Privatizzazioni e altre catastrofi.
Dallo studio condotto dal commissario alla spending review, riportato qualche giorno fa dalle maggiori testate giornalistiche italiane, è emerso che ben 1430 società partecipate dagli enti locali su oltre 5200 (circa il 27%) ha i bilanci “in rosso”. E’ facile ipotizzare che nel decreto “sblocca Italia” vi sarà un’imponente dismissione di queste aziende per la gioia dei grandi investitori privati che potranno finalmente mettere le mani sul ricco bottino dei servizi pubblici.
I media si dimenticano però di spiegare agli italiani che Cottarelli nell’individuare questi tagli si comporta da ragioniere e non da economista.
Infatti, dietro la livrea formale dei freddi numeri della mera logica contabile che, secondo la visione di Mister spending review, configurerebbero “sprechi” si celano in realtà importanti (anche se non redditizi) servizi alla comunità. E più tali servizi non generano profitto (e per questo possono essere resi solo da aziende pubbliche) tanto più la comunità che ne usufruisce è disagiata. Si prenda per esempio il caso della Cotral (- 14,9 milioni) sicuramente buona parte del suo passivo è imputabile alle tratte antieconomiche coperte dalle autolinee per servire (anche) piccoli paesi di poche centinaia di anime che hanno però diritto ad un servizio di locomozione pubblico efficiente e a tariffe contenute al pari del cittadino che vive nelle grandi città.
Fuor di metafora un’azienda pubblica trova la sua ragion d’essere non già nel profitto (come avviene per l’azienda privata), ma nell’utilità sociale. Il fine dell’utilità sociale (l’interesse pubblico che, Costituzione alla mano, deve pervadere l’agere politico) può (e deve) essere perseguito anche a costo di bilanci “in rosso”. Per questo determinati servizi devono essere svolti solo da aziende pubbliche che non possono mai fallire, nonostante i bilanci in passivo che hanno la mera la funzione di ridistribuire equamente i costi sull’intera collettività in un ottica solidaristica.
Il caso magiaro è emblematico: mentre l’Ungheria di Orban crea una holding pubblica no-profit e taglia le bollette dei cittadini, in Italia si prepara la riforma del Titolo V della Costituzione per strappare a Regioni e Comuni la proprietà delle società che gestiscono i beni comuni vitali (acqua, elettricità e gas) al fine di rivendere queste “utilities” alle corporations multinazionali.
Nell’ipotesi di gestioni private di tali servizi assisteremmo, coeteris paribus, nella migliore delle ipotesi, ad un aumento delle tariffe, ma anche, con tutta probabilità, a tagli del personale e, come nel caso dell’esempio della Cotral, alla soppressione delle tratte non profittevoli con enormi disagi per una parte consistente della popolazione e con pesanti ricadute sull’economia dei territori interessati.
Un caso simile, ma di proporzioni enormemente maggiori, è quello che ha riguardato la recente vendita di Alitalia che verosimilmente comporterà la chiusura di parecchie tratte non remunerative con conseguenze esiziali per l’indotto economicodi quelle aree rimaste isolate. Un settore strategico per uno Stato come quello del trasporto aereo può essere soltanto di proprietà pubblica.
Per non parlare di aziende statali che di profitto ne facevano e continuano a farne parecchio come ENI ed ENEL. Aziende pubbliche fino al 1992, fiore all’occhiello dell’impresa di Stato, e fino al 1992 seconde nel mondo (dopo soltanto aziende statunitensi) per investimenti in innovazione e ricerca sulle fonti energetiche rinnovabili. A seguito della privatizzazione le spese in investimenti di queste due aziende sono scese vertiginosamente, ma in compenso sono aumentati esponenzialmente i dividenti pagati ad azionisti (esteri ovviamente!). Quando Saccomanni prima e Padoan adesso, ci raccontano che continueranno a privatizzare perché grazie alle privatizzazioni abbiamo risparmiato 30 miliardi di euro solo di interessi, dimenticano di dirci che soltanto ENI ha corrisposto all’estero dividendi per la bellezza di 23 miliardi di euro. Soltanto Eni! A cui dobbiamo aggiungere i dividendi pagati da ENEL, dalle banche e quant’altro sia stato oggetto di privatizzazione. Soldi volati all’estero anziché affluire nelle casse dello Stato. Enrico Mattei si rivolta nella tomba!
La fine dello Stato imprenditore e l’introduzione, contestuale, della concorrenza senza ingerenza pubblica ha comportato la rinascita dei pericolosissimi oligopoli (o addirittura monopoli) privati. In un regime di libera concorrenza privo di un intervento pubblico correttivo delle storture del libero mercato la piccola e media impresa è destinata inevitabilmente a soccombere. Quest’ultima, infatti, non può reggere la competizione con i grandi gruppi, che potendo praticare economie di scala e sopportare anche lunghi periodi di passività, sono in grado di aggredire il mercato con prezzi delle merci artatamente più bassi rispetto ai costi marginali dei piccoli e medi produttori. Annientata così la concorrenza, in una seconda fase, si vengono a creare delle concentrazioni oligopolistiche che facendo “cartello” (e creando,quindi, di fatto, un monopolio) abusano della propria posizione dominante ponendo barriere all’ingresso nel mercato a nuovi potenziali attori e praticando prezzi superiori al costo marginale a nocumento dei consumatori. A poco è servito che lo Stato, smesse le vesti di imprenditore, abbia indossato quelle di arbitro imparziale dei diversi competitors privati che lo hanno rimpiazzato, cioè di colui che detta le “regole del gioco” e ne diviene garante attraverso l’istituzione delle varie Authorities.
C’è un motivo per cui nei regimi democratici gli Stati avversano per mezzo di leggi la formazione degli oligopoli (o peggio dei monopoli) privati ed è che la redistribuzione diffusa del reddito né risulterebbe talmente compromessa da far vacillare il sistema democratico stesso.
L’esperienza, acquisita in venti anni di privatizzazioni e liberalizzazioni, tra l’altro ha dimostrato, inequivocabilmente, se ce ne fosse ancora bisogno, che per impedire una diffusione generalizzata degli oligopoli privati., e quindi per tutelare l’artigianato (come vuole la Costituzione ndr) e la piccola impresa, non si possa prescindere dal ruolo equilibratore dello Stato in materia economica e dalla costituzione di monopoli pubblici. Guarda caso il tessuto industriale dell’Italia negli anni in cui fummo tra i primi al Mondo per sviluppo economico era costituito in larga parte da imprese medio-piccole private (financo familiari) e da grandi monopoli pubblici non in concorrenza, ma funzionali e di supporto alle prime (alle quali fornivano energia a basso costo, infrastrutture e supporto logistico).Lo Stato cioè orientava la produzione e disciplinava la moneta ponendola al servizio dell’economia reale proprio come vuole la nostra Costituzione: cfr art. 47 (sulla banca pubblica, l’unica ammissibile),art. 43 (sul monopolio pubblico), art. 41 (sull’utilità sociale). Articoli tuttora in vigore, ma attualmente di fatto disapplicati in nome dei trattati europei. Oggi accade esattamente il contrario: l’economia reale, da cui lo Stato è sempre più assente, è al servizio di una moneta, per giunta straniera!
Gli effetti delle privatizzazioni, delle dismissioni di imprese pubbliche, del disimpegno dello Stato dall’economia e dalla finanza sono sotto gli occhi di tutti. Oggi ottantacinque persone detengono il cinquanta percento del reddito mondiale. In una prospettiva futura che assomiglia sempre più, incredibilmente e drammaticamente, a quella “orwelliana” quando arriveremo ad un centinaio di gruppi che controllano i due terzi del patrimonio del mondo la situazione diventerà irreversibile. Victrix causa diis placuit sed victa Catoni.
Il processo di dismissione e privatizzazione testé descritto viene giustificato dal mainstream mediatico con l’assioma “meno Stato più risparmio”. Ma siamo almeno sicuri che il taglio della spesa pubblica, anche al lordo di eventuali “sprechi”, sia il vero problema? A guardare i dati sembrerebbe proprio di no.
Secondo il Date Warehouse statistico della BCE l’Italia aveva un deficit primario di oltre un punto percentuale nel 1990, ma già nel ‘91 lo stesso si riduceva al di sotto di mezzo punto percentuale, per arrivare nel 1992 al surplus. Dal 1992 al 2005 l’Italia ha conseguito i saldi primari migliori all’interno dell’eurozona e dal 90 ad oggi solamente in tre anni (1991-1992-2009) è andata in deficit.
Questo significa principalmente due cose:
1) l’Italia dal 1992 ad oggi pone in essere politiche di austerità (le famigerate “manovre lacrime e sangue”) cioè restituisce ai cittadini meno di quanto riscuote in tasse.
2) dimostra che la spesa primaria (ossia la spesa pubblica al netto della spesa per interessi sul debito, i beni e servizi che lo Stato rende ai cittadini per intendersi), che è quella che si vorrebbe ulteriormente tagliare, non può aver causato l’aumento del debito pubblico perché è dal 1992 che l’Italia spende meno di quanto incassa drenando ricchezza dalla collettività.
Forse il problema è proprio questo e sarebbe ora, in tempi di crisi, di ricominciare ad invertire di nuovo la tendenza.
A.R.
“Quando si risparmiano cinque scellini, si lascia senza lavoro un uomo per una giornata. (.) Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo” John Maynard Keynes.
Commenti recenti