Leonardo e Eni, affari di Stato: le offensive giudiziarie e le loro conseguenze
di OSSERVATORE GLOBALIZZAZIONE (Andrea Muratore)
Leonardo ed Eni, tra le capofila nella galassia di partecipate pubbliche dell’economia italiana, sono state al centro, negli ultimi anni, di ambigue e complesse partite giudiziarie, spesso condotte in maniera discutibile e le cui conseguenze sono importanti sia sul piano economico che su quello politico.
La recente assoluzione di Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, suo predecessore e degli altri imputati del Cane a sei zampe nel processo sulla presunta maxitangente nigeriana da parte del Tribunale di Milano è un evento di grande rilevanza che invita a diverse riflessioni sul sistema-Paese sul versante politico, economico e strategico.
“Il fatto non sussiste”: la formula piena dell’assoluzione rappresenta, per dirla con Giulio Sapelli, una “vittoria dello Stato di diritto” al termine di una vicenda complessa, spesso torbida, in cui la cronaca giudiziaria si è unita a una crescente campagna mediatica di attacco e demonizzazione di Eni da parte di settori della stampa nazionale che ha contribuito a dare una visibilità nazionale eccessiva, e spesso inopportuna, al processo. Non è la prima volta che ciò accade in relazione alla galassia delle società partecipate e del suo top management: Scaroni è già uscito pulito e indenne dal processo sul caso Saipem-Algeria, e anche il campione italiano della Difesa, Leonardo, è stato oggetto di manovre giudiziarie di primaria grandezza.
La procura di Milano aveva dovuto già subire, in tal senso, un verdetto sfavorevole al termine del caso giudiziario riguardante Riccardo Orsi, ad di Finmeccanica (predecessore di Leonardo) dal 2011 al 2013, anno in cui fu arrestato per il caso delle presunte tangenti pagate dal governo indiano come intermediazione per l’acquisto di elicotteri AgustaWestland: nel 2019 la Cassazione ha definitivamente prosciolto Orsi da ogni accusa in tal senso. E recentemente Leonardo è finita direttamente nel mirino dopo che il tribunale milanese ha ha condannato a 6 anni di prigione e a una multa di 2,5 milioni di euro ciascuno Alessandro Profumo e Fabrizio Viola per i reati di aggiotaggio e di false comunicazioni sociali nel processo Monte dei Paschi. La condanna di Profumo, ex ad di Mps e attualmente alla guida di Palazzo Montegrappa, è stata addirittura usata come motivazione per chiederne le dimissioni da Leonardo, con la giustificazione il caso Mps possa in qualche modo ripercuotersi sull’operatività della società e sui suoi risultati economici e produttivi. Ipotesi smentita dalla postura internazionale assunta da Leonardo negli ultimi mesi ed anni, dai risultati del gruppo in termini di proiezione industriale, fatturato, valore aggiunto portato all’economia nazionale e all’occupazione.
I fatti in questione hanno dell’incredibile e unendo i puntini si possono porre sul tavolo diverse ipotesi e considerazioni.
In primo luogo, non possiamo non sottolineare la tendenza alla spettacolarizzazione mediatica dei processi che riguardano le figure apicali delle partecipate pubbliche. Dall’ampiezza della copertura mediatica alla pubblicazione di opere pensate come vere e proprie “bombe” in pieno giorno (pensiamo al celebre libro inchiesta del giornalista Claudio Gatti sull’Enigate) si crea molto spesso una delicata questione di sovrapposizione tra i vertici aziendali e le società stesse. Come se fossero queste ultime, in luogo dei loro esponenti, a dover riferire alla sbarra dei reati contestati e imputati a persone fisiche, sia che si tratti di loro dipendenti che di figure dell’ampia zona grigia dei consulenti, faccendieri e stakeholder di gruppi di tale importanza.
Questo tema è delicato e scivoloso perché le aziende a partecipazione pubblica sono apparati delicati e con una struttura complessa, in quanto i meccanismi della loro governance impongono giocoforza di trovare la statica ottimale tra tre forze altrettanto rilevanti. In primo luogo, chiaramente, quella legata alla loro natura di società quotate e dal considerevole fatturato (vicino ai 70 miliardi di euro per Eni e ai 14 per Leonardo nel 2019); in secondo luogo, avendo ai vertici della loro proprietà le quote maggioritarie del Ministero dell’Economia e delle Finanze esse hanno un legame diretto con la politica e con le centrali di elaborazione delle strategie e dell’interesse nazionale del sistema-Paese. Infine, la loro natura di società fortemente attente alla partecipazione alle dinamiche internazionali in settori ad alto tasso di competitività (come energia e difesa) ne rende necessaria la tutela della proiezione geopolitica.
In secondo luogo, società come Eni e Leonardo sono forti di un posizionamento talmente rilevante e sui generis nell’economia nazionale, nel mondo degli affari e, va sottolineato, nella storia dell’industria italiana da portare con sé un capitale reputazionale che è associato al loro ruolo di market mover nei rispettivi settori. Un potenziale che va, in prospettiva, anche oltre. Leonardo – scriveva nella giornata del 23 marzo il Corriere della Sera – è un gruppo che spazia “dai sistemi elettronici agli aerei ed elicotteri, dai sistemi spaziali ai nuovi materiali, dalla robotica ai nuovi materiali”; l’ex Finmeccanica, negli ultimi mesi, sta puntando fortemente a valorizzare il polo lombardo e piemontese del cluster aerospaziale nazionale in modo tale da tenersi vicina alle città in cui si stanno studiando le frontiere più importanti della manifattura più avanzata, Milano e Torino, ha scelto la vicina Genova come sede del supercomputer davinci-1, ha annunciato una partnership con Aruba per “una nuova offerta di soluzioni cloud integrate con sistemi di sicurezza gestita per elevate esigenze di affidabilità, prestazioni, sicurezza e garanzia della sovranità del dato”, è protagonista del programma del caccia Tempest e si prepara alla campagna spaziale di Artemis. Eni, dalla scoperta del maxi-giacimento Zohr in avanti, è tra i protagonisti del mondo del gas nel Mediterraneo, sta accelerando sul fronte della transizione energetica e, dal miliardario progetto ravennate per un impianto di cattura del Co2 alla nuova corsa all’idrogeno, esplora nuovi business e nuove prospettive strategiche.
Viene da sé pensare che mettere alla sbarra con astrusi “teoremi” i nostri campioni nazionali attaccandone i vertici, la reputazione e lo status significhi, di fatto, intralciare azioni e dinamiche di lungo raggio che contribuiscono all’interesse nazionale e alla competitività e alla reputazione del Paese nel mondo. I tenaci “giudici con l’elmetto” che, costruendo teoremi, non si limitano a chiedere il giudizio sulle responsabilità di persone fisiche con incarichi dirigenziali ma accelerano sulla colpevolizzazione delle società o, nel caso Profumo-MPS, compiono addirittura spericolati cambi di prospettiva si pongono, inavvertitamente, al servizio di potenziali manovre ostili volte a screditare l’attività di società come Eni e Leonardo.
In terzo luogo, non possiamo non rilevare la centralità assunta dal Tribunale di Milano come epicentro delle offensive giudiziarie che riguardano questi grandi gruppi. Il capoluogo lombardo è crocevia di interessi politici, finanziari, industriali e non appare casuale che molti degli attacchi giudiziari risoltisi poi in un nulla di fatto contro le imprese a partecipazione pubblica abbiano preso le mosse proprio dalle sue procure. Luca Fazzo su Il Giornale ha dato conto del fatto che all’interno dello stesso Palazzo di Giustizia stia, a tal proposito, montando una rabbia crescente contro la gestione del pm Fabio De Pasquale, passato di sconfitta in sconfitta nella sua campagna processuale sulle imprese di Stato. La procura di Milano rischia, dopo l’assoluzione di Scaroni, Descalzi e gli altri imputati del processo Eni-Nigeria, di dover ammettere di aver “dato la caccia per anni a un reato indimostrato e forse indimostrabile”. Per l’ennesima volta lanciandosi in una caccia vana su un terreno cedevole e pericoloso. Il sostituto procuratore generale Celestina Gravina ha parlato addirittura di un “enorme spreco di risorse”. L’inefficienza si somma ai torbidi: sta forse crescendo, a Palazzo di Giustizia, la consapevolezza della presenza di processi viziati da testimoni poco attendibili volti a coprire interessi inconfessabili e minacce alla tenuta delle aziende messe nel mirino?
In conclusione, non possiamo che rilevare la necessità di un approccio sistemico che consenta la tutela delle prerogative delle aziende a partecipazione pubblica e, pur nel rispetto delle leggi della Repubblica e del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, faccia chiarezza su depistaggi, manovre elusive e vere e proprie mistificazioni che accompagnano lo svolgimento e molto spesso anche la promozione stessa dei processi che riguardano i loro dirigenti e le loro attività. Ne va della sicurezza economica e occupazionale del Paese, del principio dei fair trial, troppo spesso calpestato per l’eccessiva esposizione mediatica degli imputati, in un certo senso dell’interesse nazionale di cui le aziende a partecipazione pubblica sono promotrici e strumento di proiezione. La garanzia dello Stato di diritto sta nella puntuale sconfitta del giacobinismo giudiziario alla prova dei processi. Quella dello Stato e delle sue prerogative politiche nell’evitare che i grandi gruppi in questione si trovino costretti a “pedalare” esposti al vento vedendo messi a repentaglio o in discussione affari, piani industriali e strategie a causa del marasma legato alle problematiche giudiziarie dei loro vertici.
Fonte: http://osservatorioglobalizzazione.it/le-opinioni-dellosservatorio/leonardo-eni-affari-di-stato/
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