È possibile che i tempi duri per l’Iraq siano tutt’altro che finiti. L’insediamento, nel maggio scorso, del governo guidato da Mustafà Al-Khadimi ha immesso un certo grado di affidabilità e di stabilità nel sistema. Ma le sfide sono ancora enormi. E, soprattutto, Al-Khadimi pare essersi dato un compito tutt’altro che facile: tirare le redini alla galassia di movimenti armati, i cosiddetti Gruppi di mobilitazione popolare, che furono decisivi nel fermare l’avanzata dell’Isis nel 2014-2016 ma che col tempo sono diventati un elemento di disordine e una specie di contropotere rispetto al governo centrale. Di più: su molti di quei gruppi, in grande maggioranza di stretta osservanza sciita, grava il sospetto di avere come referente più l’Iran o l’Hezbollah libanese che l’esercito iracheno, nel quale pure sono inquadrate, o le legittime autorità del Paese.
Così negli ultimi tempi abbiamo assistito a un botta-e-risposta tutto sommato contenuto, ma che potrebbe degenerare alla prima mossa fuori misura. Movimenti come Kataeb Hezbollah, Raab Allah o Saraya al-Salam (questa è la milizia agli ordini di Moqtada al-Sadr) hanno tenuto una serie di azioni dimostrative: sfilate di automezzi carichi di uomini armati nel centro di Baghdad, manifestazioni di protesta con slogan sul «traditore Al-Khadimi» per il quale si invocava il taglio delle orecchie, piccoli assalti a centri massaggi o negozi di liquori. Ma lo stesso premier non si è risparmiato, rimuovendo o trasferendo 300 ufficiali della Guardia di frontiera che erano in gran parte simpatizzanti dei movimenti sciiti. E che sono stati sostituiti, guarda caso, da uomini dei servizi segreti di cui Al-Khadimi, che ha anche un passato da giornalista, è stato direttore dal 2016 al 2020.
Il mondo sciita, iracheno e non solo, fa comunque molta fatica a digerire l’ascesa di Al-Khadimi. Cittadino anche inglese (lasciò l’Iraq nel 1985, arrivando nel Regno Unito attraverso l’Iran e poi la Germania), Al-Khadimi tornò in patria nel 2003, dopo l’invasione anglo-americana, e per lunghi anni ha presieduto e diretto un centro studi, a Londra, che documentava i crimini di Saddam Hussein e dei suoi uomini. È noto che gli Usa hanno promosso e approvato la sua nomina alla guida del governo. Ed è altrettanto nota la sua amicizia con Mohammed bin-Salman, il potente e discusso principe ereditario dell’Arabia Saudita. Quanto basta, insomma, per farlo considerare dagli sciiti una specie di quinta colonna del nemico. In qualche caso, per renderlo sospetto di una partecipazione all’attentato con cui, il 3 gennaio del 2020, fu ucciso proprio a Baghdad da un drone americano il generale Qassam Suleimani, comandante della Guardie della rivoluzione islamica iraniane. In ogni caso, per ritenere che la sua azione di governo possa costituire una potenziale minaccia all’inclinazione pro-Teheran che negli ultimi tempi ha spalancato le porte dell’Iraq all’influenza iraniana.
C’è molta carne al fuoco, insomma. Dobbiamo sperare che le fiamme non si alzino troppo.
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