L’unità d’Italia ai tempi della dominazione spagnola
di QELSI QUOTIDIANO SOVRANISTA (Leonardo Giordano)
Il capolavoro manzoniano de “I Promessi Sposi” ha molto contribuito a diffondere il luogo comune secondo cui gli spagnoli, nell’Italia a cavallo tra Cinquecento e Seicento, abbiano tirannicamente angariato e pesantemente sfruttato con gabelle e soprusi arbitrari le popolazioni italiane sotto il loro dominio.
Francisco Elìas De Tejada ha contestato questo paradigma e, con dovizia di documenti ed argomentazioni, con studi approfonditi pubblicati poi nei 4 volumi di “Napoli Spagnola”, ne ha dimostrato la sostanziale infondatezza.
Il quadro che complessivamente emerge dagli studi di Tejada è quello di un regno di forte vivacità culturale, non solo nelle arti figurative con Caravaggio, Artemisia Gentileschi e Luca Giordano nella scultura lignea religiosa di un Giovan Battista Gallone ed un Aniello Stellato, non solo nelle lettere con Giovan Battista Marino (di recente rivalutato dal critico Filippo La Porta), ma anche negli studi giuridici e politici, con il fiorire di una vera e propria scuola di pensatori ed intellettuali che hanno, da un lato, avversato l’imperante machiavellismo, dall’altro, coniato teorie che sembravano preannunciare l’avvento di un regime monarchico di tipo costituzionale, definito con l’espressione di “monarchia temperata” e facente perno sulla figura di quello che poteva considerarsi l’antenato del Primo Ministro e che gli spagnoli definivano il Privado, in quanto principale consigliere “privato” del Monarca.
A ciò si aggiunga il fatto che spesso la Monarchia spagnola, e ancor più i viceré napoletani, si siano avvalsi di una vera e propria pletora di consiglieri giuridici e politici che dalla provincia, anche la più remota del regno, erano in grado di affacciarsi alla corte e far valere il proprio pensiero e la propria dimestichezza e competenza nelle faccende che riguardavano il governo, la politica e l’amministrazione; alcuni esempi per tutti: Ludovico Paterno, Antonio Minturno e Reginaldo Accetto alla corte del viceré Don Pedro de Toledo, Virginio Malvezzi chiamato alla corte di Madrid e divenuto consigliere di fiducia del Conte di Olivares e “incaricato di delicate missioni diplomatiche”.
Lo stesso Benedetto Croce, che certo non poteva considerarsi un acritico esegeta del Seicento e delle sue espressioni culturali, dovette ammettere:‹‹Strano è anzitutto che si sia preso e che si prenda ancora, grande scandalo del fatto che l’Italia meridionale desse uomini e danaro pei fini della politica spagnola, come se questa politica non fosse poi la sua politica, come se essa non ne godesse i vantaggi, quali che fossero (e quello dell’essere preservata da invasioni, e anzi da guerre combattute nelle sue terre era certamente non piccolo)››
Ciò che comunque risalta per originalità e per capacità di analisi senza pregiudizio alcuno, nell’opera del Tejada, è lo sforzo di ricostruire nella Napoli spagnola di fine Cinquecento e della prima metà del secolo successivo l’ elaborazione intellettuale di un’identità italiana e un non casuale tentativo di realizzare un’unità politica della penisola sotto le insegne della corona spagnola ad iniziare da Carlo V sino a Filippo III.
In altre parole vi furono varie iniziative tendenti all’unificazione politica dell’Italia facendo perno su quella che era considerata “la Spagna italiana”, cioè il Regno di Napoli. Tale tentativo trovò nella Roma di Paolo IV e dei suoi successori, nonché nella Repubblica Veneziana, ostacoli pressocché insormontabili e i suoi più acerrimi avversari. In sintesi, nel disegno imperiale di Carlo V e dei suoi più prossimi successori alla corona di Spagna, vi era posto per un’Italia unificata e ampiamente autonoma, non strettamente vincolata all’amministrazione madrilena e castigliana. Commenta Gabriele Fergola, al riguardo: ‹‹Perché nella Napoli Spagnola […] ci si pose il problema dell’unificazione politica italiana sotto l’egemonia di Napoli, seppure sempre nell’ambito della monarchia federale spagnola.››
Come strumento per conseguire questa unità si pensò, almeno inizialmente, anche a dover usare come lingua unitaria il volgare toscano, preferendolo a quello napoletano. In altri termini si pensò a “a sciacquar i panni nell’Arno” ben prima del Manzoni e del suo noto capolavoro. Afferma sempre Elìas De Tejada riferendosi all’opera di Antonio Minturno :‹‹ Esso rappresentava qualcosa di più del linguaggio proprio della Toscana: è la “nuova lingua” dell’intera Italia.[…] Basterà mutare il toscano in lingua comune dell’Italia per preparare l’unione dell’Italia intorno a Napoli. E’ una lingua comune che in verità non si parla a Napoli ma che a Napoli viene coltivata da numerosi scrittori››.
Proprio all’Italia, con stile petrarchesco e con la medesima accuratezza linguistica del “poeta laureato”, Ludovico Paterno dedica questi versi sottolineando il suo dolore nel veder la patria indifferente e “triste” rispetto ai suoi destini:‹‹Italia mia, benché ‘l tuo lungo affanno/sia tal che ’n mille carte/ è trista amar historia a chi t’incende:/ non posso far che de’ sospir tuoi parte/ […] Deh sia pur ver che neghittosa e triste/ dormir sempre ti piaccia/ sonno profondo assai più che la morte.
Il disegno di unificazione politica della penisola perseguito da Carlo V, poi ancor più dal suo successore Filippo II e, man mano scemandone le aspettative e le speranze, da Filippo III, come si è detto, era concepito in un più vasto assetto geopolitico – diremmo oggi – che avrebbe visto l’Italia federata alla Monarchia Universale di Spagna, concepita quale erede autentica e legittima della Tradizione Romana (Carlo V fu l’ultimo Imperatore del Sacro Romano Impero), ma con ampia autonomia di governo e sostanziale sovranità linguistica e culturale.
Così chiosa questo progetto Gabriele Fergola :‹‹ In un autore come Ludovico Paterno vi è chiaro il sogno di un’Italia unita intorno a Carlo V, il che non significa un’Italia sotto il “dominio spagnolo”, ma piuttosto federata con la Spagna. Così come in Antonio Minturno un’Italia unificata dal regno di Napoli sotto la corona dell’imperatore asburgico costituirebbe la reviviscenza della Roma imperiale. E per questo progetto unificante ci si rende conto che la lingua da utilizzare sarebbe stata il toscano e non il napoletano.››
Questo “sogno” andò man mano svanendo perché si infranse sugli scogli delle resistenze papali e veneziane, opportunisticamente alleate agli interessi della corona di Francia. Ebbe però un momento di resipiscenza con il Duca di Osuna, Francisco de Quevedo, concepito però nella forma di un’estesa egemonia e di un affermato primato di Napoli nella penisola contro le pretese di Francia, Savoia, Pontificato e Venezia. ‹‹Lo spegnersi delle ambizioni che caratterizza il regno di Filippo III rispetto a quello del padre e del nonno , è questo: ridurre a semplice egemonia le ambizioni di unificazione. Quevedo vi aderisce col suo grande talento e la sua passione. Ma in lui la riduzione degli orizzonti è lotta, giammai rinuncia.››
Una chiave di spiegazione del giudizio estremamente negativo del Manzoni, che – ricordiamo – era storico acuto e preciso, sulla così detta “dominazione spagnola”, probabilmente risiede nel suo riferirsi alla situazione milanese. Milano però era un ducato, ereditato dalla monarchia spagnola per via asburgica, e a reggerne le redini amministrative e le vicende politiche era un Governatore non certo il viceré, come a Napoli, e la differenza non era di poco conto.
Come giustamente sosteneva Benedetto Croce non ci deve “far scandalo” questa ambizione spagnola ad unificare politicamente l’Italia e ad assumere nell’italiano toscano il suo idioma comune. In fondo Napoleone, quasi due secoli dopo, fece di peggio. Mai si sognò di unificare politicamente l’Italia, dividendola prima in piccole repubbliche e poi in regni affidati ai suoi familiari, assicurando ad ognuno di questi stati forse meno autonomia e sovranità di quelle registrate nel Regno di Napoli. Per questo egli deluse profondamente i suoi epigoni, inizialmente più entusiasti, come Ugo Foscolo, Vincenzo Cuoco e Francesco Lomonaco. Per questo l’età della Spagna italiana, coincidente con la fine del Cinquecento e il primo quarto del Seicento, non può essere espunta dal lungo, faticoso e ostacolato “cammino” lungo il quale si fece l’Italia, considerandola una parentesi effimera e transitoria.
FONTE: https://www.qelsi.it/2021/lunita-ditalia-ai-tempi-della-dominazione-spagnola/
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