Tra Fiume e Mosca
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Daniele Meregalli)
L’Impresa di Fiume era un vero e proprio progetto rivoluzionario, rappresentato dalla rivista “La Testa di Ferro”
Negli ultimi decenni la ricerca storica ha tentato di dimostrare come all’impresa di Fiume, e più in generale al dannunzianesimo politico, vada riconosciuta una fenomenologia autonoma e complessa, irriducibile a mera anticipazione del fascismo, evidenziandone, oltre alla vocazione irredentista e patriottica, gli aspetti sociali e libertari. Autori come Ferdinando Cordova, Renzo De Felice, Emilio Gentile, Claudia Salaris e Giordano Bruno Guerri hanno infatti sottolineato come la frangia più “scalmanata” dell’impresa abbia tentato di tradurre la temperie fiumana in un vero e proprio progetto rivoluzionario, mirante a rovesciare il regime di democrazia borghese che era valso nel Paese sin dalla sua Unità. Nell’elaborazione di questo progetto, che non fu mai messo a sistema, ma le cui linee generali si modellarono nella prassi dei mesi fra il settembre 1919 e il dicembre 1920 nutrendosi del nazionalismo misticheggiante di Gabriele D’Annunzio, del sindacalismo rivoluzionario di Alceste De Ambris e del combattentismo libertario di futuristi ed arditi, fu coniata l’espressione fiumanesimo.
La Testa di Ferro è la rivista che si assume la responsabilità di rappresentare il fiumanesimo, fungendo da organo ufficioso del Comando di Fiume e offrendo una voce pubblica ai legionari della “Città di vita”. Fondata e diretta dall’ardito Mario Carli, massimo promotore del futurismo politico, la sua redazione era composta da reduci, arditi e futuristi: oltre alla firma di Filippo Tommaso Marinetti sul giornale appaiono quelle di Alessandro Forti, Umberto Foscanelli, Cesare Cerati, Emilio Settimelli, Vincenzo Fani Ciotti detto Volt, Piero Belli, Leòn Kochnitzky, Guido Keller, Sergio Comisso. Non mancano le pubblicazioni di discorsi e comunicati di D’Annunzio e De Ambris, compreso il testo integrale della Carta del Carnaro e il Commento alla Carta del grande leader sindacalista-rivoluzionario. Uscendo a cadenza settimanale, La Testa di Ferro viene pubblicata a Fiume dal 1° febbraio al 20 giugno 1920. Con il numero 21 la sede si trasferisce a Milano: è D’Annunzio stesso a invitare la redazione ad allontanarsi, giacché le posizioni espresse dal settimanale appaiono troppo radicali e possono compromettere l’esito di decisioni politiche delicate. D’altra parte, senza più controlli, La Testa di Ferro passa pienamente sotto l’egida futurista, moltiplica le rubriche dedicate ad arte e letteratura e aumenta la propria carica radicale. Le pubblicazioni riprenderanno l’8 agosto e arriveranno fino al 17 aprile 1921, con un altro intervallo fra il 26 dicembre 1920 e il 30 gennaio 1921, in coincidenza con gli eventi del “Natale di sangue”. Con il suo cinquantaquattresimo numero, dopo varie vicende editoriali ed un anno e quasi tre mesi di vita, La Testa di Ferro cessa le sue pubblicazioni, sopravvivendo di poco alle sorti dell’impresa. I motivi ideologici fondamentali della Testa di Ferro si svelano soprattutto negli articoli di Mario Carli e Alessandro Forti. È tuttavia Marinetti a comporre il più pregnante manifesto ideale del settimanale: il 15 agosto 1920 esso pubblica infatti Al di là del comunismo, un testo che porta a compimento quel percorso di definizione del futurismo politico iniziato nel 1918 con il Manifesto del partito futurista italiano e proseguito nel 1919 con Democrazia futurista.
Il compito assunto dal testo di Marinetti è la definizione di una possibile “rivoluzione italiana”. La sua posizione, tuttavia, è filosofica prima che politica. Come nella sua decennale carriera di agitatore culturale, Marinetti sostiene qui infatti una Weltanschauung attivistica, arazionalista, tragica, che riconosce l’intrascendibilità del divenire e del suo eterno polemos. Poiché infatti è la stessa storia, obbedendo alla natura violenta del divenire, a pretendere “ostacoli da rovesciare, cioè guerre rivoluzionarie”, la concezione di rivoluzione proposta da Marinetti non è legata a uno specifico progetto politico da realizzare, ma coincide con una realtà concreta, viva, immanente: tutti i fenomeni ne sono partecipi, anche quegli stessi che vorrebbero bandirla. Poiché la stessa esistenza è lotta rivoluzionaria, scrive dunque Marinetti, l’utopia di perfetta uguaglianza ed eterna pace del comunismo d’ispirazione marxista non solo non è realizzabile, poiché non è possibile estirpare il conflitto dall’intimo essere di tutte le cose, ma non è neanche auspicabile, poiché equivarrebbe alla morte di tutte le cose viventi. È necessario, al contrario, assecondare il moto del divenire, e liberare quindi gli individui dalle pastoie materiali e culturali che ne limitano tutte le potenzialità creative. Marinetti distingue dunque un socialismo “dogmatico”, egalitario, utopico, internazionalista, da uno “pragmatico”, libertario, realista, patriottico. Ponendosi contro ogni astratto cosmopolismo, egli sostiene infatti come un’autentica rivoluzione italiana non possa realizzarsi modellandosi su analoghi tentativi stranieri, ma soltanto eleggendo la patria come sua esclusiva base d’azione. All’Italia spetterebbe dunque una sua rivoluzione, contro la prevaricazione degli altri Paesi, secondo i suoi bisogni storici e le caratteristiche del suo popolo – che paradossalmente Marinetti individua nell’attitudine all’“individualismo anarchico”. Egli pensa infatti la comunità nazionale come “il massimo prolungamento dell’individuo, o meglio: il più vasto individuo capace di vivere lungamente, dirigere, dominare e difendere tutte le parti del suo corpo”. Nella concezione futurista, l’individuo si potenzia e, potremmo dire, si realizza solo come nodo postumano di relazioni con l’altro da sé. Ma l’altro a noi più vicino e familiare è, secondo Marinetti, il nostro compatriota: per questo egli promuove un’alleanza di classe, invitando proletariato e ceto medio a combattere fianco a fianco la rivoluzione sociale e nazionale. Egli propone quindi di abolire, una volta ottenuto il potere, tutte le istituzioni “passatiste” e di fondarne di nuove, più adatte al tempo del futurismo, affinché il genio italiano possa realizzare un “meraviglioso paradiso anarchico di libertà assoluta”. La rivoluzione futurista intende infatti non solo soddisfare le condizioni materiali degli indigenti, ma anche elevare i loro spiriti, così da “dare a tutti la volontà di pensare, creare, svegliare, rinnovare, e distruggere in tutti la volontà di subire, conservare, plagiare”, realizzando pienamente le proprie potenzialità esistenziali e creative. Tale è l’obiettivo finale di Marinetti: la conquista del potere da parte del “proletariato dei geniali”, cioè del popolo inteso come composto da potenziali artisti, e quindi la perfetta trasmutazione della vita in arte.
L’evocazione letteraria e il programma politico di Al di là del comunismo sintetizzano in nuce la concezione complessiva espressa da La Testa di Ferro. Alcuni altri articoli che riflettono su una possibile via fiumana al socialismo sono poi quelli che commentano gli scontri sindacali del Biennio Rosso e quelli che tentano di analizzare la rivoluzione russa del 1917. Nella parziale divergenza d’opinione degli articolisti, la redazione della Testa di Ferro complessivamente plaude alla mobilitazione delle masse, perfettamente organizzate nell’appropriazione dei mezzi di produzione, durante gli scontri sindacali dell’estate-autunno 1920, ma accusa il movimento operaio italiano d’aver acquietato le sue originarie pretese rivoluzionarie cedendo alla mediazione di Giolitti e accontentandosi di ottenere dei favori economici. Sarebbe stato invece suo dovere storico, osservano severamente le “Teste di Ferro”, partecipare al capovolgimento del regime liberale fianco a fianco con la piccola borghesia, nella forma dell’organizzazione sindacale intesa come unità rivoluzionaria e di governo. È quindi nella lotta interna al socialismo fra massimalisti e riformisti che il ceto medio rivoluzionario, a cui appartengono i legionari fiumani, potrebbe inserirsi, fiancheggiando la fazione radicale per indirizzarla contro l’alta borghesia.
“Per il testimone scettico e scevro di pregiudizi non è spettacolo banale quello offerto da internazionalisti che difendono palmo palmo il suolo della patria, socialisti che hanno fatto il processo al socialismo e ucciso il principio democratico e che con mezzi che nessuna tirannia osò fin qui adottare crearono uno Stato che è un monumento elevato allo spirito più aristocratico – all’aristocrazia del pensiero e della volontà creatrice.”
La Testa di Ferro apre poi esplicitamente a istanze di giustizia sociale e democrazia diretta, là dove sostiene di voler contribuire a “sollevare la miseria materiale e spirituale delle masse” e “chiamare accanto alle «élites» anche i rappresentanti del «numero» a partecipare della vita collettiva, a decidere dei propri interessi e del proprio destino” (Il nostro bolscevismo). Nessuno più di un ufficiale che abbia combattuto in trincea, sostiene Carli, può comprendere infatti quanto sia prezioso sul campo di battaglia il valore delle decisioni prese in gruppo, alla pari. La stessa concezione riecheggia in fondo ne Il nuovo ordinamento dell’esercito liberatore, stilato da Giuseppe Piffer e D’Annunzio nel corso del 1920; ed è anche lo stesso principio del soviet, il cui sistema può, secondo Carli, essere esteso ad ogni ambito dell’organizzazione sociale. “Ancora una volta: guardiamo all’Oriente!”, scrive egli concludendo Il nostro bolscevismo:
“Tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte fra queste due rive”.
FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/italia/fiume-testa-di-ferro/
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