Quando l’istruzione diventa una gara, i privati vincono
Di La Fionda (Andrea Piccoli)
Uno degli effetti più evidenti e meno tragici della pandemia è stato, per la maggior parte delle persone, il rallentamento generale del ritmo già estremamente frenetico che caratterizzava le nostre vite, alcuni però non hanno subito rallentamenti e pochi altri hanno assistito ad un’ulteriore accelerazione.
Gli studenti, in particolare quelli universitari, hanno avuto maggiore tempo per studiare e, non credo sia un caso, che in poco meno di un mese sia stato superato due volte il record che riguarda il tempo minimo per laurearsi – ora ufficialmente tre anni e sei mesi per una laurea quinquennale in giurisprudenza -. La Repubblica [i] e molti altri giornali non hanno perso tempo ad elogiare questa titanica impresa e a rappresentare questi neolaureati come esempi.
Siamo sicuri che in questi elogi rispetto ai singoli individui non si celino, invece, problematiche strutturali?
Per rispondere a questa domanda dovremmo munirci di due “lenti” da cui esaminare questo fenomeno. Il padre della macroeconomia, Keynes, aveva già teorizzato di quella che venne definita la “fallacia della composizione”, afferma come i comportamenti del singolo considerati efficienti, se portati ad un contesto macro diventano nocivi. Basti pensare al risparmio: auspicabile e positivo per il singolo, ma che porterebbe alla stagnazione se perpetrato dall’intera collettività.
È proprio attraverso due diverse lenti che vorrei analizzare il fenomeno che riguarda la conclusione anticipata del percorso accademico.
Da laureando comprendo senso di frustrazione e di impotenza che può accompagnare gli anni dedicati all’istruzione, soprattutto se è elevata la consapevolezza della difficoltà nel trovare un lavoro adeguato; l’università può rappresentare una spesa importante per lo studente e la sua famiglia e, una volta conclusa, si auspica che si possa iniziare un percorso lavorativo, remunerativo e di autosufficienza. Il lavoro è il primo accesso all’indipendenza e all’autorealizzazione di chi ha intrapreso un percorso universitario, traguardo che arriva molto in ritardo rispetto a coetanei che non hanno perseguito gli studi, considerando le differenze di reddito tra laureati e diplomati.
Sebbene l’85% dei neolaureati trova lavoro con uno stipendio medio netto di 1300 euro questi sono dati caratterizzati da una forte variabilità; i laureati in informatica sono ad una percentuale di assunzione superiore al 100% con stipendi da 1600 euro, mentre gli ultimi sono occupati dai laureati in giurisprudenza, dei quali solo il 60% riesce a trovare un lavoro con una remunerazione media di poco più di 1000 euro al mese. [ii] Se si inizia a lavorare a un anno dal diploma, invece, la retribuzione media netta è superiore a 1.100 euro e sale ad oltre 1.250 euro a tre anni.[iii]
Rispetto a ciò, concludere anticipatamente il percorso è qualcosa di estremamente lodevole, ammirevole e risultato di profondo impegno e dedizione.
Se dal punto di vista micro il vincitore risulta essere il singolo studente, da quello macro, il perdente risulta essere la stessa università o meglio l’istituzione che rappresenta e struttura il processo dell’apprendimento. Il rischio maggiore è che una buona parte degli studenti consideri la scuola, soprattutto quella di secondo grado, medie e superiori, come qualcosa che ostacola e rallenta, un obbligo al quale dobbiamo adempire, imparando cose percepite come antiquate e inadeguate, in poche parole che non ci serviranno mai. Questa tragica percezione di inutilità, temo, si ripercuota anche verso l’università.
Proviamo a capovolgere la prospettiva, a fare un esercizio mentale in cui cerchiamo di vedere oltre l’automatismo che governa le nostre vite tentando di capire il perché delle istituzioni e della struttura sociale che è stata reificata, resa reale e tangibile nel tempo, dando uno sguardo che si concentra sulla funzione dell’università. Da una prospettiva sociologica l’università è un’agenzia adibita all’istruzione e i suoi programmi di studio sono funzionali alla formazione di persone che possano risolvere problemi moderni in ogni disciplina[iv]. Lo Stato, come struttura sociale e politica, ha interesse fondamentale, per la sua stessa sopravvivenza, che l’istruzione e la ricerca siano all’avanguardia e ciò avviene in un tempo e in uno spazio. Tempo e spazio in cui si sviluppano confronti tra studenti e studenti e tra studenti e professori, tempo e spazio necessari per garantire che la conoscenza sia “digerita”, confrontata con la complessità della realtà e conosciuta, non solo appresa e che possa generare idee innovative e creative per far fronte alle sfide della comunità. Questo tempo e spazio rappresentano anche gli anni universitari – assieme a quelli dell’istruzione secondaria del secondo ciclo -. Altra importante funzione, temo ormai perduta, dell’università è quella di coinvolgerci e di insegnarci le prime archetipe relazioni importanti con uffici, esercizi di partecipazione democratica – le elezioni universitarie – e possibilità di interfacciarci in modo più consapevole, autonomo e dignitoso con chi rappresenta l‘autorità. Anticipare la conclusione degli anni di studio è una perdita qualitativa dell’apprendimento di opportunità e di crescita personale. Due critiche fondamentali metteranno in difficoltà chiunque pensasse che questa è solo una mera utopia di fronte all’efficienza del privato proponendo come argomento principale l’inefficacia del pubblico. La prima critica riguarda il fatto che ciò che più ostacola la realizzazione di questa visione è principalmente una mancanza di fondi e non di certo la volontà o la qualità delle idee nel pubblico. La seconda è che l’università non svolge esclusivamente una funzione formativa, tecnica e funzionale alla risoluzione di problemi. Essa crea e diffonde cultura. In particolare, la prima riguarda le informazioni necessarie per svolgere un lavoro, la seconda, invece, concerne un sapere generale, le modalità di approcciarsi al mondo e agli altri trovando e creando significato. I corsi proposti da multinazionali o università private sono caratterizzati da una maggior efficienza, concentrandosi su quelli che sono i bisogni delle aziende e che sono ben diversi dai tipi di corsi strutturati dallo Stato. Una visione del mondo universitario che auspica ad un’accelerazione della conclusione del percorso di studi porta con sé il rischio che si insinui malignamente l’idea che l’università pubblica non sia più in grado di svolgere la propria funzione, cancellando le importanti differenze tra la cultura e la formazione, in favore di quest’ultima e delle necessità dei privati. Già oggi Google propone corsi gratuiti online soprattutto in ambito informatico, e non solo, come “analisi dei dati”, “digital marketing” che vanno da due ore fino a oltre venti ore[v]. Non sono i primi tentativi di spingere l’educazione in mano ai privati, si pensi che già alla riforma della buona scuola di Renzi in cui si apriva la scuola ai finanziamenti privati come il “School Bonus” e il “school guarantee”[vi]. Ora, però, sono le stesse multinazionali che stanno progettando corsi brevi, che non richiedono lauree e che promettono la possibilità di trovare un lavoro.
Asimov scriveva:
“Un diploma è il primo passo giù per una china rovinosa. Non vuoi sprecarlo, perciò ti iscrivi all’università, ti laurei e, naturalmente, ti specializzi. E di questo passo ti ritrovi ad essere un perfetto ignorante su tutto tranne che per una scheggia suddivisionale di qualcosa, ossia di niente.[vii]”
Prendo spunto dalla critica al sistema scolastico di uno dei più grandi scrittori di fantascienza per proporre un’alternativa.
Le università private, basti vedere i punti fermi del sito della LUISS[viii], si propongono di fornire una formazione tecnica, che garantisca primariamente accesso al mondo del lavoro, soprattutto per aziende private. La vera innovazione, quella di natura creativa non può avvenire attraverso un’istruzione programmata su bisogni conosciuti. Un modello induttivo in cui le aziende chiedono un curriculum accademico disegnato a su misura di quello che pensano siano le capacità necessarie per risolvere i loro problemi non può funzionare.
Sapere la storia dell’Impero Romano, saper suonare uno strumento, sapere come funziona la respirazione non sono informazioni “utili”, infatti non sono richieste in corsi di formazioni aziendali, ma garantiscono un modo di pensare interdisciplinare con una consapevolezza dello studio come di un processo continuo, trasversale e in divenire della storia. Nell’”uomo artigiano” di Richard Sennett viene spiegata incredibilmente la storia di Christopher Wren, il quale partecipò attivamente per la ricostruzione di Londra dopo il nefasto incendio del 1666. Wren progetta la ricostruzione della capitale inglese utilizzando le conoscenze derivate dalla sua passione per il telescopio e dalle sue conoscenze sui cani; ciò gli permise sia di liberarsi dalla determinatezza dell’assetto urbanistico romano in favore di uno spazio senza punti di riferimento, sia di costruire le strade come fossero arterie e vene riducendo la densità della popolazione che prima d’ora non era mai stata considerata.
In conclusione, è bene ricordare che qualsiasi esaltazione dell’individuo che termini il proprio percorso di studi perdendo diversi anni è frutto di una mentalità politica che valorizzano la tecnica alla cultura, che vede l’essere umano come un soggetto che nel proprio contesto ha il solo compito di svolgere il prima possibile e al meglio i compiti a lui richiesti, seguendo le logiche e le finalità della formazione delle aziende private. La battaglia culturale è già persa nel momento in cui si permette di raccontare l’istruzione come ad una gara contro il tempo e gli altri, l’università non può e non deve seguire queste modalità ma proporre nuovi metodi interdisciplinari e innovativi. Ricordiamoci di criticare ma difendere l’università, la quale, nonostante innumerevoli difetti, ora è ciò che più può, per sua stessa natura, garantire un apprendimento profondo ma anche interdisciplinare, creativo e volto ad affrontare le sfide che la realtà pone e il cui fine coincide con lo sviluppo ed il benessere della comunità.
Fonte: https://www.lafionda.org/2021/06/23/quando-listruzione-diventa-una-gara-i-privati-vincono/
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