Axel Honneth, Richard Sennett, Alain Supiot, “Perché lavoro?”
di TEMPOFERTILE
Un libricino uscito nel 2020 che raccoglie brevi interventi di un giurista francese, Alain Supiot, già professore al Collège de France, di un sociologo americano, Richard Sennett che non ha bisogno di presentazioni, e di un filosofo tedesco, Axel Honneth, esponente di punta della “terza generazione” della Scuola di Francoforte. I tre sono ormai tra i settanta e gli ottanta anni di età e nei rispettivi campi sono delle autorità riconosciute.
Nell’interessante intervento di Supiot si prende le mosse dalla critica della ricorrente profezia della fine del lavoro (per effetto dell’età delle macchine[1] o della uberizzazione[2]) ricordando tra l’altro che per questo termine (sul quale tornerà Honneth utilmente) si intende sia il ponos (lavoro faticoso, labeur, labor, arbeit, ladong) quanto l’ergon (opera, oeuvre, work, erk, gongzuo), cioè l’attività guidata da slancio creativo. Dunque, la cosiddetta ‘rivoluzione digitale’, lungi dall’annunciare la fine del lavoro, piuttosto secondo lui implica la fine della centralità delle categorie di pensiero proiettate dalla rivoluzione industriale. Le tecniche produttive di oggetti tecnici non implicano infatti necessariamente un prodotto materiale, ma sono molto più estese e rilevanti, possono essere individuate tecniche del corpo, e prodotti immateriali (come le regole o gli algoritmi). Ma quel che va tenuto presente e fermo è che, in ogni caso, l’homo faber trasforma il suo ambiente man mano che esso stesso si forma. Nel lavoro viene unita quindi sempre una dimensione oggettiva, che implica azione sul mondo esterno, ed una soggettiva, di azione su se stessi.
La rivoluzione industriale ha invece proiettato su di noi categorie di pensiero, sostiene Supiot, che hanno a che fare con il modo di concepire il lavoro (con l’insistenza sulla produzione materiale e il ponos di cui parla anche Honneth nel suo intervento), ma anche con il modo di pensare la proprietà. Né terra, né lavoro erano infatti concepiti nello stesso modo nelle società precedenti. È solo dalla vicenda delle enclosure[3] che il rapporto con la terra è stato sottoposto ad un rapporto biunivoco ed esclusivo con il cosiddetto proprietario che non era mai esistito fino al XVIII secolo e ancora dopo non esisteva nelle società non occidentali[4]. I diritti in quelle società rimandavano sempre a qualche altro rapporto, e quindi la terra non si poteva concepire pienamente come merce, soggetta ad un vero e proprio mercato. Questa mercificazione giuridica di terra e lavoro è chiamata da Supiot “fittizia”, nel senso di storicamente determinata da rapporti sociali e di potere. Si tratta di due “finzioni giuridiche” che si sono imposte contemporaneamente. La cosa è abbastanza evidente anche guardando al lavoro. In effetti il lavoro non è solo azione sulla natura (per cui è inscindibile dalla questione ecologica, che gli pone precisi limiti), quanto azione su se stessi allo stesso e inseparabile momento. Vedremo con Honneth che è anche azione sulla società in un modo diverso da quanto normalmente considerato.
Per farlo comprendere Supiot (e Honneth) mostrano la differenza tra produrre come parte di un sistema di macchine (dalle quali essere sussunti) e “imparare un mestiere”. Padroneggiare un’arte. Ciò significa avere assorbito delle competenze e conoscenze che finiscono necessariamente per fare parte della propria identità. È questo il senso in cui il lavoro deve essere “realmente umano”, e per esserlo deve dare all’homo faber la possibilità di mettere una parte di quel che è in quello che fa, di dare corpo ai propri pensieri, di far realizzare fuori di sé ciò che ha concepito dentro. Sennett mostrerà che significa anche potersi narrare come parte del proprio lavoro, rintracciarvi una storia, un senso coerente. Honneth, trovarvi il senso sociale di essere parte di un’unità dotata di coerenza, di rispetto.
Quando, al contrario, il lavoro viene “disumanizzato” (Supiot), e corrode la personalità (Sennett), oltre la capacità si sentirsi parte della società (Honneth), allora si ha negazione del pensiero (il lavoro viene organizzato sul modello della macchina) e negazione della realtà (si perde il rapporto con il mondo fisico e sociale). Storicamente questo avviene con il passaggio storico dal lavoro degli artigiani a quello delle macchine, cioè con l’industrialismo. Ma si fonda su una struttura concettuale e giuridica più antica, che, tuttavia, viene interpretata in modo molto più esteso e del tutto nuovo.
Supiot ricorda che la forma di lavoro salariato, o del “noleggio di servizi” (o, marxianamente, di acquisto del tempo e delle relative capacità) è una figura del diritto romano. Ed è una figura intermedia tra il lavoro libero e quello servile. Come scrive: “l’uomo libero vive dei frutti del suo patrimonio o del suo lavoro, siano essi consumati, venduti o concessi in affitto”[5]. Lo schiavo lavora per altri, perché gli appartiene come il suo tempo; il padrone di uno schiavo lo può anche affittare liberamente ad un altro uomo libero. Quindi nel diritto romano quando un uomo libero lavora per altri si finge che affitti se stesso (come se il proprio corpo fosse il suo schiavo). Per potersi affittare egli è, in un certo senso, ricondotto allo schiavo di se stesso, ed è questo schiavo che affitta. Quel che questo assurdo escamotage mostra è l’incompatibilità di principio tra la libertà ed il lavoro dipendente. Incompatibilità che fu, per risalire la storia, al centro dei dibattiti intorno all’istituto della schiavitù tra gli stati del sud e del nord degli Stati Uniti[6].
Quel che Supiot ricorda è che “il punto centrale da ricordare è che la nozione giuridica di lavoro emersa in seguito alla rivoluzione industriale si basa su una finzione, quella del ‘locat se’, che consisteva nell’agire come se il lavoro fosse un bene negoziabile, separabile dalla persona del lavoratore. L’intero concetto di ‘mercato del lavoro’ si basa su questa finzione, in gran parte ignorata dagli economisti”. Su questa struttura, mai messa in discussione, interviene il patto fordista che mitiga la sottomissione dei lavoratori grazie al diritto sindacale e la democrazia sociale, e poi la svolta neoliberale, che riduce il perimetro della giustizia sociale[7] e riporta il lavoro sotto la minaccia del declassamento. Dalla spinta a crescere, ad incrementare la propria autonomia, per la maggioranza diventa centrale la paura. La disciplina della paura di cadere (una paura profondamente erosiva, come mostra Sennett nel suo contributo).
Ma ci sono due status professionali che mostrano cosa potrebbe essere, perché sfuggono alla logica del mercato (anche se il neoliberismo cerca di ricondurvele): sono le libere professioni e le funzioni pubbliche. Infatti, “in linea di principio il medico o l’avvocato non sono commercianti liberi di vendere i loro servizi al miglior offerente secondo un accordo stabilito in via amichevole. Il loro lavoro si inserisce in un ambito corporativo che disciplina le condizioni di accesso alla professione, che impone una deontologia, ecc.” I servizi che rendono sono relativi alla qualità della loro persona e sono corrisposti come ‘onorari’, ovvero come riconoscimento per benefici inestimabili”. Anche giudici o insegnanti non ricevono un salario, ma un trattamento. Tutte queste istituzioni sfuggono (ancora ed in parte) dalla finzione insostenibile del lavoro-merce e della azienda-merce che ne consegue.
Richard Sennett aggiunge a questa visione un riassunto della sua nota ricerca sul lavoro e il potere erosivo per la personalità del lavoro debole, intermittente, senza prospettive e senza capacità di un racconto sensato e continuo, nel quale sono intrappolati con la società neoliberale la maggioranza dei lavoratori contemporanei (quando non sono disoccupati). Le persone che svolgono solo lavori temporanei, sottolinea il sociologo, si sentono svalutati e non possono integrare il proprio lavoro nella propria storia di vita. Honneth mostrerà che questa circostanza distrugge anche la capacità di sentirsi membri solidali ed attivi della società politica. Produce un senso potente di “deragliamento personale” e rende impossibile, questo è importante, provare senso di solidarietà per gli altri. Il lavoro senza scopo produce quindi una personalità chiusa, difensiva, interamente individualista, e, Honneth dirà, anche impolitica. Storie troppo brevi, e le tattiche del moderno management (volte a creare disciplinamento interno di gruppo e mascherare il potere del capo) che spesso creano e distruggono gruppi di lavoro, punendoli collettivamente per i fallimenti individuali, rendono impossibile sentirsi solidali e creare unità sociali coese e immersive. Il lavoro mobile, flessibile e temporaneo “sospende la realtà” e induce a pensare solo al presente, in modo strettamente individuale[8].
E’ per questo che la democrazia è in crisi. Axel Honneth sottolinea che su questo hanno piuttosto ragione Durkheim e Marx che Tocqueville e Arendt, “la qualità della partecipazione democratica e, quindi, l’efficacia dell’attività politica dipendono sostanzialmente dal presupposto di una distribuzione corretta, trasparente e inclusiva del lavoro all’interno di una società”, che non dalla mera discussione pubblica politica. La percezione di essere un membro della società, e quindi il presupposto per potervi partecipare politicamente, deriva dalla qualità e dalle modalità di espressione della divisione del lavoro. L’idea di Marx (e quindi di Durkheim) è che la coesione sociale deriva da una società del lavoro, e relativa divisione, corretta, che il primo ovviamente rinvia al socialismo. Come la mette Honneth, “solo quando i membri di una società collaborano nei processi lavorativi necessari per la crescita di quella data società ci può essere il patto normativo indispensabile per l’integrazione sociale”. Le fonti di coesione sociale richiedono di essere inoltre alimentate dal sentimento nazionale che è normalmente una delle precondizioni della capacità di integrazione (in questo sia Marx sia Durkheim erano meno attenti).
L’approccio liberale di Tocqueville e Arendt (e, aggiungo, del vecchio maestro di Honneth Habermas), invece, si impernia sulla comunicazione come fonte di integrazione, la quale, tuttavia, è troppo debole allo scopo. Infatti, di per sé soggiace alle obiezioni di Benjamin Constant e Dewey circa il fatto del pluralismo.
La fonte più potente di integrazione è piuttosto una pratica ed una forma di attività, come Marx propone i membri riconoscono la loro reciproca indipendenza e sviluppano un senso di appartenenza comune cooperando nella produzione di qualcosa nel mondo. Ovvero nell’esperienza di lavorare gli uni per gli altri. Ovviamente questa, prima di Marx, è stata la lezione di Hegel. È in questo modo che si crea il presupposto per raggiungere il senso del proprio valore.
È per questo che, come mostra bene Sennett, la disoccupazione di lungo termine ha effetti così destrutturanti il vivere civile e la stessa democrazia. Come scrive Honneth, “non è la partecipazione al processo democratico ma la divisione del lavoro a detenere il massimo potenziale per generare un senso di coesione tra i membri di una società e quindi per contribuire all’integrazione di singoli che sono altrimenti indifferenti gli uni agli altri”[9]. E, cosa molto importante, non è qui tanto una questione dell’entità delle entrate monetarie, ma proprio delle condizioni sociali di un lavoro che determinano la sensazione che il proprio contributo abbia un peso. La sensazione di non stare costruendo qualcosa di intellegibile nel mondo, di non produrre o farlo non comprendendo il proprio ruolo e contributo, è ciò che espelle l’individuo dal senso di essere nella società. In altre parole, più i membri di una società hanno la possibilità di svolgere compiti complessi, cooperativi, più alta è la partecipazione e più si attivano anche politicamente.
La disattivazione politica che si vede ovunque, l’indifferenza e l’individualismo dominante, l’assoluta incomprensione del sacrificio per gli altri, derivano da questo. Da una cattiva divisione del lavoro e da una società del lavoro male ordinata. Qui la critica di Marx, che reputava non a torto che il capitalismo fosse inadatto a organizzare una divisione del lavoro idonea a creare coesione ed attivazione, è centrale.
Honneth, però, vede anche, nella critica di Marx, ripresa da Durkheim, alcuni limiti dati dal tempo nella quale fu formulata: una valutazione ristretta di quello che viene considerato “lavoro” socialmente necessario (riconducendolo al ponos, o all’arbeit); la concezione deterministica che la forma dominante di distribuzione del lavoro in ogni dato momento sarà condizionata esclusivamente dalle richieste tecnologiche; un errore di meccanicismo, ovvero l’esclusione categorica della possibilità che campi di attività specifici possano avere composizioni alternative e tipologie occupazionali dai connotati diversi; la presunzione, alla fine, che il “vero lavoro” sia quello di fabbrica e fisico.
Se questi sono limiti di un pensiero sviluppato interamente entro la società industriale di metà o fine ottocento non si deve, d’altra parte, andare all’estremo di considerare “lavoro” ogni attività utile socialmente. Ad esempio, ogni componente del cosiddetto “lavoro riproduttivo” (in particolare nell’accezione larghissima proposta da Nancy Fraser[10]), perché la nozione si dissolverebbe aderendo ad ogni e qualsiasi aspetto della vita stessa. Nel senso di un concetto operativamente utile il “lavoro” è quindi, per Honneth, quell’insieme di attività che sono necessarie alla crescita culturale e materiale.
Né si deve indulgere ad una visione monocausale dei fattori che sono responsabili di una divisione del lavoro. La differenziazione tra le prestazioni individuali e il loro inserimento in un ingranaggio comune non è solo influenzata dalla necessità di una maggiore efficienza. E questa ricondotta in ultima analisi alla determinante tecnologica. Sia Smith sia Marx condividevano la visione per la quale la transizione dal mondo sociale dei piccoli agricoltori di semi-sussistenza al mondo industriale capitalista era essenzialmente una progressione dall’autarchia alla specializzazione economica. In realtà, sostiene Honneth, le cose non stanno così:
“all’inizio del XIX secolo sussistevano due valide alternative per raggiungere un’efficace combinazione tra abilità umane e nuove tecnologie, ovvero la produzione di massa di beni attraverso l’adozione di manodopera e macchinari altamente specializzati, e la produzione artigianale di articoli specializzati in contesti più limitati. Nella visione di Priore e Sabel, il fatto che venisse realizzata solamente la prima alternativa, quella della produzione di massa, non era il risultato di necessità tecnologiche, ma esclusivamente della ‘distribuzione di potere e ricchezza’; ‘coloro che controllavano le risorse e i profitti degli investimenti scelsero tra le tecnologie disponibili la più favorevole ai propri interessi”[11].
Il percorso alla forma dominante del fordismo, che segue ai primi del secolo XX, non era dunque inevitabile, una legge ineludibile del progresso tecnologico, ma deriva dalla condizione di aggregazione e chiusura delle imprese artigianali che precede. Ovvero, in altri termini, deriva dalla preminenza politica del potere e degli interessi del profitto industriale. Come scrive, ancora:
“la forma dominante della divisione del lavoro in una data società non è necessariamente la conseguenza di pressioni economiche rivolte all’efficienza, in quanto praticamente in ogni momento temporale sussistono possibilità di pari efficienza per unire capacità strumentali e mezzi tecnici, e la decisione su quale combinazione sia preferibile è dovuta per lo più agli esiti di conflitti politico-economici. La forma in cui il lavoro socialmente necessario è adattata e distribuita viene co-determinata dalle lotte sociali e dagli scontri politici; le capacità umane, le regole tecniche e i macchinari saranno negoziati socialmente o determinati attraverso un conflitto esplicito, non soltanto attraverso pressioni anonime”[12].
Senza indulgere immediatamente in ipotesi utopiche sul lavoro interamente liberato, o su una fluidità che dimentichi gli enormi investimenti (anche identitari) necessari per raggiungere e rendere operative le conoscenze specializzate necessarie, Honneth propone a questo livello della sua analisi l’idea durkheimana che la società dovrebbe sforzarsi di selezionare i lavori più significati e cooperativi in modo che il singolo lavoratore sia messo in condizione di comprendere il modo in cui il proprio ruolo si incastri nell’insieme delle attività interconnesse e nella generale divisione del lavoro, trovandovi il suo posto. Ciò dovrebbe portare ad una maggiore coscienza collettiva ed autostima individuale. Dovrebbe anche significare il contrasto, cosa che è decisamente contro lo spirito del capitalismo neoliberale (e del capitalismo in generale), di tutte le forme di lavoro precario, intermittente, flessibile e umiliante, sottopagato, frammentato e svuotato di senso, monotono, routinario. Giungendo fino a, sono le sue ultime proposte, a potenziare il lavoro cooperativo autogestito o, al capo opposto, il servizio pubblico obbligatorio indipendente da censo o posizione sociale.
L’insieme delle riflessioni contenute in questo sintetico libro, pur nella differenza tra i vari autori e il loro punto di vista, converge come un cerchio di indiani che circondano una carovana nel contrastare la visione del lavoro prodotta dal cosiddetto “libero mercato” (una visione artificiale, come mostra Supiot, e corrosiva come mostrano sia Sennett sia Honneth). Esse costituiscono altrettante frecce per comprendere come il “lavoro” sia l’elemento centrale della costruzione sociale e individuale allo stesso tempo. È assolutamente necessario recuperarne quindi un senso che sfugga alla finzione dell’essere meramente una merce, per comprenderlo come parte inseparabile dell’uomo e per prendere atto che il suo prodotto principale è la stessa società politica. Solo ricordando questa sua funzione verticale, creata dalla divisione sociale dei compiti e delle responsabilità (gli uni verso gli altri), si può fare un decisivo passo oltre la società neoliberale (un ossimoro). Sapendo che questo passo è, necessariamente, anche oltre il capitalismo.
Solo una prospettiva socialista può contemplarlo.
[1] – Erik Brynjolfsson, Andrew MacAfee, “La macchina e la folla”, 2017
[2] – Si veda, ad esempio, “Taxi e Uber: la questione dei servizi pubblici e della platform economy”, ma anche Nick Srnicek, “Capitalismo digitale”, 2017.
[3] – Per questo si deve rimandare al classicissimo Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1944.
[4] – Si veda l’importanza della imposizione della proprietà privata per la colonizzazione in Yves Lacoste, “Geografie del sottosviluppo”, 1965.
[5] – Ivi, p.35.
[6] – Ovvero della polemica tra i giuristi del nord e del sud su quanto fosse “libero” il lavoro salariato nelle fabbriche del nord stesso.
[7] – Ivi., p. 42
[8] – Ivi., p. 78
[9] – Ivi., p.91
[10] – Si veda, Nancy Fraser, “Capitalismo”, Meltemi 2020.
[11] – Ivi, p. 99, cit. Michael Priore, Charles Sabel, “The second industrial divide”, New York, 1994; Charles Sabel, “Work and Politics”, New York, 1984.
[12] – Ivi, p.100
Fonte: http://tempofertile.blogspot.com/2021/05/axel-honneth-richard-sennett-alain.html
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