Resistere alla “resilienza”: come il neoliberismo ha creato la narrazione della complessità e della resilienza, e come combatterla (parte I)
di GIACOMO BAGGIO
Il termine “resilienza” era originariamente usato nell’ambito della tecnologia dei materiali e descriveva una specifica proprietà degli stessi, segnatamente quella della resistenza alle sollecitazioni esterne. Fu all’inizio degli anni ’70 che esso venne applicato anche ad altri ambiti: da un lato se ne servì la psicologia infantile per designare la capacità dei bambini di crescere e condurre una vita normale nonostante i traumi subiti in tenera età; dall’altro venne adottato dalla scienza dei sistemi ecologici complessi per indicare la capacità di un ecosistema di sopravvivere e mantenersi nel tempo grazie alla coesione interna degli elementi che lo compongono.
Quest’ultima visione era in sintonia con le teorie economiche di Friedrick Hayek, il padre del neoliberismo, secondo cui le dinamiche del mercato – da lui considerate come naturali e ineludibili – erano troppo complesse per essere comprese e gestite da parte di una entità centralizzata (ad es. uno stato, o una banca centrale), dunque i singoli non potevano far altro che adattarsi agli eventi che sarebbero occorsi.
Questa visione, sebbene rigettata dai neoliberisti della scuola di Chicago, è stata ripresa dal mainstream neoliberale nel periodo post-crisi 2008 sia come giustificazione al tracollo finanziario, sia come base teorica per lo sviluppo di nuovi metodi di gestione dei rischi. Per quanto riguarda la Ue, a partire dal 2015 è stato istituito un gruppo di studio ad hoc sulla resilienza, e da allora “resilienza” è diventata una parola chiave del suo policy making e viene ora usata a profusione in tutti i suoi documenti ufficiali.
Come verrà evidenziato, l’uso del termine che viene fatto nell’ambito del policy making mantiene dei legami piuttosto blandi con la teoria dei sistemi ecologici da cui pretende di derivare; si tratta in realtà di una narrativa – molto fumosa e assai poco coerente – finalizzata a rivestire di una patina di credibilità le azioni di quelle stesse élite che pretendono di continuare a portare avanti le solite ricette neoliberiste (privatizzazioni, tagli alla spesa sociale, compressione dei diritti ecc.) nonostante il loro ormai conclamato e plateale fallimento.
1.Dall’ambito tecnologico a quello psicologico
Se consultiamo il vocabolario Treccani alla voce “resilienza” troviamo le seguenti definizioni: “resiliènza s. f. [der. di resiliente]. – 1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale. 3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.”
Come possiamo vedere, i primi due significati sono legati all’ambito tecnologico ed esprimono la qualità della resistenza fisica ad una pressione esercitata dall’esterno; il secondo include anche la tendenza a recuperare l’aspetto originario. Ma come si è passati al terzo significato? Come è successo che una proprietà relativa a metalli e tessuti venisse applicata all’ambito umano? (1)
Nei primi anni ’70 seguendo le orme di John Bowlby (1907-1990) e Mary Ainsworth (1913-1999) la psichiatria infantile iniziò ad investigare quali fossero gli effetti dei traumi infantili sul successivo sviluppo dei bambini e a raccogliere dati su questo tema. Questo portò a identificare tutta una serie di fattori di rischio che incidono profondamente sullo sviluppo del bambino (fra questi – ricordiamolo – la povertà risultò essere quello più globale e prominente) e a studiarne gli effetti nel corso della crescita. Fu nel contesto di questi studi che Norman Garmezy – unanimemente riconosciuto come il fondatore della ricerca sulla resilienza – fece una scoperta alquanto interessante: studiando dei pazienti affetti da schizofrenia notò come alcuni di essi nonostante la malattia riuscissero ad avere una vita sostanzialmente normale, con un lavoro stabile e delle relazioni di coppia di lunga durata. Inoltre, questi necessitavano di degenze ospedaliere molto più brevi rispetto agli altri.
Queste osservazioni portarono Garmezy a effettuare uno studio sullo sviluppo di un gruppo di bambini che avevano avuto genitori affetti da schizofrenia; i risultati – esposti in un influente articolo del 1971 (2) – rivelarono che questi avevano effettuato degli “aggiustamenti” sorprendenti, non sviluppando la schizofrenia nel 90% dei casi. Si trattava di bambini che – come dice Garmezy – “mostrano tutti i fattori che sono indice di funzionalità (3) – buone relazioni con i loro compagni, successo in ambito accademico, dedizione all’apprendimento e alla realizzazione di obiettivi di vita positivi [e] esperienze lavorative precoci e positive” (4).
Sulla base di queste scoperte Garmezy suggerì che oltre ai fattori di rischio la ricerca si dovesse interessare anche alle forze positive che consentono ai bambini di sopravvivere e adattarsi (nella letteratura in merito si usa il termine “adattarsi” – ingl. ‘to adapt’, o anche ‘to adjust’ – col significato di “correggere le influenze negative e adattarsi ad una realtà più ‘normale’”). Fu a partire da quel momento che i ricercatori si interessarono ai vari “fattori protettivi”, ovvero ai supposti costituenti base della resilienza. Si scoprì così che “anche quando esposti alle condizioni più orribili – incluse guerre, reclusione in campi di concentramento, abusi sessuali e fisici, e abuso di droghe da parte dei genitori – dal 50 al 70% dei bambini sopravviveva, conducendo poi vite normali dal punto di vista dello sviluppo” (5) .
Una buona panoramica sullo sviluppo della ricerca su questi temi e sui suoi risultati nel corso di un quarantennio è fornito da Anne S. Masten – uno dei protagonisti nella ricerca su psicopatologia dello sviluppo e resilienza – nel libro Ordinary Magic – Resilience in Development (2014) (6) . Il libro contiene fra l’altro una lista sintetica dei fattori di resilienza (resilience factors) ricorrenti in vari studi; questi sono: “cura effettiva dei figli da parte dei genitori e qualità del loro impegno genitoriale; stretta relazione con altri adulti capaci [di coadiuvare nell’educazione]; stretti rapporti di amicizia e di coppia; intelligenza e capacità di risolvere i problemi; autocontrollo, controllo delle emozioni, capacità di elaborare molti piani; avere una grande spinta motivazionale nel cercare di realizzare [quel che ci si è prefissati]; fiducia in se stessi; fede, speranza, credere che la vita ha senso; scuole efficaci; un vicinato e una collettività che svolgano la loro funzione” (7).
Lo studio della resilienza in psicologia è stato caratterizzato da un confronto serrato e molto proficuo fra il campo della psichiatria infantile (di approccio più pratico) e quello della psicopatologia dello sviluppo (più teorico), nel corso del quale si è potuto integrare la saggezza accumulata nel corso dell’esperienza clinica nel primo campo e i risultati della ricerca teorica del secondo. È probabilmente questa stretta relazione fra teoria e pratica, questa diretta constatazione della grande complessità di tutto ciò che è umano che ha suggerito agli esperti di resilienza una grande cautela nell’elaborare quantificazioni e applicazioni delle loro scoperte ad uso dei policy-makers.
2. Resilienza riferita ai sistemi ecologici complessi (il lavoro di C.S. Holling)
Per quanto la maggior parte delle persone continui a ricollegare istintivamente il termine “resilienza” all’ambito psicologico summenzionato e ritrovi in esso una qualità positiva, ovvero la capacità di far fronte alle difficoltà (si tratta peraltro di una “virtù” che ritroviamo in tutte le culture tradizionali insieme al coraggio, l’intraprendenza ecc.), l’accezione del termine più ampiamente usata al giorno d’oggi nei campi dell’economia, finanza, difesa ecc. è assai diversa; essa si è sviluppata a partire dallo studio dei sistemi ecologici.
Era il 1973 quando con il suo citatissimo articolo “Resilience and stability of ecological systems” Crawford Holling introduceva un nuovo approccio allo studio dei sistemi ecologici. Fino ad allora la ricerca in tale settore si era basata sul concetto di “equilibrio” o, per dirla in termini biologici, omeostasi (8): i sistemi ecologici erano ritenuti possedere la capacità di ritornare al precedente stato di equilibrio in seguito a perturbazioni provenienti dall’esterno, una immagine questa chiaramente derivata dalla meccanica classica e dalla termodinamica. Su queste premesse, la gestione dello sfruttamento delle risorse naturali (ad es. quanti merluzzi si possono pescare, o quanti abeti si possono tagliare) – ecosystem management – prevedeva una “massima rendita sostenibile” (maximum sustained yield), ovvero una quantità massima che poteva essere prelevata senza pregiudicare la capacità del sistema di ritornare allo stato originario.
Nei primi anni ’70, in sintonia con le molte voci critiche che condannavano i metodi intensivi in agricoltura e nella gestione delle risorse naturali paventando estinzioni di massa e livelli inaccettabili di inquinamento, Holling sviluppò un approccio diverso, adattando l’ecologia alla allora emergente “scienza della complessità” (complexity science) (9) e segnando un deciso allontanamento dall’idea di equilibrio: egli focalizzò lo sguardo non più sull’aspetto quantitativo (ad es. la quantificazione delle materie “estraibili” o del tempo necessario affinché un sistema recuperasse lo stato di equilibrio), ma su quello qualitativo riguardante la coesione degli elementi interni ad un sistema che ne assicurano la resilienza.
Come spiega Jeremy Walker: “Holling […] opera una distinzione fra una nozione già esistente che egli chiama ‘resilienza ingegneristica’ (engeneering resilience) e la sua alternativa, quella di una resilienza propriamente ‘ecologica’. La resilienza ingegneristica, associata alla allora dominante ecologia matematica, è una variabile astratta, semplicemente il tempo (t) del quale necessita un sistema per tornare ad un massimo di stabilità (o posizione di equilibrio) dopo un perturbamento. Il ritorno è semplicemente presunto, e lo stato di equilibrio è inteso come equivalente alla persistenza sul lungo periodo. Quello che invece Holling cerca di definire è una nozione complessa di resilienza che possa rendere conto della abilità di un ecosistema di rimanere coeso mentre è sottoposto a perturbazioni estreme. Se da un lato la stabilità si riferisce alla familiare nozione di ritorno all’equilibrio, dall’altro la resilienza ecologica designa le complesse interazioni biotiche che determinano ‘la persistenza delle relazioni all’interno di un sistema’; quindi, la resilienza è ‘una misura della capacità da parte di questi sistemi di assorbire variabili di cambi di stato, variabili indipendenti (driving variables), e parametri e nonostante ciò persistere’ (Holling 1973, p. 17)” (10)
In sintesi, Holling ritiene che la presupposta tenuta di un sistema potrebbe legittimare livelli di sfruttamento che sul lungo periodo risulterebbero destabilizzanti. A questo approccio basato sulla supposizione di conoscenza se ne dovrebbe secondo lui sostituire un altro che concepisca i sistemi non come di per sé stessi stabili, ma come soggetti a dei cicli di cambiamento che possono prevedere fluttuazioni anche molto rilevanti; in tale contesto l’elemento centrale da considerare sarà quello della resilienza dei sistemi stessi (ovvero la coesione degli elementi che li costituiscono) che consente loro di assorbire eventuali shock man mano che questi si presentano e continuare a sussistere (11) .
Il cambio di prospettiva operato da Holling nel campo dell’ecologia esercitò nel corso degli anni un’enorme influenza nei più svariati ambiti (quello della sicurezza, della pianificazione urbana ecc.), e impose tutta una serie di posizioni epistemologiche (in primis la sfiducia nella possibilità di prevedere gli eventi e l’enfasi sulla necessità di adattarsi all’inevitabile) che verranno più o meno consapevolmente accettate dal discorso dominante basato sulla resilienza. In questo senso, le parole conclusive del suo articolo del 1973 sono assai emblematiche:
“Un approccio gestionale basato sulla resilienza […] enfatizzerebbe la necessità di lasciare le opzioni aperte, la necessità di esaminare gli eventi in un contesto regionale piuttosto che locale, e la necessità di enfatizzare l’eterogeneità. Deriverebbe da ciò non la presunzione di una conoscenza sufficiente, ma il riconoscimento della nostra ignoranza; non il presupposto che gli eventi futuri sono previsti, ma che questi saranno imprevisti. Il framework della resilienza può permettere questo cambio di prospettiva, perché non richiede una precisa capacità di predire il futuro, ma solo la capacità qualitativa di ideare sistemi che possono assorbire [gli shock] e adattarsi a eventi futuri qualunque forma imprevista essi possano assumere.” (Holling 1973, p. 21)
In seguito al successo delle sue teorie, nel 1999 Holling formò insieme ad altri ecologisti la Resilience Allience, prefiggendosi lo scopo di estendere le idee connesse all’approccio della resilienza ben al di là della sfera ecologica: l’Alleanza proponeva infatti di intendere la resilienza come proprietà inerente a quell’unico sistema complesso che includeva oltre agli ecosistemi anche le società umane. Tale sistema complesso – indicato col termine “Panarchia” – era definito come “la struttura in cui i sistemi, sia quelli naturali (e.g. foreste) che quelli umani (e.g. capitalismo), che quelli combinati umano-naturali (e.g., istituzioni che governano l’uso delle risorse naturali, come il Servizio Forestale), sono interconnessi in continui cicli adattivi di crescita, accumulazione, ristrutturazione e rinnovo” (12) .
Ciò che rendeva possibile una comune teorizzazione delle dinamiche evolutive in sistemi così diversi era l’assunto secondo cui ogni sistema poteva essere definito attraverso un concetto di “capitale” – sia esso finanziario, organizzativo, o biofisico – che esprimeva il potenziale inerente a un sistema che è disponibile per il cambiamento. A partire dal 2007 è lo Stockholm Resilience Center il principale organismo (ampiamente transnazionale) che si fa carico della elaborazione teorica finalizzata ad adattare le teorie di Holling ai vari campi (politiche economiche, urbanistiche, della sicurezza ecc.). Come spiega bene Walker, esso esercita una enorme influenza sulle politiche di governi e istituzioni sovranazionali:
“[…] lo Stockholm Resilience Centre aspira ad essere molto più che una piattaforma per l’applicazione della scienza della resilienza all’ambito strettamente ambientale. Attraverso le sue pubblicazioni sui vari giornali, i suoi simposi, report, consulenze e collaborazioni con istituzioni del calibro delle Nazioni Unite, rivela l’ambizione di fornire una teoria generale dei sistemi per la ‘governance socio-ecologica’ ad uso diretto dei policymakers nel campo dell’economia dello sviluppo.” (Walker e Cooper 2011, p. 155)
Per concludere, è importante mettere in rilievo la parabola evolutiva delle teorie di Holling, tenendo conto anche dello sfondo storico e geopolitico in cui si sono sviluppate. La teoria dei sistemi complessi (che fa parte della cosiddetta “second-order cybernetics”) era nata nel contesto della critica da parte di ambienti libertari ed ecologisti, spesso di sinistra, alla gestione accentratrice e dirigistica della logistica nel periodo della Guerra Fredda (quella che va sotto il nome di “first-order cybernetics”) (13), basata sul falso presupposto della onniscienza dei decisori; essa forniva degli strumenti di analisi più raffinati e metteva al contempo in rilievo la complessità dei sistemi, la limitatezza della conoscenza umana e quindi della capacità di gestione pianificata unilaterale.
Tuttavia, questa critica – che in linea di principio avrebbe dovuto suggerire un approccio basato sulla prudenza e sull’allargamento del processo decisionale a più attori portatori di interessi e punti di vista diversi – si trasformò ben presto in una ideologia al servizio del potere costituito di marca neoliberale che giunse finanche a giustificare le crisi ecologiche – in termini del tutto hayekiani (si veda su questo la sezione seguente) – come “shock creativi”, ovvero eventi impattanti che consentono al sistema di svilupparsi ulteriormente verso sempre nuove forme.
Quello incentrato sulla resilienza è fra l’altro un framework teorico autoreferenziale che tende a inglobare in se stesso e metabolizzare tutte le “critiche deboli” che gli vengano mosse: nel momento in cui qualcuno ponesse la questione della incapacità da parte del sistema neoliberale di garantire stabilità ed equilibrio, gli verrebbe risposto che le crisi – lungi dall’essere responsabilità di una precisa leadership – sono parte costitutiva necessaria e ineliminabile di quell’unico sistema che include sia il mondo naturale che quello della società umana. Il pensiero della resilienza va dunque sottoposto a una critica radicale, che non ne accetti in partenza i presupposti teorici e che sappia scorgere dietro la sua apparente neutralità e scientificità gli assetti di potere che tende a legittimare e perpetuare (14).
[continua]
Note
1) Di seguito ci rifacciamo come fonte principale alla bella sintesi storica di R. Fox Vernon (2004).
2) Garmezy 1971, “Vulnerability research and the issue of primary intervention”, in American Journal of Orthopsychiatry, 41 (1), 101-116.
3) Il termine “funzionalità” traduce l’inglese “competence”, un concetto ricorrente nella letteratura psicologica in questione. Musten lo definisce come “capability for effective function in the environment; manifested capacity for positive adaptation in regard to accomplishing expected developmental tasks” (Musten 2014, p. 307).
4) Garmezy 1971, p. 114 (cit. in Vernon 2004, p. 16).
5) Vernon 2004, p. 16.
6) Questo libro riprende ampliandole le risultanze di un articolo del 2001 “Ordinary magic: Resilience processes in development” pubblicato su American Psychologist, 56 (3), 205-220.
7) “1. Effective caregiving and parenting quality. 2. Close relationships with other capable adults. 3. Close friends and romantic partners. 4. Intelligence and problem-solving skills. 5. Self-control; emotion regulation; planfulness. 6. Motivation to succeed. 7.Self-efficacy. 8. Faith, hope, belief life has meaning. 9. Effective schools. 10. Effective neighborhoods; collective efficacy” (Musten 2014, p. 148).
8) L’omeostasi indica l’attitudine propria degli organismi viventi, siano essi cellule, individui singoli o comunità, a mantenere in stato di equilibrio le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne.
9) La complexity science non è in realtà una teoria organica, ma piuttosto un insieme di teorie e strumenti concettuali derivati da campi del sapere molto disparati. Ha la caratteristica di occuparsi di sistemi complessi e di problemi che sono dinamici, non predittibili e multi-dimensionali. Diversamente dal pensiero tradizionale basato su causa-effetto, è caratterizzata dalla non-linearità.
10) Walker e Cooper 2011, p. 146
11) Cfr. su questo anche Walker e Cooper 2011, p. 146: “Holling points to the dangers of the management theory of ‘maximum sustained yield’ (MSY), long dominant in industrial forestry and fisheries, with its claims to be able to enumerate a fixed quantity of ‘surplus’ cod or spruce that can be harvested year in year out, without such behavior undermining the ability of the ecosystem to recuperate its own productivity. Holling’s argument here (mirroring Hyman Minsky’s post-Keynesian account of financial crises) is that the long-term expectation of stability may be inherently destabilizing”.
12) Goldman L., Holling C.S. (eds) 2002, Panarchy: Understanding Transformations in Human and Natural Systems, cit. in Walker e Cooper 2011, p. 147.
13) La cibernetica si presenta come una teoria unificante che tenta di sviluppare teorie e concetti appropriati per i sistemi biologici e fisici, naturali e artificiali. In quella che viene definita “first-order cybernetics” (complesso di teorie sviluppatosi fra il 1946 e il 1953) l’individuo si pone come osservatore esterno rispetto a un certo sistema e cerca di identificare gli elementi del sistema stesso, le loro caratteristiche, i pattern delle loro interazioni e i confini che essi vengono a creare. Nella “second-order cybernetics” (sviluppatasi negli anni ’60-’70) invece l’osservatore è concepito come parte attiva coinvolta a pieno titolo nelle dinamiche del sistema stesso, per cui l’immagine della realtà è vista come una rappresentazione non statica ma relazionale.
14) Sulla parabola evolutiva delle teorie di Holling e sulla loro impermeabilità a quelle “critiche deboli” che ne accettano implicitamente i presupposti cfr. Walker e Cooper 2011, pp. 156-157.
2 risposte
[…] Qui la prima parte del saggio […]
[…] Qui la prima e qui la seconda parte del saggio […]