, esplicitamente benealtrista riguardo alla sorte dei greci, di Wolfgang Schauble quando dichiara che le elezioni non cambiano nulla. Niente da nascondere all’ipotetica Norimberga del liberismo, che non si può fare per ragioni logistiche, non si può fare perché hanno vinto loro, ma soprattutto non si può fare perché nessuno la pensa. Intendiamoci: non servono ipotesi di complotto, che sono per definizione non verificabili. Serve solo un tassello, curiosamente mancante al ragionamento collettivo: avere successo in un sistema sbagliato non è un merito, è una colpa. Considerate Albert Speer. Che tipo d’uomo arriva all’apice del governo nazista, nella Germania del ventesimo secolo? Che tipo d’uomo arriva all’apice di una banca d’affari, nell’Occidente del ventunesimo? La differenza è che, nella narrazione contemporanea, il nazismo è un evento politico, il liberismo un fatto di natura: dunque le competenze si giustificano da sole, senza contesto, senza giudizio. Scrive Cioran:
“Molti sono coloro che si accingono a venerare un qualsiasi idolo e a servire una qualsiasi verità, purché l’uno e l’altra siano loro imposti e non debbano compiere lo sforzo di scegliere la propria vergogna o il proprio disastro”.
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