Benvenuti all’inferno. Carcere e tortura in Israele
di GLI ASINI (Redazione)
“Benvenuti all’inferno” è il monito rivolto ai detenuti palestinesi al loro ingresso nelle carceri israeliane dopo il 7 ottobre. È anche il titolo dell’ultimo rapporto di B’Tselem “sul trattamento dei prigionieri palestinesi e le condizioni disumane cui sono stati sottoposti nel corso degli ultimi mesi”. Anche il sottotitolo è eloquente: “Il sistema carcerario israeliano come rete di campi di tortura”.
Vale la pena di ricordare anche il precedente rapporto di B’Tselem su Gaza che ribadiva l’urgenza di un cessate il fuoco per evitare lo sterminio dei civili e consentire la liberazione degli ostaggi in quella che un articolo di Haaretz il 16 agosto definisce una delle guerre più sanguinose del XXI secolo.
Altrettanto importante il lavoro dell’organizzazione nella segnalazione delle condizioni dei palestinesi nei territori in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Condizioni che si sono ulteriormente aggravate per le incursioni dei coloni sempre più violente espressamente volte all’espulsione dei residenti. Tutti questi appelli si concludono con un’invocazione accorata alle autorità internazionali perché intervengano per porre fine a soprusi e violenze. Appelli che, inutile dirlo, sono rimasti fino ad ora largamente inascoltati.
Mentre scriviamo, un editoriale di Haaretz -“Israel’s Jewish Jihad Organization” – denuncia il diverso trattamento riservato in carcere al terroristi ebrei tra i quali Amiram Ben Uliel condannato a tre ergastoli per aver, nel 2015, lanciato una bomba incendiaria nel casa della famiglia Dawabshe, nel villaggio di Duma, provocando la morte di tre persone tra cui un bambino di 18 mesi. “Welcome to Hell” raccoglie le testimonianze di 55 palestinesi, quattro dei quali cittadini israeliani, incarcerati nel periodo successivo al 7 ottobre e rilasciati senza essere stati sottoposti a processo.
All’indomani della pubblicazione del rapporto, Gideon Levy su Haaretz ha scritto che la denuncia descrive bene ciò che Israele è diventato, ciò che è diventata la sua democrazia, qual è oggi il volto del Paese. Un Paese che ritiene sia permesso fare di tutto a un terrorista, torturarlo e sodomizzarlo. Così come la violenza domestica di un marito definisce l’uomo, al di la di tutte le altre sue caratteristiche, così, dice Levy, il carcere, Sde Teiman, in cui è avvenuto lo stupro, definisce Israele.
E tuttavia quello che si legge nel rapporto di B’Tselem conferma che non si è trattato di un incidente isolato. La tortura è diventata pratica quotidiana, si è trasformata in disposizioni politiche. Davanti a tutto questo, l’opinione pubblica israeliana sembra indifferente ed è questa indifferenza che definisce il Paese, sostiene Levy, la legittimazione pubblica di questi atti. “Nel campo di detenzione di Guantanamo Bay – conclude Levy –, aperto dagli USA dopo l’11 settembre, sono stati uccisi 9 prigionieri in 20 anni. Qui da noi sono 60 in 10 mesi: c’è bisogno di aggiungere altro?” Sull’indifferenza dell’opinione pubblica israeliana si era appuntata l’attenzione di Amira Hass già il 18 dicembre in un articolo intitolato “Migliaia di bambini uccisi a Gaza. Come possono così tanti israeliani rimanere indifferenti?”
Riportiamo la traduzione della sintesi del rapporto disponibile nella sua interezza sul sito dell’organizzazione https://www.btselem.org/. (G.P.).
Quando siamo scesi dall’autobus, un soldato ci ha detto: “Benvenuti all’inferno”.
Dalla testimonianza di Fouad Hassan, 45 anni, padre di cinque figli e residente a Qusrah, nel distretto di Nablus, detenuto nella prigione di Megiddo.
Questo rapporto riguarda il trattamento dei prigionieri palestinesi e le condizioni disumane a cui sono stati sottoposti nelle carceri israeliane dal 7 ottobre 2023. Le ricerche di B’Tselem per la stesura del rapporto hanno incluso la raccolta delle testimonianze di 55 palestinesi che sono stati incarcerati nelle carceri e nelle strutture di detenzione israeliane durante questo periodo. Trenta dei testimoni sono residenti in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est; 21 sono residenti nella Striscia di Gaza; e quattro sono cittadini israeliani. Le testimonianze sono state fornite a B’Tselem dopo che i testimoni sono stati rilasciati dal carcere, nella stragrande maggioranza dei casi senza essere stati processati.
Le testimonianze indicano chiaramente una politica sistemica e istituzionale incentrata sul continuo abuso e sulla tortura di tutti i prigionieri palestinesi detenuti da Israele:
Frequenti atti di violenza grave e arbitraria, aggressioni sessuali, umiliazioni e degrado, privazione del cibo, condizioni igieniche impossibili, privazione del sonno, proibizione e misure punitive per il culto religioso, confisca di tutti gli effetti personali e comunitari, negazione di cure mediche adeguate: queste descrizioni compaiono ripetutamente nelle testimonianze, con dettagli orribili e con analogie agghiaccianti.
Nel corso degli anni, Israele ha incarcerato centinaia di migliaia di palestinesi nelle sue prigioni, che sono sempre servite soprattutto come strumento di oppressione e controllo della popolazione palestinese. Le storie presentate in questo rapporto rappresentano quelle di migliaia di palestinesi, residenti nei Territori occupati e cittadini di Israele, che sono stati arrestati dall’inizio della guerra, così come dei palestinesi già incarcerati il 7 ottobre che hanno sperimentato il massiccio aumento dell’ostilità da parte delle autorità carcerarie da quel giorno.
All’inizio di luglio 2024, c’erano 9.623 palestinesi detenuti nelle carceri e nelle strutture di detenzione israeliane, quasi il doppio rispetto a prima dell’inizio della guerra. Di questi, 4.781 erano detenuti senza processo, senza che venissero presentate le accuse contro di loro e senza accesso al diritto di difendersi, in quella che Israele definisce “detenzione amministrativa”.3 Alcuni erano imprigionati semplicemente per aver espresso solidarietà per le sofferenze dei palestinesi. Altri sono stati presi in custodia durante le attività militari nella Striscia di Gaza, con la sola motivazione di rientrare nella vaga definizione di “uomini in età da combattimento”. Alcuni sono stati imprigionati per il sospetto, fondato o meno, di essere operatori o sostenitori di gruppi armati palestinesi. I prigionieri costituiscono un ampio spettro di persone provenienti da aree diverse, con diverse opinioni politiche e con un’unica cosa in comune: l’essere palestinesi.
Le testimonianze dei prigionieri mettono a nudo i risultati di un processo affrettato in cui più di una dozzina di strutture carcerarie israeliane, sia militari che civili, sono state convertite in una rete di campi dedicati agli abusi sui detenuti. Questi spazi, in cui ogni detenuto è intenzionalmente condannato a un dolore e a una sofferenza gravi e incessanti, operano come campi di tortura de-facto.
Gli abusi costantemente descritti nelle testimonianze di decine di persone detenute in diverse strutture sono stati così sistematici che non c’è spazio per dubitare di una politica organizzata e dichiarata delle autorità carcerarie israeliane. Questa politica è attuata sotto la direzione del Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, il cui ufficio supervisiona il Servizio carcerario israeliano (IPS), con il pieno sostegno del governo israeliano e del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.
L’atroce attacco di Hamas e di altre organizzazioni armate palestinesi del 7 ottobre, che hanno preso come bersaglio un gran numero di civili, hanno profondamente traumatizzato la società israeliana, evocando in molti paure profonde e un istinto di vendetta. Per il governo e per il ministro Ben Gvir, ciò ha rappresentato un’opportunità per applicare con maggior forza la propria ideologia razzista, utilizzando i meccanismi oppressivi a loro disposizione. Tra questi, il sistema carcerario, per il quale è stata elaborata una politica volta a calpestare i diritti fondamentali dei prigionieri palestinesi.
Il 18 ottobre, il ministro in carica ha dichiarato lo “stato di emergenza carceraria” come parte della legislazione d’emergenza, producendo una grave e sostanziale violazione dei più basilari diritti umani dei prigionieri palestinesi. Koby Yaakobi, uno stretto collaboratore del ministro Ben Gvir, nominato da quest’ultimo commissario dell’IPS nel pieno della guerra, ha dichiarato il suo intento di “rivoluzionare” l’IPS in linea con le politiche del ministro non appena si è insediato, indicando come priorità assoluta il declassamento delle condizioni carcerarie.
Come rivelano le testimonianze, la nuova politica viene applicata in tutte le strutture carcerarie e a tutti i prigionieri palestinesi. Tra i suoi principi fondamentali vi è l’implacabile violenza fisica e psicologica, la negazione di cure mediche, la fame, il rifiuto dell’acqua, la privazione del sonno e la confisca di tutti gli effetti personali. Il quadro generale indica abusi e torture eseguiti sulla base di ordini, in totale spregio degli obblighi di Israele sia di diritto interno che di diritto internazionale.
Un chiaro indicatore della gravità della situazione e del degrado morale del sistema carcerario israeliano è dato dal numero di prigionieri palestinesi morti sotto la sua custodia – ben 60. Il rapporto include testimonianze rilasciate a B’Tselem su tre di questi decessi. Thaer Abu ‘Asab, un 38enne di Qalqiliyah detenuto nella prigione del Negev (Ketziot), è stato trovato morto nella sua cella il 18 novembre 2023. Sul suo corpo c’erano gravi segni di violenza. ‘Arafat Hamdan, un diabetico di 24 anni di Beit Beit Sira che si sottoponeva a trattamenti con insulina, è stato trovato morto nella sua cella il 24 ottobre 2023, due giorni dopo il suo arresto. Le testimonianze rivelano che gli è stato negato un trattamento medico adeguato. Muhammad a-Sabbar, 20enne della città di a-Dhahiriyah, affetto da una malattia intestinale che richiedeva una dieta speciale, è morto nel carcere di Ofer l’8 febbraio, secondo le testimonianze, a causa della mancanza di un’alimentazione adeguata, di cure mediche insufficienti e di una sfacciata noncuranza per la sua condizione.
Il passaggio da quelli che inizialmente sembrano essere stati atti spontanei di vendetta a un regime permanente e sistematico che elimina tutte le protezioni concepite per sostenere e garantire i diritti più elementari dei prigionieri palestinesi è stato reso possibile quando il governo ha sfruttato i suoi poteri per emanare “regolamenti di emergenza” draconiani e dannosi e li ha applicati in una sfacciata e grave violazione di molteplici norme e obblighi previsti dalla legge israeliana, dal norme internazionali sui diritti umani, dalle leggi di guerra e dal diritto umanitario. Le violazioni hanno incluso la commissione diffusa, sistematica e prolungata del crimine di tortura. Altrettanto importante è il fatto che, con queste azioni, Israele sta calpestando i principi morali basilari e i diritti umani più tutelati dei prigionieri detenuti dallo Stato.
I guardiani della legge, come l’Alta Corte di Giustizia e la Procura di Stato, incaricati sulla carta di sostenere lo stato di diritto e di proteggere i diritti umani, hanno chinato la testa sottomettendosi al programma di Ben Gvir e hanno permesso che gli abusi e la totale disumanizzazione di questi prigionieri diventassero la premessa per il funzionamento dell’intero sistema. Il risultato è un sistema specializzato in torture e abusi, dove, in ogni momento, molte migliaia di palestinesi sono tenuti dietro le sbarre, la maggior parte senza processo, e tutti in condizioni disumane.
TESTIMONIANZE DALL’INTERNO: LA REALTÀ DEI CAMPI DI TORTURA ISRAELIANI
Le testimonianze fornite a B’Tselem rivelano le seguenti condizioni prevalenti, coerenti e diffuse.
Sovrappopolazione e affollamento nelle celle: Le testimonianze indicano che l’occupazione delle celle è più che raddoppiata. Le celle destinate a sei prigionieri contenevano da 12 a 14 prigionieri alla volta, con i detenuti “in eccesso” costretti a dormire sul pavimento, a volte senza materasso o coperta.
Dopo il 7 ottobre 2023, […] l’amministrazione carceraria ci ha punito collettivamente e regolarmente. La prima cosa che ha fatto è stata aumentare il numero di detenuti in ogni cella da sei a 14. Questo ha significato una riduzione della privacy e un’attesa molto più lunga per usare il bagno della cella. Inoltre, i nuovi detenuti che arrivavano in cella dovevano dormire sul pavimento, perché c’erano solo tre letti a castello.
Dalla testimonianza di S.B., residente a Gerusalemme Est.
Niente luce solare e niente ora d’aria: Alcuni prigionieri si ritrovavano chiusi in cella per tutto il giorno; altri potevano uscire per un’ora ogni pochi giorni per fare la doccia. Alcuni non hanno mai visto la luce del giorno durante la loro permanenza in carcere.
Dopo il 7 ottobre, ci è stato anche proibito di uscire nel cortile. Per 191 giorni non ho visto la luce del sole.
Dalla testimonianza di Thaer Halahleh, 45 anni, padre di quattro figli e residente a Kharas, nel distretto di Hebron, detenuto nelle prigioni di Ofer e Nafha.
Appelli violenti, sempre più frequenti: Secondo le testimonianze, gli appelli e/o le perquisizioni delle celle avvenivano da tre a cinque volte al giorno. Nella maggior parte dei casi, i detenuti sono stati costretti ad accalcarsi, rivolti verso il muro, con la testa china verso il pavimento e le mani intrecciate sulla nuca, in alcuni casi inginocchiati in prostrazione come durante la preghiera. Queste pratiche non hanno più lo scopo originario e sono diventate un’occasione per le guardie carcerarie per scatenare gravi violenze e un ulteriore strumento per umiliare e degradare i detenuti.
Venivamo contati tre volte al giorno. Questo veniva fatto in modo umiliante, con le guardie che urlavano. L’unità arrivava pesantemente armata di lacrimogeni e manganelli. […] C’era anche una pratica di punizioni collettive e perquisizioni casuali delle celle circa una volta alla settimana. Ci costringevano a spogliarci e poi ci perquisivano, ci portavano fuori dalle celle nel corridoio e facevano una perquisizione approfondita della stanza. Poteva durare un’ora o anche diverse ore e comprendeva urla, aggressioni e percosse con i manganelli.
Dalla testimonianza di Muhammad Srur, 34 anni, padre di due figli e residente a Ni’lin, nel distretto di Ramallah, detenuto nel centro di detenzione di Etzion e nelle prigioni di Ofer e Nafha.
Negato l’accesso ai tribunali, alle agenzie di assistenza e ai consulenti legali: Come consentito dai regolamenti di emergenza, la stragrande maggioranza dei testimoni ha passato giorni, settimane e in alcuni casi mesi prima di essere portata per la prima volta davanti a un giudice, e anche in quel caso le udienze si sono svolte a distanza tramite Zoom. La presenza minacciosa delle guardie carcerarie ha impedito ai prigionieri di lamentarsi con i giudici o di denunciare le torture subite.
Ci hanno portato uno per uno in una stanza dove abbiamo assistito alle udienze via Zoom. Durante il tragitto, alcuni membri dell’IRF mi hanno dato un pugno molto forte sul petto. Nella stanza c’era una guardia che parlava arabo e ha ascoltato l’intera conversazione tra me, il giudice e l’avvocato. Ha minacciato che se mi fossi lamentato con il giudice, ne avrei pagato le conseguenze. L’avvocato mi ha detto prima dell’udienza che i giudici sapevano già tutto quello che succedeva in carcere, quindi non aveva senso parlarne. Tuttavia, durante l’udienza il giudice mi ha chiesto: “Ha subito violenze in carcere?” Non ho osato rispondere, perché temevo che le guardie si sarebbero vendicate e mi avrebbero picchiato ancora più brutalmente. […] Ogni volta che mi portavano nella stanza dove si tenevano le udienze del tribunale di Zoom, subivo lo stesso percorso di torture, percosse e umiliazioni. Tutti i detenuti del carcere hanno subito questa trattamento.
Dalla testimonianza di Firas Hassan, 50 anni, padre di quattro figli e residente a Hindaza, nel distretto di Betlemme, detenuto nella prigione del Negev (Ketziot).
Gli incontri con i legali sono stati negati per periodi sempre più lunghi, fino a 180 giorni, con il pretesto di “esigenze in evoluzione sul campo”.La maggior parte dei testimoni intervistati per questo rapporto non ha visto il proprio avvocato una sola volta durante l’intera detenzione. È stato inoltre impedito loro di incontrare i rappresentanti del ICRC, delle organizzazioni umanitarie e per i diritti umani, dell’ufficio del difensore pubblico (Public Defenders’ Office), o di altri organi ufficiali di controllo.
Confisca dei beni personali: Una delle prime misure adottate dalle autorità carcerarie all’inizio della guerra è stata la confisca di tutti i beni condivisi e personali che i prigionieri palestinesi tenevano nelle loro celle.
Non avevamo altri abiti oltre a quelli che avevamo addosso, quindi non potevamo cambiarli o lavarli. Indossavamo sempre gli stessi vestiti. Ogni giorno facevano una perquisizione e se trovavano un altro capo di abbigliamento lo confiscavano. Facevano anche perquisizioni casuali di notte e prendevano tutto quello che trovavano. Un prigioniero è rimasto con gli stessi vestiti per 51 giorni.
Dalla testimonianza di Sami Khalili, 41 anni, residente a Nablus, che stava scontando una pena detentiva dal 2003 ed era detenuto nella prigione del Negev (Ketziot).
ABUSI FISICI E PSICOLOGICI INCESSANTI
Le violenze istituzionali contro i prigionieri palestinesi da parte delle autorità carcerarie sono diventate più frequenti e più astiose dopo il 7 ottobre. Le testimonianze attestano violenze fisiche, sessuali, psicologiche e verbali, dirette a tutti i prigionieri palestinesi e perpetrate in modo arbitrario e minaccioso, di solito sotto la copertura dell’ anonimato.
La portata della violenza che emerge dalle testimonianze chiarisce che non si tratta di episodi isolati e casuali, ma piuttosto di una politica istituzionale, e parte integrante del trattamento dei detenuti.
Violenza fisica e intimidazione: Spray al peperoncino, granate stordenti, bastoni, mazze di legno e manganelli di metallo, calci e canne da fuoco, tirapugni e taser, cani da combattimento, percosse, pugni e calci: questi sono solo alcuni dei prassi utilizzate per torturare e abusare dei detenuti, secondo le testimonianze. Queste aggressioni sono state descritte come un appuntamento fisso della vita quotidiana in carcere e spesso hanno portato a gravi lesioni, perdita di coscienza, ossa rotte e, in casi estremi, persino alla morte.
Mi sono appoggiato a un muro. Avevo le costole rotte ed ero ferito alla spalla destra, al pollice destro e a un dito della mano sinistra. Per mezz’ora non ho potuto muovermi né respirare. Tutti intorno a me urlavano di dolore e alcuni detenuti piangevano. Molti sanguinavano. È stato un incubo indescrivibile.
Dalla testimonianza di Ashraf al-Muhtaseb, 53 anni, padre di cinque figli e residente nel distretto di Hebron, detenuto nel centro di detenzione di Etzion e nelle prigioni di Ofer e del Negev (Ketziot).
Abbiamo vissuto nella paura e nel panico. Le uniche espressioni che vedevamo sui volti delle guardie e delle forze speciali erano di rabbia e vendetta. Anche durante l’appello, schernivano i prigionieri, puntando su di loro raggi laser. Volevano solo che il prigioniero aprisse la bocca per poterlo aggredire, picchiare e schiacciare.
Dalla testimonianza di Khaled Abu ‘Ara, 24 anni, residente ad ‘Akabah, nel distretto di Tubas, detenuto nella prigione del Negev (Ketziot).
Violenza estrema durante i trasferimenti e i viaggi: Le testimonianze attestano gravi violenze contro i detenuti durante i trasferimenti tra le strutture carcerarie, nelle aree di attesa del carcere utilizzate come stazioni di passaggio prima dell’ingresso in carcere o del viaggio fuori dal carcere (note anche come “transizioni”), e talvolta durante i passaggi tra le ali e altre aree all’interno del carcere stesso.
Privazione del sonno: La privazione del sonno era parte integrante degli abusi quotidiani inflitti ai detenuti. In alcuni casi, la luce è rimasta accesa nelle celle per tutta la notte; in altri, le guardie mettevano musica ad alto volume o producevano suoni sgradevoli per impedire ai detenuti di dormire. Si tratta di atti che a volte equivalgono a vere e proprie torture.
Il giorno dopo sono arrivate due guardie e mi hanno portato in una cella di 1,5 metri quadrati senza servizi igienici. Sono rimasto in quella cella da solo per più di tre mesi. […] La luce era accesa 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e ho perso la cognizione del tempo. Non sapevo che ora fosse o che giorno fosse. Non avevo nessuno con cui parlare. Sono quasi impazzito lì dentro.
Dalla testimonianza di M.A., distretto di Hebron.
Violenza sessuale: Diverse testimonianze hanno rivelato l’uso ripetuto di violenza sessuale, in vari gradi di gravità, da parte di soldati o guardie carcerarie contro detenuti palestinesi. I testimoni hanno descritto colpi ai genitali e ad altre parti del corpo di prigionieri nudi; l’uso di strumenti metallici e manganelli per provocare dolore ai genitali; prigionieri nudi fotografati; la compressione dei genitali; la perquisizione a scopo di umiliazione e degradazione. Le testimonianze rivelano anche casi di violenza sessuale di gruppo e aggressioni commesse da un gruppo di guardie carcerarie o soldati.
Siamo stati portati in una stanza in cui erano sparsi molti vestiti, scarpe, anelli e orologi. Siamo stati spogliati e abbiamo dovuto toglierci anche la biancheria intima. Ci hanno perquisito con un metal detector portatile. Ci hanno obbligato ad aprire le gambe e a sederci semisdraiati. Poi hanno iniziato a colpirci sulle parti intime con il rilevatore. Ci hanno fatto piovere addosso una sequela di colpi. Poi ci hanno ordinato di fare il saluto militare a una bandiera israeliana appesa al muro.
Dalla testimonianza di Sami Khalili, 41 anni, di Nablus, che stava scontando una pena detentiva dal 2003 ed era detenuto nella prigione del Negev (Ketziot).
Una testimonianza particolarmente grave, citata a lungo nel rapporto, descrive il tentativo di stupro anale con un oggetto di un detenuto palestinese da parte di diverse guardie carcerarie. Episodi simili sono stati citati in altre testimonianze.
ASSENZA E RIFIUTO DI CURE MEDICHE
Molti testimoni hanno raccontato che le guardie carcerarie e il personale medico delle strutture di detenzione e delle prigioni si sono astenuti dal fornire cure mediche essenziali o si sono rifiutati di farlo, anche in situazioni di pericolo di vita. In alcuni casi, medici e altro personale sanitario hanno ammesso ai detenuti di aver ricevuto istruzioni di non fornire cure e farmaci ai detenuti, anche quando il trattamento in questione era considerato salvavita.
La negazione dell’assistenza medica e il trattamento improprio dei pazienti hanno spesso portato a esiti terribili, causando lesioni a lungo termine. Un esempio è la testimonianza di Sufian Abu Saleh, un 43enne di Gaza detenuto nella struttura di detenzione militare di Sde Teiman cui è stata amputata la gamba a causa delle ferite provocate dalla violenza dei soldati, dalle dure condizioni di detenzione, dalle cure inadeguate e dall’indifferenza del personale della struttura.
PRIVAZIONE DI CIBO E FAME
Le quantità ridotte di cibo fornite ai prigionieri palestinesi e l’apporto calorico limitato fanno parte della nuova politica dichiarata dal Ministro della Sicurezza Nazionale al momento del suo insediamento. I testimoni hanno parlato della fame estrema che erano costretti a sopportare e della scarsa qualità del cibo, che spesso era poco cotto o scaduto. La politica della fame ha influito sulla salute e sulla forma fisica dei prigionieri. La grave privazione alimentare ha provocato una significativa perdita di peso, a volte di decine di chilogrammi.
Il cibo era pessimo, sia per quantità che per qualità. Ci sono state date porzioni che non avrebbero soddisfatto nessuno. Il più delle volte il cibo era andato a male, ad esempio le uova e lo yogurt. Una volta, quando un detenuto nella cella accanto alla nostra chiese di cambiare il suo yogurt perché la data di scadenza era passata, punirono tutti i detenuti della cella: gli aizzarono contro i cani, li picchiarono con le mazze, li trascinarono in bagno e li picchiarono. Il giorno dopo si poteva ancora vedere il loro sangue sul pavimento.
Dalla testimonianza di Hisham Saleh, 38 anni, residente a-Sawiyah nel distretto di Nablus, detenuto nel carcere di Ofer.
IGIENE E INTERRUZIONE DELLA FORNITURA D’ACQUA
I testimoni hanno raccontato di essere stati costretti a vivere nella sporcizia durante la loro prigionia, a causa della confisca generalizzata del materiale per il bagno, la pulizia e l’igiene, dell’interruzione della fornitura d’acqua nelle celle e dell’accesso limitato alle docce, che non erano state pensate per un numero così elevato di prigionieri. In molti casi, anche i serbatoi dei servizi igienici avevano acqua corrente solo per un’ora al giorno. Le celle delle prigioni erano diventate invivibili e pericolose per la salute.. Queste condizioni hanno portato all’insorgere e alla diffusione di malattie e di vari problemi sanitari..
Sentivamo che i nostri corpi stavano marcendo a causa della sporcizia. Alcuni di noi avevano eruzioni cutanee. Non c’era igiene. Non c’erano sapone, shampoo, spazzole per capelli o tagliaunghie. Dopo un mese e mezzo abbiamo ricevuto lo shampoo per la prima volta. Non c’erano nemmeno prodotti per la pulizia, ed era impossibile pulire la cella o il bagno, o lavare i vestiti.
Dalla testimonianza di Muhammad Srur, 34 anni, padre di due figli e residente a Ni’lin, nel distretto di Ramallah, detenuto nel centro di detenzione di Etzion e nelle prigioni di Ofer e Nafha.
I rubinetti dell’acqua fredda nelle stanze funzionavano solo un’ora al giorno, dalle 14:30 alle 15:30. Il bagno – che si trova all’interno della cella – poteva essere usato solo a quell’ora, perché altrimenti era impossibile tirare lo sciacquone. Ma a volte le persone non riuscivano a trattenersi ed era disgustoso, per il fetore e le cattive condizioni igieniche.
Dalla testimonianza di Z.A., Gerusalemme Est.
KETER – LA FORZA DI REAZIONE INIZIALE DEL SERVIZIO PENITENZIARIO ISRAELIANO (IRF)
Tra le unità speciali dell’IPS, la Forza di Reazione Iniziale (IRF), nota in ebraico come Keter, che opera nelle carceri del Negev (Ketziot) e di Ofer, ha avuto un ruolo di primo piano nelle testimonianze rese a B’Tselem. Due testimoni l’hanno definita “lo squadrone della morte”.
La raccolta di testimonianze fornite a B’Tselem mostra che l’IRF è stato pesantemente coinvolto nella tortura e negli abusi fisici, sessuali e mentali dei prigionieri a partire dal 7 ottobre. Secondo i testimoni, il personale dell’IRF indossa maschere e uniformi nere senza etichette di identificazione. Sono armati di manganelli e armi da fuoco e spesso sono accompagnati da cani. In un caso, l’unità avrebbe usato una granata stordente. Sicuri di non dover affrontare alcuna conseguenza per le loro azioni, poiché è impossibile identificarli, i membri dell’unità hanno esercitato una violenza sfrontata e senza freni che equivale a sevizie e tortura.
IL PROGETTO DI INCARCERAZIONE DEL REGIME DI APARTHEID ISRAELIANO
La storia del progetto di incarcerazione di Israele non è iniziata il 7 ottobre, né con la nomina di Itamar Ben Gvir a Ministro della Sicurezza Nazionale. La situazione attuale, per quanto orribile, non può essere compresa appieno senza esaminare il ruolo chiave che questo progetto ha giocato nell’oppressione sociale e politica del popolo palestinese nel corso degli anni.
Il sistema carcerario è uno dei numerosi mezzi di controllo e oppressione utilizzati dal regime di apartheid israeliano per preservare la supremazia ebraica tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Per decenni, Israele ha usato l’incarcerazione di centinaia di migliaia di palestinesi di ogni estrazione sociale per minare e smontare il tessuto sociale e politico che lega la popolazione palestinese. Secondo varie stime, dal 19G7 Israele ha imprigionato oltre 800.000 uomini e donne palestinesi della Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) e della Striscia di Gaza, che rappresentano circa il 20% della popolazione totale e circa il 40% di tutti gli uomini palestinesi.
La portata di questo progetto di incarcerazione fa sì che quasi non ci sia famiglia palestinese senza un membro che sia passato per il sistema carcerario israeliano. Il progetto è sostenuto dalla stessa logica repressiva che si ritrova altrove nell’apartheid israeliano. Anche in questo caso, i palestinesi sono completamente disumanizzati e trattati come una massa omogenea e senza volto, priva di qualsiasi identità individuale. Tutti sono considerati “animali umani” e “terroristi” per il semplice fatto di essere dietro le sbarre, indipendentemente dal fatto che la loro detenzione fosse giustificata o arbitraria, legittima o meno. È così che il loro abuso e degrado, e la violazione dei loro diritti, diventano ammissibili.
Il progetto di incarcerazione è una delle manifestazioni più brutali ed estreme del sistema di controllo di Israele sui palestinesi. I prigionieri rilasciati che hanno parlato con B’Tselem per questo rapporto hanno descritto un’ampia gamma di misure utilizzate per il controllo e l’oppressione. Il valore delle loro testimonianze va oltre il fornire un resoconto della spaventosa realtà all’interno delle carceri e delle strutture di detenzione israeliane dopo il 7 ottobre. Sono una finestra su una realtà molto più ampia.
Data la funzione politica che il sistema carcerario israeliano svolge, nel contesto dell’accelerata disumanizzazione dei palestinesi nel discorso israeliano, di un governo radicalmente di destra, di un sistema giudiziario debole e travolto dal sentimento pubblico e di un ministro responsabile delle carceri che è orgoglioso di violare i diritti umani, questo sistema è diventato uno strumento per l’oppressione diffusa, sistematica e arbitraria dei palestinesi attraverso la tortura.
Le testimonianze presentate in questo rapporto forniscono un resoconto di come le strutture carcerarie israeliane siano state trasformate in una rete di campi di tortura.
Data la gravità degli atti, la misura in cui vengono violate le disposizioni del diritto internazionale e il fatto che queste violazioni sono dirette all’intera popolazione di prigionieri palestinesi quotidianamente e nel tempo – l’unica conclusione possibile è che nel compiere questi atti, Israele sta commettendo torture che equivalgono a un crimine di guerra e persino a un crimine contro l’umanità.
Facciamo appello a tutte le nazioni e a tutte le istituzioni e gli organismi internazionali, compresa la Corte penale internazionale, affinché facciano tutto il possibile per porre immediatamente fine alle crudeltà inflitte ai palestinesi dal sistema carcerario israeliano e per riconoscere il regime israeliano che gestisce questo sistema come un regime di apartheid che deve cessare.
FONTE:https://gliasinirivista.org/benvenuti-allinferno-carcere-e-tortura-in-israele/
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