da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Emanuel Pietrobon)
Nell’epoca delle guerre postmoderne e senza limiti, dove tutto può essere militarizzato e/o strumentalizzato con fini destabilizzanti, alcune potenze hanno mostrato e dimostrato come il turismo possa essere trasformato in un’arma economicida particolarmente efficace. Il modus operandi varia a seconda del regime – dalle liste nere degli Stati Uniti ai flussi eteroguidati dall’alto della Cina –, ma il fine è il medesimo: condizionare ritmo e intensità dei movimenti turistici per nuocere all’economia del bersaglio.
A partire dal 15 aprile i settori alberghiero, ristorativo e dell’intrattenimento della Turchia sono costretti a fare meno dei turisti provenienti dalla Russia, i quali troveranno pochissimi voli disponibili per l’Anatolia fino al primo giugno. L’ordine di fermare la quasi totalità dei voli è provenuto direttamente dal Cremlino, che lo ha giustificato in termini di sicurezza sanitaria – più di 50mila nuovi casi di Covid19 ogni giorno in Turchia –, ma in realtà si inquadra nel più ampio contesto delle tensioni con Ankara in relazione all’armamento di Kiev. L’imposizione delle restrizioni, invero, avviene all’indomani di una bilaterale tra Recep Tayyip Erdogan e Volodymyr Zelensky durante la quale si è discusso, tra le altre cose, della vendita di armi avanzate di fabbricazione turca all’Ucraina.
La mossa, inoffensiva soltanto in apparenza, ha contribuito a deteriorare ulteriormente l’economia e la finanza della Turchia, già gravemente sotto pressione a causa della pandemia: più di 533mila voli cancellati, ergo un’ingente quantità di entrate potenziali vaporizzata, e Indice turistico della borsa di Istanbul in calo del 6,4% nella solita giornata del 12.
Il Cremlino sapeva dove e come colpire, avendo piena cognizione dei possibili danni, perché l’industria turca deve una parte consistente della propria salute ai flussi provenienti dalla Russia: 2 milioni e 100mila gli ingressi soltanto l’anno scorso, nonostante la pandemia; numeri che riflettono il primato russo nella classifica delle nazioni che forniscono il maggior numero di visitatori all’Anatolia e che mostrano quanti danni la militarizzazione del turismo da parte del Cremlino possa infliggere all’economia turca.
La Turchia, nel tentativo di evitare un effetto domino, ha cominciato a spiegare al pubblico estero come la situazione sanitaria starebbe progressivamente migliorando e invitato le altre nazioni a non seguire l’esempio russo. In soccorso di Ankara è giunta la presidenza Zelensky, la quale ha invitato la cittadinanza ucraina a prenotare le vacanze primaverili ed estive in Anatolia “come segno di supporto”.
Dal 2012 la Cina è la centrale elettrica dell’industria turistica mondiale. I suoi turisti viaggiano e spendono più di chiunque altro, condizionando in maniera profonda e determinante i mercati che scelgono di volta in volta; mercati che vengono selezionati con cura machiavellica dall’agenzia governativa per il turismo, la Guójiā lǚyóu Jú (CNTA, China National Tourism Administration).
I numeri dei flussi in uscita dall’impero celeste sono autoesplicativi: il denaro speso annualmente all’estero è passato dai 13 miliardi di dollari del 2000 ai 36 miliardi e 200 milioni del 2008, poi divenuti 258 miliardi nel 2019. L’incremento di spesa è l’ovvio riflesso di un aumento straordinario dei viaggiatori: 5 milioni e 300mila nel lontano 1997, saliti a 130 milioni nel 2017.
La CNTA svolge un ruolo-chiave nella gestione e nel direzionamento di questi flussi ciclopici in grado di nutrire o distruggere quelle economie basate sul turismo, specialmente quello proveniente da Pechino, in quanto controlla i pacchetti e le offerte delle agenzie turistiche operanti sul suolo nazionale. In ragione della loro enormità e della facilità con cui è possibile gestirli, i flussi possono essere utilizzati dalla CNTA per risollevare l’economia in crisi di una nazione da corteggiare, per nutrire il ciclo espansivo di un partner prezioso e/o per creare dei legami di interdipendenza funzionali ad un leveraggio strategico al momento opportuno.
Il punto del leveraggio strategico è sicuramente il più importante: difatti, se in un Paese i flussi (in arrivo da Pechino) raggiungono e superano la soglia della criticità, divenendo nodali per la solidità dell’intera industria turistica, da un loro brusco calo conseguirebbero dei danni immediati e dirompenti per l’economia reale risolvibili soltanto in un modo: negoziazione. Non si tratta di fantapolitica ma di realtà, perché episodi di leveraggio strategico del turismo sono stati osservati ovunque nel mondo: Israele, Turchia, Sud-Est asiatico, Taiwan, Corea del Sud, Giappone, e negli Stati Uniti durante l’era Trump.
Le potenzialità economicide del leveraggio strategico possono essere comprese pienamente ricorrendo ad un’esposizione sintetica dei casi studio di Giappone e Corea del Sud. Nel primo caso, fra il 2012 e il 2013, in concomitanza con le rinnovate tensioni sulle Senkaku, i flussi turistici verso Tokyo diminuirono del 24%. Similmente, Seul dovette affrontare una crisi turistica nel dopo-dispiegamento del Thaad a causa del dimezzamento degli ingressi da Pechino: dai sette milioni del 2016 ai tre milioni del 2017.
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