Resistere alla “resilienza”: come il neoliberismo ha creato la narrazione della complessità e della resilienza, e come combatterla (parte II)
di GIACOMO BAGGIO
3. Complessità e limitatezza della conoscenza in Friedrich Hayek (15)
Il tentativo da parte di Holling di costruire un sistema teorico interdisciplinare in cui un unico insieme di concetti poteva venire applicato sia al mondo naturale che a quello umano richiama da vicino la teoria elaborata da Hayek a partire dagli anni ’80 di ordine spontaneo dei mercati e della evoluzione sociale, e fu probabilmente da quest’ultima influenzato. Diversamente dai suoi colleghi americani della scuola di Chicago (Gary Becker, George Stigler, Milton Friedman) che si avvalevano di metodologie positiviste di analisi quantitativa e di modelli di equilibrio economico, Hayek giunse a ripudiare decisamente l’idea stessa di equilibrio e a esprimersi in favore di un ordine spontaneo che evolve attraverso un processo di selezione naturale.
Il movimento spontaneo del mercato col suo complesso meccanismo di formazione dei prezzi è posto come dato primordiale e ineludibile; in tale contesto, ogni tentativo di previsione e di intervento correttivo sarebbe non solo illusorio, ma addirittura dannoso in quanto interferendo con la dinamica naturale causerebbe ulteriori scompensi. È a partire da questi presupposti teorici che Hayek critica non solo la pianificazione economica di stampo keynesiano, ma anche le pretese razionalistiche dei neoliberisti della scuola di Chicago.
Si può chiaramente vedere come quella avanzata da Hayek non sia semplicemente una teoria economica ma una vera e propria epistemologia improntata – similmente alle posizioni di Holling – alla limitatezza della possibilità di conoscere (16) e alla incertezza estrema di fronte ad un futuro che non può essere previsto. I sistemi sociali – sostiene Hayek attingendo a piene mani dalla teoria dei sistemi complessi – sono parificabili ai sistemi biologici ora definiti dagli scienziati come complessi, adattivi e non-lineari; essi non sono soggetti alle leggi di previsione e quantificazione che governano i sistemi fisici semplici della meccanica classica.
Conseguenza diretta di questo “naturalismo” (o, potremmo anche dire, determinismo fatalistico) hayekiano è la concezione per cui i fattori perturbanti (gli shock esterni) di maggiore o minore intensità non solo sono inevitabili ma sono per di più necessari alla creatività della complessità organizzata (17) . Nell’impossibilità di prevedere gli eventi e di modificare le condizioni esterne, il soggetto non può quindi
4. Resilienza nel discorso mainstream post-crisi 2008: un ritorno ad Hayek?
Per quanto il “naturalismo” hayekiano – nel quale ritroviamo a pieno titolo il discorso della complessità inconoscibile e della resilienza personale come unico possibile atteggiamento di fronte alla mutevolezza del tutto – sia stato deriso dagli esponenti della scuola neoliberista di Chicago e ricacciato in secondo piano fino a tempi recenti, diversi studiosi hanno rilevato come questo sia ricomparso prepotentemente sulla scena dopo la crisi del 2008 da un lato per giustificare il disastro causato dall’azione deliberata di scellerati operatori finanziari e scaricare i danni sulla collettività, e dall’altro come base teorica per l’elaborazione di nuovi metodi di gestione dei rischi finanziari. Di seguito analizziamo questi due aspetti.
a. Complessità come alibi per il disastro finanziario del 2008
Se le dinamiche dei fenomeni del mercato (che per Hayek rappresenta la “suprema ratio”) sono in definitiva non prevedibili e non controllabili da alcuna autorità centrale, ne consegue che uno stato o una banca centrale non possano prevenire una crisi finanziaria, ma soltanto intervenire quando questa si è già verificata cercando di porre rimedio ai suoi effetti devastanti. Questa è la giustificazione teorica alla pratica del bailout (salvataggio) per cui lo stato interviene ex post per salvare con soldi pubblici gli stessi istituti finanziari che hanno giocato col rischio a suon di competizione estrema, utilizzo di leve finanziarie e speculazione. Questa indebita sottrazione di ricchezza alla società civile si configurerà peraltro come una ulteriore imposizione di misure neoliberiste (taglio del welfare, privatizzazioni ecc.); si genererà così un circolo vizioso che incentiva la finanza speculativa e impoverisce l’economia reale: i disastri prodotti dal neoliberismo si curano con ulteriori dosi di neoliberismo.
Gli appelli alla resilienza da parte del mainstream (e in particolare dei governi conniventi con la finanza) fanno appunto pendant con queste pratiche di salvataggio: si esorta gli individui ad adattarsi a un ambiente economico e sociale sempre più degradato occultando le responsabilità reali di chi quell’ambiente ha creato. Ma tornando al summenzionato tema della complessità in campo finanziario, è lecito chiedersi se questa sia un dato intrinseco alle dinamiche dei mercati (e quindi ineliminabile) (18) o sia piuttosto il risultato di decisioni consapevoli.
Come spiega molto bene Mavelli (19) , negli sviluppi che hanno portato alla drammatica crisi del 2008 la complessità della finanza non è da considerarsi in alcun modo come un dato “naturalistico”, ma come un risultato coscientemente perseguito dagli operatori finanziari. Questo per una ragione molto semplice: prodotti finanziari molto semplici e trasparenti portano margini di profitto molto bassi; e all’opposto, la loro crescente complessità ne aumenta il rischio e fa quindi sì che ci si possa guadagnare sopra molto di più (20). La finanza speculativa predilige l’azzardo e prolifera in contesti dove la complessità impedisce una valutazione chiara e dove il rischio è elevato.
Complessità e resilienza sono dunque i due cardini sui quali si regge la narrazione neoliberista post-crisi; essi si coimplicano e si avvalorano a vicenda. Come spiega Mavelli, non si tratta soltanto di espedienti propagandistici, ma di vere e proprie tecniche di governo: “Dopo la crisi non ci troviamo più davanti a prospettive di prosperità e crescita, ma bensì alla possibilità di un nuovo incombente disastro. In questo scenario, resilienza e complessità sono tecniche di governo (technologies of government) che si rafforzano a vicenda: mentre la resilienza serve a garantire la preparazione di fronte alla catastrofe e l’adattamento alle sue conseguenze, la narrativa egemonica della complessità è ciò che rende possibile l’accettazione della resilienza.” (Mavelli 2019, p. 232)
Il secondo modo in cui è stata usata la narrativa della resilienza è quello di fungere da base teorica per l’elaborazione di nuovi metodi di gestione dei rischi finanziari. Già nel 2006 la Federal Reserve Bank di New York aveva tenuto una conferenza in cui valutava il possibile utilizzo dei modelli degli ecosistemi complessi per ripensare le dinamiche del rischio nei mercati finanziari. Si era concluso che la “dinamica del rischio” in campo finanziario presentava grandi affinità con il mondo fisico, e la parola “resilienza” era stata identificata come parola d’ordine per lo sviluppo di nuovi modelli di gestione del rischio.
Il periodo post-crisi 2008 è stato caratterizzato da un crescente interesse da parte di banchieri e gestori dei rischi finanziari verso la teoria dei sistemi complessi. Uno dei personaggi che più si è fatto portavoce di questo “svolta della complessità” è Andrew Haldane, direttore esecutivo per la stabilità finanziaria della Bank of England. In un influente discorso del 2009 (21) egli mise in luce i – supposti – paralleli fra lo sviluppo della crisi SARS e gli effetti del “contagio” dovuti al collasso della Lehman Brothers, e affermò che i sistemi finanziari avrebbero dovuto essere compresi sulla base dei sistemi ecologici adattivi complessi.
Su queste premesse Haldane propose di affiancare alla attuale pratica degli stress-test volti a “domare” il rischio di fallimento bancario una serie di tecniche futurologiche non predittive (non-predictive futurological techniques) come ad esempio lo scenario planning che si basa su ipotesi soggettive e logica controfattuale (counterfactual logic) per simulare possibili futuri stati del mercato. Si vede come questo approccio condivida con il pensiero di Hayek l’impossibilità di una conoscenza perfetta e la limitatezza della previsione. Tuttavia, mentre per Hayek questo dovrebbe portare alla rinuncia a ogni tentativo di regolamentazione, per Haldane e i suoi estimatori questo diviene il punto di partenza per auspicare una completa riforma del sistema di gestione del rischio attraverso tutta una serie di nuovi strumenti.
Lo scopo di queste nuove norme di gestione non sarebbe affatto volto a ridurre la complessità o a tornare alla regolamentazione della finanza che esisteva in passato, ma bensì a rendere la complessità “più gestibile” limitando i rischi sistemici e migliorando la “resilienza” del sistema finanziario nel suo insieme. Possiamo osservare come la parificazione da parte di Handale dell’effetto domino innescato dal fallimento della Lehman Brothers alla diffusione della SARS serva a “naturalizzare” un evento che in realtà si è scatenato a partire da precise scelte umane, occultando così le responsabilità degli operatori finanziari.
L’annullamento (o quantomeno il marcato sbiadimento) di una linea di demarcazione fra le catastrofi generate da fattori naturali (ad es. un tifone, un terremoto ecc.) e quelle dovute a specifici fenomeni umani (ad es. attacchi terroristici, crolli finanziari ecc.) è in effetti uno dei tratti tipici del framework della resilienza e si è imposto già nel corso delle revisioni al piano per la sicurezza nazionale USA (National Strategy for Homeland Security) effettuate dal 2002 del 2007; anche in quest’ultimo caso l’idea di imprevedibilità degli attacchi si traduce in un rigetto dell’idea di prevenzione in favore di una permanente “cultura della preparazione” (culture of preparedness) imperniata sulla resilienza per cui non solo i settori militari ma anche quelli civili, e finanche la popolazione tutta dovrebbero vigilare continuamente, vivendo nell’ansia costante di venire colpiti da una qualche sciagura improvvisa e imprevista, e per di più oberati dell’assurdo e subdolo imperativo morale del “dover essere pronti” (qui si vede bene come anche il confine fra normalità ed emergenza, e fra ambito militare e civile sia stato obliterato) (22).
Quanto all’adozione dei nuovi sistemi non-predittivi di gestione del rischio finanziario, ricordiamo solo che questi consistono nell’immaginare futuri eventuali scenari – di solito i peggiori – e nel verificare poi la tenuta del sistema in relazione a questi. Mentre i metodi predittivi si basavano sulla raccolta di informazioni relative ai trend del passato che servivano da base per prevedere gli sviluppi futuri (un approccio che non esclude il concetto di prevenzione), pratiche di tipo euristico come quelle dello scenario planning danno per scontato che il futuro sia del tutto impenetrabile e lavorano su una gamma di scenari ipotetici del terzo tipo la cui costruzione è largamente arbitraria.
L’aleatorietà di questi strumenti li rende assai simili alla sfera di cristallo della veggente, al punto che è assai difficile immaginare che essi servano realmente a scongiurare il pericolo di ulteriori collassi. Semmai, più verosimilmente, serviranno a costruire un nuovo framework operativo per il settore finanziario e ad imporre nuovi standard e procedure alle banche. Essere i padroni del framework implica la possibilità di controllo e dominio, sia a livello ideologico che pratico.
Concludiamo questa sezione chiedendoci se esista effettivamente una stretta relazione fra il framework della resilienza elaborato in ambito finanziario di cui abbiamo qui discusso e le teorie ecologiche da cui lo stesso pretende di derivare.
Su questo tema J. Joseph si è espresso in modo molto chiaro e illuminante: “per quanto la ‘resilienza’ appaia a prima vista come una teoria dei sistemi, il suo effetto principale è quello di enfatizzare la necessità di un adattamento a livello individuale. L’ontologia conservatrice che ci sta dietro (l’acronimo politico è TINA, o there is no alternative) è condivisa da tutta una serie di altre concezioni contemporanee della società come reflexive modernity, risk society, network society e information age le quali unanimamente avanzano l’idea secondo cui dovremmo cambiare il nostro comportamento e adattarci a ciò che è fuori dal nostro controllo. La letteratura ecologica è chiaramente più sofisticata nel modo in cui discute in termini teoretici di adattabilità. Gran parte dei documenti politico-amministrativi, di strategie per la sicurezza e articoli prodotti dai think-tank fanno brevi riferimenti alle origini del concetto in tale letteratura, ma poi se ne disinteressano completamente. Dal punto di vista delle politiche, ciò che conta è solo l’idea che viviamo in un mondo che è cambiato […] l’ultima cosa a cui aspirano questi documenti è intraprendere una complessa analisi filosofica dei sistemi adattivi. Essi sono interessati primariamente a giustificare nuove forme di governance e sono guidati più da un pregiudizio individualistico che dalla teoria dei sistemi” (23).
5. La narrativa della resilienza in ambito Ue
La Ue si trova attualmente in prima fila nella elaborazione di una narrazione incentrata sulla resilienza che faccia da cornice teorica alle sue politiche. Come ci informano i documenti ufficiali Ue, fin dal 2015 il Joint Research Centre (JRC) (24) lavora per definire il concetto di resilienza, per elaborare parametri di misurazione della stessa e per inserire tali parametri nel processo politico-decisionale Ue.
Questa la sintesi che ne fa lo stesso JRC: “Negli ultimi decenni, la società europea si è trovata ad affrontare varie sfide di diverso tipo. La nostra società sta venendo trasformata da cambiamenti climatici, squilibri demografici e pressioni dei flussi migratori, solo per menzionare alcuni esempi. Pertanto, diviene ancora più rilevante lo studio della nostra abilità di far fronte [a questi fenomeni] e di prosperare nonostante le difficoltà. In questo contesto, la resilienza è definite come l’abilità di far fronte a degli shock e a persistenti cambiamenti strutturali in modo tale che il benessere sociale venga preservato, e senza compromettere l’eredità che lasceremo alle future generazioni. Quindi, la nostra società dovrebbe essere resiliente in una maniera sostenibile. Anche se nella letteratura scientifica non troviamo una definizione univoca del concetto di resilienza, il Centro di Ricerca Comune della Commissione Europea (JRC, Joint Research Center), in collaborazione con molti rappresentanti dei Servizi della Commissione (Resil.net) ha fatto un vaglio delle competenze attualmente disponibili al fine di creare un framework (struttura concettuale) comune per la definizione e la misurazione della resilienza. Questo rappresenta un passo consistente, armonizzato, e basato su evidenze scientifiche verso politiche di rafforzamento della resilienza sociale nella Unione Europea. La narrativa del JRC sulla resilienza adotta una prospettiva multidisciplinare e impiega un approccio ampio, a 360 gradi. Per costruire una società più resiliente è necessario rafforzare i meccanismi di assorbimento degli shock e accrescere la capacità di adattamento. Insomma, è urgente muoversi verso un paradigma di crescita e sviluppo sociale più sostenibili.” (25)
Nello stesso documento i passi verso l’attuale “narrativa” Ue della resilienza vengono così sintetizzati:
– Nel 2015 si è tenuta una conferenza nella quale studiosi e decisori politici hanno discusso il tema “Costruire una Europa resiliente in un mondo globalizzato” (26) .
– Nel 2016 il JRC insieme ad altri organismi Ue istituisce il Research Network for the Measurement of Resilience (Resil.net) che ha lo scopo di inserire il “pensiero della resilienza” (resilience thinking) nel processo di policy-making. Il primo risultato di questo lavoro è il “JRC conceptual framework on resilience” (27)(i firmatari del documento sono Anna Rita Manca, Peter Benczur e Enrico Giovannini), che fornisce un contesto teorico e definisce i concetti e gli ingredienti chiave di questa operazione.
– Nel 2017 il JRC ha proposto una strategia per la misurazione della resilienza e l’ha applicata ai vari paesi della Ue nel contesto della risposta alla crisi finanziaria globale del 2008 (si veda lo studio “The resilience of EU Member States to the financial and economic crisis. What are the characteristics of resilient behaviour?” (28)). Come ci si poteva aspettare, la Germania risulta essere uno dei paese più resilienti e l’Italia “sembra ancora lottare per rimettersi dalla crisi”, mentre la Grecia “resta il paese più colpito”.
La parte introduttiva dello studio di cui sopra ci informa che: La resilienza è un concetto chiave nella attuale narrativa per l’Unione Europea. L’interesse verso la resilienza è cresciuto rapidamente negli ultimi vent’anni come reazione alla crescente ansietà per gli shock potenziali che potrebbero testare i limiti delle capacità reattive di individui, regioni, paesi e istituzioni, e che non possiamo sperare di eliminare (ad es. innovazione digitale, mutamento demografico, cambiamenti climatici, globalizzazione o immigrazione). Questi sono la “nuova normalità” (p. 5).
Di seguito si spiega come finora nell’ambito politico la resilenza sia stata caratterizzata prettamente in termini economici (29) , spesso come un tentativo di “imbrigliare la globalizzazione” (harness globalisation) (30), e si afferma en passant che “la comprensione e la costruzione della resilienza richieda di adottare una prospettiva più ampia e di considerare la società nel suo insieme” (Ibidem, p. 5) – una affermazione questa che non sembra avere avuto alcun seguito -.
– Nel 2020 durante la pandemia è stato stilato il documento “Tempo per la resilienza trasformativa: l’emergenza COVID-19” nel quale si riformula tutta la precedente elaborazione sulla resilienza adattandola al contesto della pandemia. Il primo firmatario è Enrico Giovannini, Ministro del lavoro e delle politiche sociali sotto il governo Letta, membro del Comitato esecutivo del Club di Roma, e presidente dello European Statistical Governance Advisory Board (ESGAB), l’organismo che supervisiona il funzionamento del Sistema Statistico Europeo (per una valutazione sommaria si veda la sezione sottostante).
Di resilienza non si è occupato solo il JRC, ma anche varie associazioni ed organismi attigui alla Ue, improntati al globalismo, al liberismo economico più sfrenato e alla ulteriore integrazione europea. Un esempio fra i tanti è quello della fondazione privata Bertelsmann Stiftung (31) con sede a Gütersloh in Germania che nel luglio 2017 ha pubblicato un opuscolo intitolato Economic resilience: a new concept for policy making?” (32). Il primo firmatario è Henrik Brinkmann (stabile alla fondazione), mentre gli altri tre (Christoph Harendt, Friedrich Heinemann, Justus Nover) lavorano presso il ZEW (Zentrum für Europäische Wirtschaftsforschung) (33) .
La Ue ha inoltre finanziato una miriade di progetti che hanno nella resilienza la loro parola chiave, ad es. Resisto Project (RESIlience enhancement and risk control platform for communication infraSTructure Operators) (34) , SMR (Smart Mature Resilience for more resilient cities in Europe) (35) , Smart Resilience (36) ecc. Vista l’enorme enfasi posta dalla burocrazia Ue sulla narrativa della resilienza, non c’è da stupirsi se anche i politici di livello nazionale usano ormai il termine in ogni possibile contesto e in ogni possibile declinazione con una frequenza quasi imbarazzante, simili a rappresentanti di prodotti ansiosi di piazzare la loro merce. (37)
Note
15) In questa sezione ci rifacciamo principalmente all’articolo di Holling (1973) e alla analisi di Walker e Cooper (2011).
16) Secondo Hayek un accentramento della conoscenza che rendesse possibile una gestione centralizzata dell’economia ad es. da parte dei governi o delle banche centrali sarebbe del tutto illusorio. Per lui, la conoscenza si dà soltanto nella forma – necessariamente dispersa, circonstanziata, specifica e limitata – di “conoscenza locale” (local knowledge), ovvero quella serie di nozioni teorico-pratiche accumulate dai singoli individui (ad es. un panettiere, un ragioniere, un assicuratore ecc.) nel corso dello svolgimento della propria attività lavorativa.
17) Questo diviene fra l’altro il fondamento teorico della “crisi necessaria che porta a fare passi avanti”, così spesso evocata dai neoliberisti anche in ambito Ue. Ovviamente le crisi sono sempre abilmente orchestrate e i “passi in avanti” si riferiscono alla realizzazione della solita agenda neoliberista fatta di privatizzazioni, tagli alla spesa sociale, massimo accentramento di ricchezza e potere a discapito del benessere della popolazione.
18) L’argomento della complessità e della inconoscibilità delle dinamiche dei mercati è stato perfino usato come alibi nelle corti di giustizia americane e ha portato a scagionare vari operatori finanziari implicati nella crisi dei subprime. Si vedano i casi di Ralph Cioffi e Matthew Tannin riferiti da Mavelli (2019, p. 234).
19) Cf. Mavelli 2019, pp. 231-234.
20) Cfr. quanto affermato dal Financial Times all’inizio della crisi: “quando i prodotti [finanziari] diventano più semplici e trasparenti, i margini [di profitto] solitamente si riducono. I banchieri … hanno un grande interesse a mantenere la complessità e l’opacità – e questo è il motivo per cui il ciclo dell’innovazione [dei prodotti finanziari] continua. (”‘when products become simpler and more transparent, the [profit] margins typically fall. Bankers … have a strong motive to retain complexity and opacity – which is why the innovation cycle keeps turning’”, cit. in Mavelli 2019, p. 233)
21) https://www.bankofengland.co.uk/-/media/boe/files/speech/2009/rethinking-the-financialnetwork.pdf?la=en&hash=9ADEE0CD6B00A8136BE74046C6B602B74A1B6EC1.
22) Sul ruolo giocato dalla resilienza nella politica difensiva USA si veda Walker e Cooper 2011, pp. 152-154.
23) Joseph 2013, p. 43. Su questo cfr. anche ivi, p. 51: “Although we can broadly agree on what resilience is, the conclusion must be that it does not mean very much. A quick search of the literature shows that resilience lacks any deeper meaning in relation to either the functioning of systems or the psychology of the human condition. The conceptual basis of resilience that comes from the ecology and psychology literature soon gives way to rather more banal arguments about the changing nature of the world and the need to protect the everyday. This was perceptively noticed early on in a piece by Handmer and Dovers who suggest a distinction between the concept of resilience as found in the ecology literature and concerned with the long-term survival of populations, species and eco-system and resilience as it appears in risk management, which is more concerned with the preservation of day-to-day activities of individuals and communities. The latter usage is predominant in the policy because it better fits with neoliberal governmentality. But in fitting into this discourse, the term becomes little more than a buzzword that might easily be exchanged for some other term. Not only is resilience a shallow concept, it is also a shifting concept. The policy literature reveals that resilience can mean different things in different contexts. Again, the reason to make these distinctions lies with the nature of neoliberal governmentality. […] The real aim is the disciplining of states, governments and elites. This gives the whole exercise an even greater degree of artificiality, with the fabrication of civil society organisations and the pretence that good governance is about local empowerment when it is really about removing barriers to open markets”.
24) Il Centro comune di ricerca (JRC) è una direzione generale della Commissione europea; esso dispone di sette istituti di ricerca dislocati in cinque paesi membri dell’Unione europea (Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Spagna). Il JRC è direttamente finanziato dall’Unione europea (è un servizio della Commissione europea) e ha il compito di fornire un sostegno scientifico e tecnico alla progettazione, allo sviluppo, all’attuazione e al controllo delle politiche dell’Unione europea.
25) https://ec.europa.eu/jrc/en/research/crosscutting-activities/resilience
26) La trascrizione degli interventi della conferenza è disponibile al seguente link https://ec.europa.eu/jrc/en/event/conference/building-a-resilient-europe-in-a-globalised-world.
27) Il documento è scaricabile al seguente sito: https://ec.europa.eu/jrc/en/publication/eur-scientific-and-technical-research-reports/building-scientific-narrative-towardsmore-resilient-eu-society-part-1-conceptual-framework.
28) Il documento (che vede tra i suoi contributors principali Lucia Alessi, Peter Benczur, Francesca Campolongo, Jessica Cariboni, Anna Rita Manca, Balint Menyhert, and Andrea Pagano) si può scaricare al seguente sito: https://ec.europa.eu/jrc/en/publication/eur-scientific-and-technical-research-reports/resilience-eu-member-states-financial-andeconomic-crisis-what-are-characteristics-resilient. Questi gli obiettivi, così come vengono esplicitati nello studio stesso: “The present study builds on the JRC resilience framework and assesses the response of EU Member States to the 2007-2012 global financial and economic crisis, addressing the following questions. Which countries showed a resilient behaviour during and after the crisis? Is resilience related only to the economic dimension? Has any of the EU countries been able to use the crisis as an opportunity and ‘bounce forward’? Is it possible to identify any particular country characteristics linked to a more resilient behaviour?” (Op. cit., p. 6). Una sintesi del fascicolo è disponibile su https://voxeu.org/article/resilience-eu-member-states-global-crisis
29) “Il più delle volte il concetto di resilienza è considerato da una prospettiva economica. Nel marzo 2017 il G20 ha adottato una lista di principi per rafforzare la resilienza economica e delle politiche adottate. Nel settembre 2017 l’Eurogruppo ha iniziato una discussione tematica sul potenziamento della resilienza economica nella Unione Economica e Monetaria, nel contesto del programma per la crescita e l’occupazione. (Commissione Europea 2017). Un simile focus sull’economia ha dominato i significativi sforzi fatti da altre organizzazione internazionali in quest’area, come l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il FMI e la BCE” (p. 5).
30) Il riferimento è al documento della Commissione Europea “Reflection Paper on Harnessing Globalisation”, disponibile al seguente link: https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/reflection-paper-globalisation_en.pdf.
31) La Bertelsmann Stiftung è una delle più grandi fondazioni operative tedesche con legami internazionali. Sui trascorsi nazisti del fondatore Reinhard Mohn (1921 – 2009) che ha trasformato la casa editrice Bertelsmann in una delle maggiori aziende multimediali del mondo è stata istituita una commissione di inchiesta. Mohn (1921 – 2009) sarebbe entrato in gioventù come volontario nella Luftwaffe e avrebbe combattuto nella II guerra mondiale venendo fatto prigioniero dagli americani nel 1943. Il padre Heinrich Mohn sarebbe stato membro sostenitore delle SS e avrebbe finanziato cospicuamente anche altre organizzazioni nazional-socialiste. La casa editrice Bertelsmann fu il principale fornitore di libri per l’esercito tedesco e pubblicò narrativa di autori nazisti.
32) https://www.bertelsmann-stiftung.de/fileadmin/files/BSt/Publikationen/GrauePublikationen/NW_Economic_Resilience.pdf
33) Si tratta del Leibniz Centre for European Economic Research con sede a Mannheim in Germania, uno dei principali istituti europei per la ricerca economica. È finanziato in parte dal governo tedesco e in parte da altre istituzioni, fra cui la Commissione Europea. https://www.zew.de/en/
34) http://www.resistoproject.eu/
35) https://smr-project.eu/home/
36) http://www.smartresilience.eu-vri.eu/The-project
37) Basta ad es. fare una semplica ricerca in internet usando la parole chiave “Conte” e “resilienza”.
continua…
Qui la prima parte del saggio.
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