da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Giuseppe Liturri)
Ora che il nostro Recovery Plan è giunto finalmente sulla scrivania di Ursula Von Der Leyen, si possono tirare le fila di molti ragionamenti svolti a partire da maggio 2020 e ribadire che quel piano costituisce il definitivo commissariamento del nostro Paese.
Dietro il paravento della comprensibile attenzione verso le opere da realizzare – discutibili per l’eccessiva enfasi verso la transizione ecologica gradita ai tedeschi ed ai loro subfornitori – si nasconde il carico di condizioni con cui la UE, per poter erogare i finanziamenti, ci soggiogherà per i prossimi 30 anni.
Mai avremmo dovuto accettare quel piano senza prima avere un impegno formale alla riforma, o meglio cancellazione, del Patto di Stabilità (SGP), il cui rispetto è invece è condizione fulcro per ricevere i soldi da Bruxelles.
Ed allora bisogna che il Presidente Mario Draghi, dica chiaramente da che parte sta. Con la Commissione – che costringe il ministero dell’Economia a scrivere il Documento di Economia e Finanza (DEF) come se il PSG non dovesse mai cessare di esistere – o con gli italiani?
Quando Draghi presentò il varo del decreto legge “Sostegni” circa 40 giorni fa, aggiunse in conferenza stampa che “questo è un anno in cui non si chiedono soldi, si danno soldi, verrà il momento di guardare al debito ma non è questo il momento di pensare al Patto di stabilità”.
Da allora sono accadute due cose: la presentazione del Documento di Economia e Finanza e del Recovery Plan (PNRR). È ormai tardi per un rinsavimento, ma va ribadito, a futura memoria, che purtroppo i conti non tornano e, in entrambi i documenti, checché ne dica Draghi, il momento di guardare il debito è ben individuato ed è piuttosto vicino. E, cosa ancora più grave, si guarda al debito con le lenti ormai opache e distorsive di regolamenti vecchi di 24 anni, come il Patto di Stabilità, o 10 anni, come il Six-pack ed il Two-pack.
Ed a nulla serve obiettare che, con ogni probabilità, ancora per il 2022 sarà operante la clausola di salvaguardia che consente una momentanea deviazione dal percorso di avvicinamento all’obiettivo di saldo di bilancio strutturale di medio termine che, per l’Italia, come puntualmente riportato nel DEF, è fissato all’astronomico livello del +0,5% del PIL. Infatti, la lettura del DEF prova “per tabulas” che il Patto di Stabilità continua ad essere pienamente operante.
A partire proprio dallo strumento più controverso e criticato che determina quel saldo: l’output gap, cioè la differenza tra PIL effettivo e PIL potenziale. Dove quest’ultimo è frutto di una stima sulla base del tasso di disoccupazione che non determina crescita dei salari, incredibilmente fissato al 9%. A Bruxelles ed al Mef continuano a credere che un livello così alto, foriero solo di tensioni e malessere sociale, possa determinare il nostro PIL potenziale che però ne risulta evidentemente compresso. Per loro è normale tenere schiacciato il Paese sotto una disoccupazione del 9%. Ma la beffa è costituita dal fatto che tale dato è frutto di una stima su cui nessuno riesce a concordare (Commissione, FMI e OCSE offrono stime divergenti per alcuni punti percentuali).
Non è purtroppo una disputa lunare tra economisti, ma ne va del nostro futuro. Infatti l’output gap viene moltiplicato per un altro coefficiente (stimato anch’esso) per ottenere la cosiddetta componente ciclica del saldo di bilancio. Ed è solo sommando quest’ultimo dato al deficit/PIL nominale che si ottiene il saldo di bilancio strutturale che la Commissione osserva ai fini del rispetto delle regole. In parole povere, è come se ad un paziente malnutrito la Commissione consentisse di mangiare di più rispetto al normale -cioè fare più deficit nominale rispetto a quello strutturale – per poi costringerlo a dieta non appena ritorna in salute, cioè quando il PIL potenziale supera quello effettivo. A ciò si aggiunga il fatto che la stima del PIL potenziale risente pesantemente del PIL effettivo degli anni precedenti, per cui più si è malnutriti e più si avvicina il livello al quale si sarà erroneamente giudicati in salute e quindi sarà necessario tornare a fare cura dimagrante. Al Mef sostengono che, dopo una crisi economica di questa portata epocale, già nel 2023 si chiuda l’output gap e quindi la componente ciclica cambi segno. Da non crederci, col risultato che nel 2024, un deficit/PIL nominale del -3,4%, diventerà un saldo strutturale del -3,8%. È come correre sulla sabbia, si taglia deficit ma il beneficio è modesto e non si raggiunge mai la meta.
Ma al Mef non ne fanno mistero e parlano esplicitamente di consolidamento della finanza pubblica, cioè “risparmi di spesa ed aumenti di entrate che saranno dettagliati nella legge di bilancio per il 2022”. Sin da oggi, si premurano di “illustrare il grado di compliance che l’Italia raggiungerebbe rispetto alle regole fiscali quando la clausola (di salvaguardia, nda) verrà rimossa”.
Il colmo lo si raggiunge con la regola della spesa. Nel 2022 è attesa in discesa del 6%, per il venir meno delle spese legate all’emergenza pandemica. Ma negli anni successivi – proprio per effetto delle spese per investimenti del Recovery Fund finanziate in deficit – il rispetto di quella regola “richiederebbe una accentuata riduzione di altre componenti di spesa o incrementi discrezionali di imposte che sarebbero eccessive”. Spendere, con le regole attuali, si rivelerà un boomerang ed al Mef sembrano perfino imbarazzati nell’ammetterlo.
Queste regole, intrecciate con il Recovery Fund, rischiano di scatenare una tempesta perfetta per affondare, anziché rilanciare, la nostra economia. Fino a ieri la violazione del Patto era sanzionata con la pistola scarica della procedura d’infrazione e le raccomandazioni Paese avevano valore meramente esortativo. Da domani si bloccheranno i pagamenti semestrali del NGEU. L’articolo 17 del regolamento non lascia scampo. I Piani nazionali dovranno essere coerenti con:
le raccomandazioni sulla politica economica dell’Eurozona sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici
le priorità del Semestre europeo e le raccomandazioni specifiche per Paese “inclusi gli aspetti di bilancio”.
Ecco perché il DEF è stato scritto in quel modo. E, secondo l’articolo 10, la Commissione può presentare al Consiglio una proposta di sospensione totale o parziale degli impegni o dei pagamenti quando gli Stati membri non abbiano adottato “misure efficaci per correggere il disavanzo eccessivo”, cioè in caso di violazione del Patto di Stabilità. Che però è viziato da regole farlocche che “raccomandano aggiustamenti anche in condizioni sfavorevoli”, come testualmente si legge nel DEF.
Non ci facciamo illusioni sul dibattito, pur animato, per la loro revisione. Sappiamo solo che Draghi dovrebbe dire chiaramente la verità alle famiglie ed alle imprese: il fondo per la ripresa, finanziato con le condizioni e le regole della UE, rischia di non portare sviluppo e benessere all’Italia.
E poi specificare da che parte sta, perché i dubbi sono numerosi.
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