Resistere alla “resilienza”: come il neoliberismo ha creato la narrazione della complessità e della resilienza, e come combatterla (parte III)
di GIACOMO BAGGIO
6. Considerazioni sulla resilienza made in Eu
Gli ingredienti base della narrativa della resilienza “made in Eu” non sono così diversi da quelli che già abbiamo messo in evidenza nel contesto politico-finanziario USA: l’immagine di un futuro a tinte fosche pieno di continui imprevedibili shock, l’evocazione della complessità estrema del funzionamento dei sistemi e quindi la sfiducia nella possibilità di una gestione ordinata e razionale delle varie criticità, l’enfasi sulla necessità di resistenza passiva e adattamento di fronte all’inevitabile. Ma cerchiamo di andare con ordine e discutere le varie caratteristiche una per volta.
a. Superficialità del termine e incoerenza nell’uso dello stesso
Rileviamo innanzitutto la superficialità e l’incoerenza che caratterizza l’uso del termine “resilienza” nei documenti ufficiali Ue, la stessa che J. Joseph ha rilevato nell’ambito statunitense (si veda più sopra). David Chandler (docente di Relazioni Internazionali presso la University of Westminster) – che possiamo considerare un attento e autorevole osservatore esterno – lo esprime apertis verbis in una interessante intervista: “[…] Come tutti sappiamo, recentemente l’Unione Europea ha adottato la “resilienza” come parola chiave nei documenti relativi alle sue politiche […] un approccio basato sulla resilienza, in cui un’unica misura non si può applicare a tutti indiscriminatamente, in cui non conosci le risposte, e non puoi semplicemente dare alla gente delle soluzioni, è in palese contraddizione con l’atteggiamento gerarchico e autocompiaciuto che la Ue sovente dimostra. Quindi spesso quando abbiamo delle discussioni [col personale Ue] relative alle politiche, la resilienza sembra essere una parola che viene usata ma senza essere in realtà compresa, e non può [quindi] essere in qualche modo sviluppata. È come se dicessero ‘avremmo anche potuto usare un’altra parola’. Non è sempre chiaro cosa ci stia a fare la resilienza e quali siano per l’Unione Europea le implicazioni dell’uso di questa parola. Si può comprendere come possa essere utile per i leader dell’Unione Europea dire ‘be’, non siamo più in grado di risolvere i problemi…’ e così via dicendo, ma non si riesce a vedere gli aspetti positivi che deriverebbero da questo nuovo approccio basato sulla resilienza” (38).
Effettivamente, nei documenti prodotti in sede Ue il termine “resilienza” viene ormai inserita a mo’ di condimento in qualsiasi contesto (politica estera, economia, sicurezza ecc.) e rappresenta un concetto estremamente confuso e contraddittorio. Se consideriamo a mo’ di esempio i documenti Ue appena citati (fra l’altro prodotti dallo stesso centro di ricerca) non si può non rilevare un atteggiamento letteralmente schizofrenico, per cui da un lato si paventano “shock potenziali che potrebbero testare i limiti delle capacità reattive di individui, regioni, paesi e istituzioni” e che verrebbero a costituire una “nuova normalità” accompagnati da un marcato pessimismo riguardo alla capacità di farvi fronte efficacemente, mentre dall’altro si evoca la panacea della resilienza che consentirebbe non solo di sopravvivere in tali contesti critici ma addirittura di prosperare, preservando il benessere sociale e non compromettendo l’eredità (in termini ambientali, di risorse ecc.) che verrà lasciata alle future generazioni. Qualcuno magari si sarà entusiasmato alla rivelazione del portentoso rimedio, ma – altolà! – si ricordi che alla definizione di questa panacea gli esperti Ue stanno ancora alacremente lavorando…
b. Restyling post crisi-2008 della narrazione neoliberista
Joseph suggerisce di evitare di elaborare un resoconto filosofico del concetto di resilienza così come viene usato nel contesto del policy-making, dal momento che questo rischierebbero di dare al concetto una coerenza e una solidità che in realtà non possiede; egli esorta invece a desumere i significati del termine a partire dai contesti concreti (documenti ufficiali) in cui viene usato (39).
Se applichiamo questo tipo di analisi alla resilienza made in Eu, scopriamo subito che sotto una sottile patina di rigore scientifico si nascondono le solite politiche neoliberiste di privatizzazioni, finanziarizzazione dell’economia, spoliazione del ceto medio, ecc. La funzione puramente retorica della resilienza, maldestro camouflage di quella creatura continuamente mutante che è il neoliberismo, si vede molto bene nel summenzionato “Tempo per la resilienza trasformativa: l’emergenza COVID-19” del 2020 prodotto proprio nel pieno della pandemia Covid, un documento breve ma assai emblematico della narrativa Ue della resilienza.
Il documento inizia dichiarando che l’emergenza da Covid-19 “sembra avvertire i governi di tutto il mondo che nuove crisi di natura imprevedibile potrebbero verosimilmente presentarsi [ndr, ritorna qui il tema della complessità e di un futuro che fatalmente sfugge ad ogni previsione e controllo], come combinato disposto del degrado ambientale, delle crescenti disuguaglianze sociali e delle profonde interconnessioni economiche che hanno reso il mondo più vulnerabile [ndr, notiamo come tutti questi fattori scatenanti delle crisi siano in realtà il naturale risultato delle politiche predatorie neoliberiste finora implementate di cui la Ue è uno dei più zelanti attuatori; ma su questo gli autori sorvolano con grande nonchalance: non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la destra…] (40). In queste circostanze, assicurare la resilienza delle nostre società è cruciale”.
Si prosegue poi con una ardita reinterpretazione delle leggi fisiche della resilienza: “non dovremmo cercare di ‘rimbalzare indietro’ (bounce back) allo stato pre-crisi, ma invece elaborare politiche e interventi per ‘rimbalzare in avanti’ (bounce forward)” verso un “nuovo mondo” (new world) che rappresenti un progresso rispetto a prima e che viene descritto in temine astratti come “più verde”, “più giusto”, “più sostenibile” ecc. e in termini concreti – lo si legge molto bene fra le righe – come applicazione delle prossime ricette dell’agenda neoliberista, segnatamente green transition (qualunque cosa voglia dire) e digital transformation (letteralmente “fare un salto in avanti nell’uso di apparecchiature digitali nella amministrazione e nell’educazione” (41) , non si capisce poi perché questo dovrebbe essere per forza un progresso…). “Il concetto di ‘resilienza trasformativa’ sociale […] – sostengono gli autori – è la chiave per preparare la nostra società e sviluppare le generali capacità che sono necessarie per cavarsela nella presente crisi e in quelle future”.
Notiamo che le priorità individuate nel documento “Tempo per la resilienza trasformativa” (i.e., green and digital transition) sono state indefessamente pubblicizzate dai media e alacremente perseguite a tutti i livelli dai decisori Ue. Ad es., nel giugno 2020, dopo che i nostri psicologi più sensibili e attenti ci avevano messi in guardia dai danni di una “overdose tecnologica” e di un “potenziamento indiscriminato” della tecnologia in tutti gli ambiti (42), la nuova Commissione Europea coniava il termine di “resilienza digitale” (digital resilience) con la quale sdoganava l’iper-connettività digitale e la commercializzazione e diffusione del 5G come elementi imprescindibili per assicurare la resilienza della popolazione nel contesto pandemico (43).
È evidente che una volta finita la pandemia su molti fronti non sarà facile tornare indietro; è esattamente quello che si intende per bounce forward: compiere passi in avanti irreversibili nel programma di riforme neoliberiste approfittando delle crisi per far accettare alla popolazione cose che altrimenti non sarebbero tollerate. Si tratta dell’ennesima riproposizione del tema tanto caro ai neoliberisti (vedi ad es. Mario Monti) delle crisi che obbligano a fare passi avanti.
c. Autoreferenzialità della narrativa della resilienza
Colpisce inoltre il fatto che un concetto così capillarmente propagandato dai media in Ue come quello della resilienza si basi in fin dei conti sulla elaborazione di un manipolo di addetti ai lavori sviluppatasi nell’arco di soli 5 anni (la prima conferenza Ue sull’argomento risale al 2015). Basta poi una rapida verifica per scoprire che tra i firmatari dei documenti prodotti non figurano psicologi né sociologi, né alcuna altra figura che se non altro per deontologia professionale debba farsi portavoce del benessere della popolazione e delle istanze sociali; ci sono solo analisti matematici, economisti ed esperti di finanza.
Vista la situazione, dunque, anche gli appelli degli stessi autori a non relegare la resilienza esclusivamente all’ambito economico-finanziario vengono a perdere qualsiasi credibilità. Inoltre, se pensiamo che neanche gli psicologi dopo una cinquantina d’anni di ricerca sulla resilienza sono concordi sulla definizione del termine nel loro campo e restano estremamente cauti nel formulare dei parametri di resilienza psicologica da offrire ai policy makers, quale credibilità e attendibilità potranno avere le costruzioni teoriche di questi esperti volte addirittura a misurare la resilienza delle società e dei sistemi economici?
Anche qui la contraddizione è lampante: si parte rilevando l’enorme complessità dei sistemi che sfuggirebbe a qualsiasi razionalizzazione, però poi non si ha nessuno scrupolo nell’istituire parametri rigorosi e stringenti (calcolati chissà come) che pretendono di misurare concetti evanescenti come quello di resilienza.
d. Le contraddizioni della resilienza made in Eu
Come abbiamo già detto, le contraddizioni della narrazione imperniata sulla complessità e sulla resilienza sono davvero tante e ne minano alla base la credibilità. Il framework della resilienza (così come delineata nello stesso ambito neoliberista) enfatizzerebbe la limitatezza del sapere, i margini di incertezza, l’impossibilità di un controllo centralizzato sugli eventi e la necessità di attingere alle “conoscenze locali”. Ma come può coerentemente proporre questa nuova visione una struttura altamente burocratica e centralizzata come la Ue, che ha da sempre lavorato per imporre gli stessi standard a tutti i paesi membri uniformandone l’economia, la giustizia ecc. e dimostrando scarsissimo rispetto per le specificità locali?
È facile supporre che la narrativa della resilienza in ambito Ue si tradurrà come al solito in una nuova serie di stringenti parametri imposti agli stati membri. In più ci saranno (come si è visto le proposte sono già sul tavolo) classifiche dei paesi più o meno resilienti; e c’è da scommettere che in un futuro non molto lontano i paesi ritenuti più resilienti saranno premiati e quelli meno resilienti saranno puniti (quella della intransigenza al limite della spietatezza verso i paesi più in difficoltà è del resto una caratteristica ormai acclarata della Ue) (44).
Altre importanti contraddizioni si potrebbero qui elencare, ma preferiamo limitarci ad una sola che in un certo senso le racchiude tutte. In riferimento alle teorie di Holling, l’ecologista Fred Kirschenmann fa una osservazione molto semplice ma in realtà fondamentale: “Più un sistema è reso efficiente [in termini di produttività] e meno è resiliente, questo perché l’efficienza vorrà escludere dal sistema tutte le ridondanze al fine di potenziare se stessa. Ma sono proprio le ridondanze del sistema a fornire quella varietà di risorse che rendono possibile assorbire gli shock e i fattori di disturbo” (45).
Il neoliberismo, che per definizione tende ad imporre la sua logica economicistica, produttivistica ed “estrattiva” a tutti gli ambiti dell’esistenza umana (con conseguente esasperazione della competizione, della massimizzazione del profitto ecc.) a scapito della tutela dei diritti, dell’occupazione, della socialità ecc., finisce inevitabilmente per creare dei sistemi fragili e instabili che difficilmente possono reggere agli shock esterni. Ora, quale credibilità può avere la sua recente pervasiva retorica incentrata sulla creazione di sistemi resilienti?
7. Resistere alla resilienza: gli antidoti alla resilienza neoliberista
Abbiamo visto come, pur avendo le sue origini nei campi della psicologia infantile e dei sistemi ecologici complessi, la tematica della resilienza sia stata trasformata in campo politico ed economico in una vera e propria narrazione – peraltro piena di incongruenze – che serve come estremo tentativo di recupero di consenso (attraverso la creazione nella popolazione di un senso di terrore, smarrimento e rassegnazione) intorno al solito programma neoliberista dopo i suoi ultimi plateali fallimenti (nella crisi finanziaria 2008 e nell’ambito della attuale crisi da Covid-19).
Si tratta solo del più recente dei vari camouflage adottati dal sistema di potere dominante per sopravvivere e perpetuarsi: negli anni ’80 esso si era avvalso della seduzione del consumismo e dello slogan “privato è bello ed efficiente” che consentì di allontanare la gente dalla sfera politica e di privatizzare gran parte delle fonti di ricchezza dello stato; poi negli anni ’90 è subentrata la retorica Ue del debito pubblico unita al teorema della scarsità della moneta, la quale è servita a giustificare l’austerità, ovvero la sottrazione di ricchezza alla classe media e i tagli indiscriminati alla spesa sociale; ed ecco che ora si ricorre alla narrativa della complessità (Mavelli (2019) usa l’efficace termine di “mistica della complessità”) per occultare il clamoroso fallimento del sistema, alla parificazione di disastri umani e naturali per nascondere le reali responsabilità, alla inevitabilità e imprevedibilità delle crisi per aprire lo scenario di una normalità perennemente emergenziale nella quale la popolazione non può far altro che essere passivamente e docilmente resiliente.
Uno dei tratti più deleteri di questa retorica è che essa, oltre ad anestetizzare le coscienze e inibire una azione politica emancipatrice, arriva a definire l’uomo e la società solo per opposizione rispetto all’elemento centrale nella narrazione, ovvero quello della crisi perenne: il popolo – spogliato di tutte le qualità positive che lo caratterizzano, quali socialità, collaborazione, progettualità condivisa ecc. – viene ridotto al rango di un Sisifo che non arriverà mai a sbarazzarsi dal suo masso, e che da quel masso resterà sempre definito.
Come evitare dunque di farsi ingabbiare in questa falsa narrativa? Come resistere alla resilienza? Innanzitutto riconoscendo la narrazione come tale: essa non è cioè la descrizione della realtà, ma soltanto un racconto creato ad arte per giustificare il sistema di potere dominante. In secondo luogo, smascherando e rifiutando tutti i postulati di marca neoliberista impliciti nella narrazione stessa, ovvero quello che non esistano delle comunità ma solo singoli individui isolati, che la società possa venire ingegnerizzata (vedi espressioni come “costruzione di società resilienti” ecc.), che si debba credere con fede quasi religiosa alla idea di un progresso continuo che condurrà la società umana verso forme sempre più “evolute”.
In terzo luogo, riportando al centro del dibattito tutti i temi artatamente silenziati dalla narrativa in questione, ad es. il tema delle responsabilità politiche e penali connesse ai disastri finanziari, quello dei rapporti di forza in atto fra una ristretta élite globalista ormai padrona della finanza e dei media e una massa sterminata di persone in condizione di vita sempre più precarie. In questo senso, il tema della giustizia sociale dovrebbe ridiventare la stella polare, assieme agli ideali in esso impliciti di emancipazione, di salvaguardia dei diritti, e di dissenso verso tutte le azioni eversive rispetto all’ordinamento costituzionale.
Infine, occorre recuperare una coscienza politica (nel senso più ampio del termine) che diventi anche occasione di aggregazione e motore di progettualità e azione. In questo modo l’atteggiamento meramente passivo propagandato dalla resilienza lascerebbe il posto ad una azione informata, consapevole e condivisa, quindi “etica” nel senso etimologico del termine. L’essere forti di fronte alle difficoltà è senz’altro un atteggiamento positivo e commendevole, tuttavia questo non deve escludere l’analisi delle forze che plasmano l’ambiente sia fisico che ideologico nel quale ci troviamo a vivere giorno per giorno e la presa di coscienza politica che da questa scaturisce: un criceto che continui a correre sulla ruota sulla quale è stato messo può certamente essere definito resiliente; resta da vedere però se una simile resilienza serva a qualcosa e se abbia un senso. Non sarebbe meglio per lui rendersi finalmente conto di trovarsi in una gabbia e adoperare tutta la propria intelligenza e il proprio coraggio per uscire?
[fine]
Note
38) 2018 – Why is resilience important for security in Europe? (David Chandler, University of Westminster) https://www.youtube.com/watchv=GjZDtO0tREs&app=desktop&ab_channel=IIRPrague
39) Cf. Joseph 2013, p. 40: “To develop a philosophical account of resilience would be to give this discourse a credibility it does not deserve and to ultimately legitimate a set of practices of governance”.
40) Un simile occultamento delle cause reali delle emergenze con conseguente scaricamento delle responsabilità sulla popolazione lo vediamo proprio in questo periodo: nel contesto pandemico i media di regime enfatizzano a dismisura il mancato rispetto da parte di qualche cittadino di quelle norme che impedirebbero la trasmissione del Covid-19 (leggi: scarsa resilienza al regime sanitario in atto) additando costoro come i veri responsabili dell’emergenza, mentre nello stesso tempo occultano accuratamente le reali responsabilità dei politici che hanno tagliato indiscriminatamente la sanità negli ultimi 30 anni seguendo alla lettera i desiderata di Bruxelles.
41) “Making a jump in using digital tools in administration and education practices”.
42) Si veda il Comunicato PSI: “Per quanto la tecnologia possa offrire indubbie comodità in vari ambiti del quotidiano, è pericoloso cavalcare il periodo contingente per un suo potenziamento indiscriminato. L’evoluzione tecnologica non può essere associata all’evoluzione dell’individuo e della società; in diversi casi può compromettere infatti le normali capacità cognitive e la regolazione emotiva. La tendenza attuale è di porre l’uomo al servizio della tecnologia, non viceversa. Non tutto ciò che può essere fatto, deve per forza essere fatto.” https://comunicatopsi.org/
43) Cfr. “New Commission report shows the importance of digital resilience in times of crisis” https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_20_1025. Un breve estratto dall’articolo: “Today the Commission released the results of the 2020 Digital Economy and Society Index (DESI), which monitors Europe’s overall digital performance and tracks the progress of EU countries with respect to their digital competitiveness. This year’s DESI shows that there is progress in all Member States and all key areas measured in the index. This becomes all the more important in the context of the coronavirus pandemic, which has demonstrated how essential digital technologies have become, by allowing work to continue, monitoring the spread of the virus, or accelerating the search for cures and vaccines. Furthermore, the DESI indicators relevant for the recovery show that EU Member States should step up their efforts to improve the coverage of Very High Capacity Networks, assign 5G spectrum to enable the commercial launch of 5G services, improve citizens’ digital skills and further digitise businesses and the public sector. […] In the context of the recovery plan for Europe, adopted on 27 May 2020, DESI will inform country-specific analysis to support the digital recommendations of the European Semester. This will assist Member States to target and prioritise their reform and investment needs, thereby facilitating access to the Recovery and Resilience Facility worth €560 billion. The Facility will provide Member States with the funds to make their economies more resilient and ensure that investments and reforms will support the green and digital transitions. […]”.
44) Cfr. su questo Joseph 2013, p. 51: “[…] the resilience discourse of the UNDP (=United Nations Development Programme), World Bank and others is a tool in a bigger game that applies governmentality to states in order to get them to reform their institutions in the interests of global capital. […] the main concern with such interventions is institutional reform and monitoring”.
45) Fred Kirschenmann – Resilience will trump sustainability https://www.youtube.com/watch?v=jDxtKf-asb0&ab_channel=JohnsHopkinsCenterforaLivableFuture.
Qui la prima e qui la seconda parte del saggio
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