L’istantanea di Jean-Claude Michéa sulla deriva liberale della Sinistra
di BARBADILLO (Giovanni Sessa)
La recensione del saggio “Il lupo nell’ovile. Diritto, liberalismo, vita comune” (Meltemi) dello studioso francese
Jean-Claude Michéa
Nella realtà socio-politica contemporanea, ciò che marca il clivage, la reale distinzione tra le forze che si contendono il potere, non è più l’astratto riferimento all’opposizione destra/sinistra ma la contrapposizione basso/alto. La cosa è stata resa evidente dai successi, al momento in fase di apparente remissione, delle formazioni populiste di diversa estrazione. In tale dicotomia, il primo termine ingloba tutti coloro che, per ragioni diverse, economiche, politiche, culturali, si sentono esclusi dal sistema liberal-capitalista, il secondo comprende, al contrario, quanti in tale sistema valoriale sono inclusi. Su tale aspetto dell’attuale quadro politico concordano intellettuali dalla provenienze ideali le più disparate. Tra essi, si distinguono Alain de Benoist e Jean-Claude Michéa. Di quest’ultimo è stato di recente dato alle stampe in Italia il volume, Il lupo nell’ovile. Diritto, liberalismo, vita comune, per i tipi di Meltemi. Il testo è arricchito dalla prefazione di Carlo Formeti che si confronta, anche criticamente, con le tesi dell’autore.
Il libro raccoglie il testo di una conferenza tenuta da Michéa a Nizza, nel 2015. In essa, il filosofo spiega: «nel modo più pedagogico possibile la natura dei legami filosofici che, in una logica liberale, uniscono necessariamente […] il momento del Mercato e quello del Diritto» (p. 31). A quella conferenza, nell’edizione italiana, fanno seguito circa una trentina di osservazioni integrative di lunghezza irregolare, definite dall’autore scolii. Essi chiariscono, a beneficio del lettore, attraverso opportuni approfondimenti e digressioni, gli snodi teorici più rilevanti del suo pensiero. Il titolo, Il lupo nell’ovile, esemplifica le argomentazioni adottate da Michéa: per comprenderle è necessario fare riferimento a quanto accadde, sotto il profilo economico ed intellettuale, negli anni Settanta. Dal primo punto di vista, in quel decennio si arenò la spinta propulsiva, durata oltre un trentennio, prodotta dalle politiche economico-sociali del Welfare State, dal secondo punto di vista, invece, i «Nuovi filosofi» francesi si posero alla testa di un movimento di pensiero che fece dei «diritti umani» la nuova religione dominante nell’epoca della post-modernità dispiegata. Dal quel momento, il lupo di «Wall Street» penetrò nell’ovile socialista e, da allora, non è più uscito.
La «ragione liberale» ha così messo in atto il proprio dominio incontrastato. Ma in cosa consiste, di fatto, la filosofia liberale per Michéa? E’ presto detto: essa ha storicamente manifestato un intreccio indistinguibile di individualismo e pessimismo antropologico. I teorici liberali, a differenza del pensiero classico e di Aristotele, non ritengono affatto che l’uomo sia, preliminarmente, «animale politico», votato alla vita comunitaria. Al contrario, essi giudicano gli esseri umani aggressivi ed egoisti per natura: «Non esiste società, esistono solo individui» (p. 10). Nella loro ottica il mercato è l’unico dispositivo che permette agli individui di unirsi in rapporti reciproci, sia pure niente affatto solidali. E’ il contratto sociale a fondare la «società meno cattiva possibile» e lo Stato di diritto ha il compito di far rispettare le regole stabilite dal contratto. Viene così stabilita una sostanziale identità tra la logica mercatista e quella giuridica: «entrambi devono funzionare come sistemi “anonimi” […] come dispositivi “meccanici”» (p. 11). Le leggi sono ridotte a regole procedurali e l’economia diviene l’unica religione possibile. In tale contesto, la libertà liberale rende l’individuo: «proprietario privato di se stesso» e atto «a determinare autonomamente l’insieme dei suoi valori» (p. 11). La libertà liberale mostra, quindi, un volto spiccatamente anticomunitario, che giunge a negare perfino le identità naturali sul piano individuale, come mostra la teoria del gender.
Il relativismo mina dall’interno le leggi in quanto, in nome della laica religione dei «diritti dell’uomo», non è più possibile opporre resistenza al sorgere di sempre nuove esigenze giuridiche. Ciò che un tempo appariva, alla stessa morale borghese, come «vizio», può trasformarsi, in un lasso di tempo assai breve, in virtù. La Sinistra dei nuovi filosofi e dei Sessantottini, la Sinistra del «proibito proibire», proprio nel nome dei «diritti dell’uomo», ha letto l’azione dissolvente, rispetto ai legami sociali, del capitalismo, quale azione salvifica e liberatrice, progressiva e politicamente irrinunciabile. L’obiettivo polemico di tale Sinistra sono diventati, paradossalmente, proprio i «liberali», considerati erroneamente difensori dei valori tradizionali. Per comprendere perché mai i socialisti abbiano rinunciato alla rivoluzione o, quantomeno, a proporsi, quali avversari della modernizzazione, non solo tecnologica, promossa dal capitalismo, è necessario far riferimento alle tesi di post-strutturalisti, quali Foucault. Questi lanciò dai suoi volumi, l’invito a «vivere una vita non fascista»: «che consisterebbe nel rifiuto di accettare ogni imperativo morale come principio fondativo del proprio agire» (p. 13). Si tratta, in Foucault, di un fascismo astorico, fondato sui vincoli morali ereditati dal passato, che limiterebbero le nostre vite. Da qui, l’assassinio del Padre, quale simbolo dell’egemonikon, che la Sinistra post-sessantottina ha messo in atto, facendosi «compagna di strada» del capitalismo, divenuto rampante. Un caso di evidente eterogenesi dei fini.
I post marxisti sono stati irretiti nelle maglie della ragione liberale dall’idea di progresso, che ha reso la gauche mansueta, assuefatta allo «stato presente delle cose», complice della mercificazione della vita. Del resto, nelle pagine dello stesso Marx, era rilevabile un apprezzamento per l’azione storica disalienante, realizzata dalla borghesia, che lo indusse a sostenere posizioni anti ruraliste. Michéa, al contrario, ricorda che le società pre-capitaliste non hanno mai creato catastrofi sociali, umane ed ambientali, come quelle cui stiamo assistendo. In esse vigevano il diritto consuetudinario, le leggi comunitarie e le autonomie locali. Probabilmente, è proprio per questo che le rivoluzioni del XX secolo, come comprese Gramsci (la rivoluzione contro il Capitale), non ebbero quale soggetto rivoluzionario la classe operaia, integrata, per definizione, nel mondo borghese, ma ampie fasce sociali contadine. Michéa mostra, su diversi temi, una vicinanza teorica a Proudhon e al peronista di sinistra Laclau e ritiene non si debba respingere in blocco l’idea di libertà liberale, ma la si debba pensare in: «un’altra via filosofica» (p. 20). Questo è l’aspetto che meno ci interessa della sua proposta, in quanto rischia di invischiarla nel terreno scivoloso, quello liberale, al quale vorrebbe sottrarsi. Resta il fatto che instaurare un colloquio con il «socialismo comunitario» è conditio sine qua non imprescindibile, anche per quanti si riconoscano nel pensiero di Tradizione. Si tratta davvero di incamminarsi sulla strada delle «Nuove Sintesi».
Il saggio di Jean-Claude Michéa
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