Il triste dio dei moderni
di Gazzetta Filosofica (Valentina Gaspardo)
Un celebre passaggio dell’Etica, indirizzato contro l’interpretazione “mistica” e superstiziosa dell’esistente, recita così:
« Se, per esempio, una pietra è caduta da un tetto sul capo di qualcuno e lo ha ucciso, essi dimostreranno nel modo seguente che la pietra è caduta per uccidere quell’uomo. Se essa non è caduta per questo fine, per volontà di Dio, come mai tante circostanze (e, infatti, molte spesso vi concorrono) hanno potuto accidentalmente concorrervi? Forse tu risponderai che ciò è accaduto perché il vento soffiava e perché quell’uomo passava da quella parte. Ma essi insisteranno: e perché il vento soffiava proprio in quel momento? Perché l’uomo passava da quella parte in quel medesimo preciso momento? Se rispondi alla tua volta che il vento s’era levato allora perché il mare nel giorno precedente, allorché il tempo era ancora calmo, aveva incominciato ad agitarsi, e perché l’uomo era stato invitato da un amico, essi insisteranno di nuovo, poiché non c’è mai fine nel porre domande: e perché il mare era agitato? perché l’uomo era stato invitato per quel momento? E così continuamente non cessano d’interrogarti sulle cause delle cause, fino a quando non ti sarai rifugiato nella volontà di Dio, cioè nell’asilo dell’ignoranza. »
Una visione laicista a noi ormai familiare. È chiaro, diremmo, che l’evento presente dipende dall’intreccio misterioso delle cause, le quali, una in fila all’altra, hanno generato quel che appare. L’incontro felice in un luogo inusuale sarebbe un’altra occasione di constatare questa tesi, secondo cui l’incontro stesso si configura come un mero groviglio di “percorsi”, tutti individualmente disposti e fissi al loro scopo singolare, che muovono come affluenti a ingrossare l’oceano delle vicende umane. Certo, se io non avessi mosso verso quel locale, se non avessi conversato a lungo con il proprietario, se avessi avuto fretta; se la persona che “è capitata” non avesse avuto urgenza di trovarvisi per ragioni altre; se fosse trascorso qualche minuto in più… quel miracoloso incontro non si sarebbe verificato. Ebbene, noi moderni chiamiamo questo dio il Caso.
In apparenza, il richiamo alla serie causale somiglia alla più puntuale analisi scientifica che non lascia fuor di sé nemmeno un briciolo di non-detto; che rimedia all’ignoranza con una valanga di fatti inoppugnabili. E quei fatti, nella narrazione laicista, ambiscono, loro malgrado, a una ratio: perché, ci si chiede, si sono prodotti in quell’ordine, in quel tempo, in quello spazio? Un caso. Qualunque spiegazione voglia cogliere la necessità del fatto è destinata a fallire. Se ci domandassimo quale fosse la causa della pandemia in atto, attingeremmo a una serie di fenomeni ambientali, ecologici, economici che hanno “spronato” il virus al salto della specie. Bene, vero. Ma non paghi di questa conoscenza, a voler soddisfare appieno il “perché” che ci tormenta, per sopire e trovare posto al dolore di cui il cuore nostro è gonfio, non ve ne sarebbe possibilità – insegna Spinoza. Possiamo scavare, rigirare, maneggiare infinite volte le cause in nostro possesso, ma nessuna di esse ci aprirebbe al petto della terra, a cavarle il segreto da dentro. Non c’è un quid causale cui poter ricondurre, come fondo ultimo, il movimento delle cose. Lo rivediamo col virus che ci assedia: le spiegazioni constatano la realtà dei fenomeni sorti, malgrado tutto, dall’incrocio di lacci invisibili, la cui trama non è percorribile. In altre parole, la serie delle cause racconta soltanto gli accidenti. Spinoza lo afferma, e, seccato, condanna l’irrequietezza umana, mai paga della ricerca compiuta, che vuole trovare riposo in Dio. Non serve andare a ritroso, insiste: un’altra domanda assumerà il posto e l’urgenza della precedente, in un circuito senza fine.
Eppure l’«asilo dell’ignoranza» non è frequentato soltanto da chi inferisce dalla serie incompleta una Volontà superiore; è il luogo abitato da ciascuno di noi nel quotidiano, perché la serie è davvero incompleta, per tutti. Il problema è che la seconda visione – quella laicista – si affida, inconsapevole, a una tautologia: accade perché accade.
Allora, se è vero che «l’ignoranza che si rifugia nella volontà di Dio» è assai ingenua e talvolta controproducente nella misura in cui rifiuta la ricerca in nome della presunzione di aver colto un disegno divino (punizione, progresso, premio,…), è altrettanto vero che l’alternativa non suona più allettante. Anzitutto per la sua propria presunzione: ossia di aver capito tutto, o di poterlo fare, senza il soccorso dell’Ignoto. La necessità del fenomeno è sempre di là da venire, per quanto numerosi e ampi siano i passi con cui ci affrettiamo nel tentativo di raggiungerlo. Venuta a mancare la chiarezza del suo procedere, il moderno innalza altari al suo dio, il Caso. L’uomo di oggi, a parole sciolto da ogni afflato religioso, costruisce una fede implacabile, che, a differenza delle fedi antiche, è dottrina che predica un’esistenza muta, sorda, cieca al destino degli uomini.
Una religione triste per un uomo che non conosce i suoi limiti, né i suoi pregi, né percepisce le sue origini. Irridendo ogni credo ha irriso se stesso, dando i natali a una delle più spaventose superstizioni di sempre.
Terribile e cruda, predica l’estrema solitudine e l’irriducibile insensatezza. L’uomo antico si faceva forte delle domande più profonde, ché non era solo e vuoto; l’interrogazione aveva uno scopo. L’uomo “libero”, la cui idea è che di spiegazioni, in fondo, non ve ne siano, fatica ad alzare il volto verso i demoni che lo interpellano.
Teme gli abissi che ne avvolgono l’esperienza perché ha deciso che siano la dimora del nulla. Dice bene Pascal: si tratta del divertissement, che oggi è la tecnologia, la scienza, il nuovo modello di un oggetto che non sopperisce, in nessuna sua veste, né ora né mai, al bisogno originario. Non sappiamo affrontare il dolore che la nostra fede causa.
Dunque si capisce che non è la fede, per sé, a generare il dolore. Ma una fede impotente, ingiusta, superstiziosa. Tutto ciò di cui il mondo moderno avrebbe voluto liberarsi, salvo poi, con un giro inconsueto e sottile, riportarlo in auge con rinnovata potenza. Se fede e ragione non possono dirsi mai separate, si tratta di lavorare alla filosofia più grande, più completa, perché possa farsi innanzi, in movimento congiunto, la più grande fede. Non ci libereremo della superstizione fingendo di dominare le cose e accantonando il terrore della domanda sulla vita; soltanto interrogandoci affinché si riapra, ai nostri occhi stanchi, la forza del sacro. Dovremmo, forse, liberarci dell’angosciosa spiritualità dimentica di sé per restituire all’uomo i suoi dèi.
Fonte: https://www.gazzettafilosofica.net/2021-1/marzo/il-triste-dio-dei-moderni/
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