Riscaldamento Globale, Guerra Fredda
di TELEBORSA (Guido Salerno Aletta)
Rispetto alla controversa decisione di Donald Trump di ritirare l’adesione degli USA dall’Accordo di Parigi sul Clima, l’immediato, ma ampiamente previsto cambiamento di fronte della Amministrazione Biden segna una svolta decisiva nella strategia americana volta a mantenere la sua sempre più insidiata egemonia.La Russia per un verso e la Cina per l’altro, assai più vigorosamente dell’Unione europea, rivendicano infatti da tempo un ruolo alla pari in un sistema delle relazioni internazionali non più fondato sull’eccezionalismo statunitense, unica superpotenza globale dopo la dissoluzione dell’URSS, ma multipolare.
L’Amministrazione Trump chiedeva un riequilibrio delle relazioni commerciali americane nei confronti dei partner che da decenni accumulano consistenti attivi strutturali: la leva dei dazi imposti sulle merci importate ne era lo strumento principale. La Cina, con il suo spettacolare saldo attivo, era il principale bersaglio di questo riequilibrio, che riguardava anche il Giappone, la Corea del Sud e la Germania.
L’indipendenza energetica americana, che è stata raggiunta di recente attraverso lo sfruttamento dei giacimenti di scisto, ha contribuito a ridurre la bolletta energetica che aveva appesantito per anni la sua bilancia commerciale. Ma lo sfruttamento economico di questa fonte, che si basa su pozzi piccoli, di costoso sfruttamento e di rapido esaurimento, impone di mantenere elevati i prezzi mondiali del petrolio e del gas: un loro livello troppo basso manderebbe fuori mercato il prodotto americano provocando il fallimento delle migliaia di imprese che in America coltivano questi giacimenti.
Negli USA c’è, d’altra parte, la consapevolezza della transitorietà di questa autosufficienza energetica: tra una decina d’anni, o magari qualcuno in più, questi giacimenti di scisto non saranno più in grado di assicurarla e si dovrà ricorrere nuovamente alle importazioni di prodotti energetici.
Nel frattempo, i principali Paesi esportatori di gas e petrolio, in particolare la Russia e l’Iran che si collocano in un’area geopolitica estranea all’influenza americana, si sono assicurati lauti incassi, indispensabili per il finanziamento delle rispettive importazioni.
La Cina, a sua volta, è diventata uno dei principali importatori di prodotti energetici: la sua crescita economica, nonostante le ottimizzazioni ed i risparmi, comporta comunque un aumento dei consumi energetici che vengono soddisfatti soprattutto con importazioni da Russia ed Iran. Anche l’Arabia Saudita, antico e fedele alleato degli USA, sta tra i fornitori.
L’Unione europea, avendo rinunciato alla prospettiva di costruire nuove centrali nucleari, e sostenendo da una parte il risparmio energetico e dall’altra la produzione di energia da fonti rinnovabili, ha compiuto passi consistenti in avanti.
Rispetto alla volontà americana di mantenere il proprio ruolo egemone a livello globale, la Russia, l’Iran e la Cina costituiscono, anche se per motivi diversi, un insieme di antagonisti che possono essere fortemente indeboliti usando come leva la lotta al cambiamento climatico e soprattutto la decarbonizzazione dell’economia.
Il ragionamento è questo: i cambiamenti climatici, caratterizzati da fenomeni metereologici sempre più estremi, dalla progressiva desertificazione di intere aree del pianeta e dalla siccità prolungata che comporta la perdita delle colture ed i conseguenti fenomeni migratori incontrollabili, sono tutti conseguenza del riscaldamento globale. Questo riscaldamento deriva dalla immissione nell’atmosfera del CO2 prodotto dall’uso delle fonti energetiche fossili.
Se si riuscisse a decidere a livello globale una progressiva limitazione dell’uso delle fonti energetiche fossili (carbone, petrolio e gas), l’America avrebbe tutto da guadagnare: innanzitutto perché si ridurrebbero fortemente i proventi delle esportazioni di Russia ed Iran. Per altro verso, la Cina dovrebbe effettuare massicci investimenti per sostituire innanzitutto le diffusissime centrali a carbone e poi per dotarsi di fonti energetiche da fonti rinnovabili. La competitività delle merci cinesi si abbatterebbe violentemente per via dei maggiori costi di produzione che deriverebbero dai nuovi investimenti, e soprattutto degli oneri finanziari straordinari implicati dal mancato ammortamento degli impianti di produzione di energia che sono stati realizzati tutti in tempi assai recenti.
Con un’unica mossa, gli USA metterebbero al tappeto i suoi avversari.
Non giunge dunque inattesa l’iniziativa assunta dal Presidente americano Joe Biden, di organizzare per videoconferenza un Summit on Global Climate Emergency, che si terrà il 22-23 aprile ed alla quale ha invitato 40 leader mondiali, tra cui il Presidente russo Vladimir Putin e quello cinese Xi Jinping. L’Iran non è stato invitato: sarebbe stato troppo rischioso offrirgli una tribuna di tale risonanza mondiale.
Questo Summit è una tappa preliminare rispetto alla United Nation Climate Change Conference (COP 26) che si terrà a Glasgow a novembre prossimo: l’obiettivo americano è di arrivare all’impegno da parte di ciascuno Stato di ridurre le proprie emissioni di CO2, da ufficializzare nell’ambito dell’ONU mediante “Nationally Determined Contribution”.
Questi impegni vincolanti sulle emissioni di CO2 nascondono una tagliola: preludono alla introduzione di sanzioni per gli inadempienti, magari attivando la “Carbon Adjustment Fee”, cui si accenna nel programma elettorale presentato dal ticket presidenziale Biden-Harris.
A quel punto, se la Cina o qualsiasi altro Paese non rispettasse i propri impegni, le rispettive esportazioni negli Usa verrebbero penalizzate economicamente: un tot di dazi ambientali per ogni tonnellata di CO2 emessa sforando il tetto.
La scommessa americana è rischiosa, perché la Cina ha già fatto sapere che il suo impegno in campo ambientale si colloca tra il 2030 ed il 2060, e che non intende farsi dettare i tempi dall’Occidente. Il rischio è di far gravare costi enormi e non recuperabili solo sulle industrie americane ed europee, mentre tutti i Paesi in via di sviluppo si aggregheranno alla posizione della Cina, rivendicando tempi più lunghi ed obblighi meno pressanti.
L’Occidente rischia di passare dalla parte del torto: pretenderebbe ora di salvare il Pianeta, imponendo oneri anche ai Paesi più poveri o di recente industrializzazione come la Cina, chi invece è il vero colpevole degli squilibri ambientali, perché inquina da più tempo e si appropria da secoli di una straordinaria proporzione delle risorse naturali.
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