Oggi Erdogan è un leader che ha accumulato potere sollecitando gli spiriti del nazionalismo a sfondo religioso. Un presidente che ha provato ad allargare la propria sfera d’influenza quasi in ogni direzione (l’ultima quella del Caucaso attraverso l’Azerbaigian in guerra con l’Armenia ma prima ancora la Libia, il Mediterraneo, la Siria…), mentre intanto metteva a dura prova la solidità economica del proprio Paese. Il combinato disposto di conservatorismo religioso, espansionismo anche militare e crisi finanziaria si è rivelato una strada senza ritorno. Ha allontanato l’elettorato delle grandi città, tanto che Istanbul e la capitale Ankara sono dal 2019 governate da sindaci del Partito repubblicano del popolo, cioè dall’opposizione. E quindi spinge il Rais sempre più verso l’elettorato tradizionalista e conservatore della grande provincia turca.
L’uscita dalla Convenzione di Istanbul, quindi, ha anche un valore politico. Scopre la strategia con cui Erdogan vuole preparare le prossime elezioni. Se fossero tenute alla naturale scadenza, cioè nel 2023, cadrebbero nel centenario della fondazione della Repubblica da parte di Kemal Ataturk. Ma nel 2018 si votò per le presidenziali e per le politiche insieme ed Erdogan potrebbe essere tentato di andare a elezioni politiche anticipate per prendere in contropiede i rivali, stoppare i nuovi partiti e conservare la maggioranza in Parlamento. E di farlo solleticando gli umori più retrivi del Paese. Con decisioni, appunto, come il ritiro dalla Convenzione che ebbe come primo firmatario, alla nascita, proprio Erdogan.
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