Partecipazione e distanziamenti: dove vanno il pluralismo, il dissenso e il conflitto sociale?
di HYPERPOLIS
Partecipazione e distanziamenti:
dove vanno il pluralismo, il dissenso e il conflitto sociale?
di
Alessandra Valastro
- Rincorse terminologiche e spostamenti di significato
Nel susseguirsi di emergenze che ormai caratterizza il nostro tempo, quest’ultimo periodo verrà ricordato anche per un’ondata di ricadute terminologiche: parole nuove o di altri idiomi che hanno fatto irruzione nel lessico quotidiano, oltre che politico; termini antichi che hanno mutato drasticamente senso e utilizzo; acronimi che si moltiplicano.
Lockdown e distanziamento sono fra i termini protagonisti. L’uso della forma inglese per il primo, in luogo di “confinamento”, ha forse consentito di scongiurare evocazioni sgradevoli a vicende dolorose ancora conficcate nella memoria storica (l’Olocausto fu solo una di queste); mentre l’accostamento degli aggettivi fisico e sociale ha consentito di oscurare altre forme di distanziamento (lavorativo e scolastico), ancor più sgradevoli ma mai espressamente nominate.
Anche smart warking e social network sono protagonisti, di cui si sono lodate le capacità salvifiche durante l’emergenza pandemica. Salvo scoprire, coi mesi che passano, che il lavoro a distanza non è affatto smart e che la socialità promessa dai social non equivale a quella perduta.
Negli acronimi, come DAD, la parola distanza è addirittura eliminata dalla vista e dalla pronuncia, quasi ad anestetizzare il subbuglio emotivo che l’idea del distanziamento fra i più giovani non può non provocare.
Vi sono infine termini antichi, appartenenti tanto al lessico comune quanto a quello giuridico, d’un tratto assurti alla ribalta delle cronache private e pubbliche. Assembramento è tra questi: per i più, è il fatto di una molteplicità di persone che si ritrovano concentrate in un luogo, per le ragioni più varie; per il costituzionalismo è termine addirittura caro alle libertà fondamentali, in quanto modalità di espressione della libertà di riunione e come tale tutelata. Oggi, è termine che inquieta.
Anche partecipazione è parola antica, che tuttavia ha molto a che fare con quelle precedenti: in questo caso a cambiare non è il termine bensì tutto il mondo che gli ruota attorno e di cui la partecipazione dovrebbe essere parte viva.
C’è stato un periodo in cui anche la partecipazione ha lambìto il fascino modernizzante dell’inglese, tanto più promettente –così pareva- in quanto legato all’utilizzo delle nuove tecnologie: e-participation. Ma quelle promesse furono in gran parte disattese: le politiche di e-governance e di e-government avviate alla fine degli anni ’90 mostrarono ben presto le proprie debolezze proprio rispetto alla capacità di avvicinare governanti e governati e di rafforzare le garanzie di effettività della partecipazione; e i surrogati terminologici inglesi scomparvero velocemente.
A non essere scomparse, tuttavia, sono le problematiche di cui quei surrogati e il loro fallimento erano premonitori: si trattava infatti delle prime spie di forme di distanziamento strisciante che andavano diffondendosi, tanto più dannose e ambigue perché contrabbandate per il loro contrario. L’esplosione dei social media sta ampliando ed esasperando la frammentazione della relazionalità e la riarticolazione del rapporto fra vicinanza e distanza, sia tra i privati che fra questi e il pubblico; e l’irrompere delle nuove forme di distanziamento collegate all’emergenza sanitaria rischia di rendere questa esasperazione ancor più dannosa, soffocando le possibilità concrete di una partecipazione effettiva e plurale quale occorre a una democrazia vitale.
Se è vero che partecipare è prendere parte, oggi più che mai torniamo a doverci chiedere: partecipare a che cosa? E soprattutto: partecipare “dove”?
La prima è domanda annosa per chi da tempo si interroga sulle «malattie croniche della partecipazione», come le definiva Bobbio [Bobbio 1971, 82]. Ma essa torna oggi rinnovata in virtù della seconda domanda, che è invece integralmente figlia di questo tempo: partecipare “in presenza” o a “distanza”? O meglio: fisicamente o in assenza? Perché anche il concetto di presenza è ormai ampiamente inquinato (e frainteso) grazie alle presunte magie della connettività.
Porre la dimensione digitale come ampliamento degli spazi tradizionali della partecipazione non basta più. Il digitale non può più essere considerato solo in termini di potenzialità accrescitive rispetto alle modalità tradizionali di esercizio dei diritti. Il digitale, ora più che mai, è anche distanza. E può tradursi in distanziamento, se non addirittura in confinamento. E infine in assenza. Proprio l’opposto del mito che è stato associato ai social media.
L’apparente paradosso di quest’ultima affermazione evapora se sol ci si ricorda che la tecnologia è neutra e che gli effetti da essa prodotti nella società sono determinati dall’uso che se ne fa, e ancor più dalle politiche che dietro le quinte ne muovono i fili.
Dunque, in un’epoca di distanziamenti molteplici, più o meno visibili e variamente motivati, la partecipazione “fisica” è morta? E se non è morta, come si sta trasformando e dove si va spostando? È ancora concepibile la partecipazione quale fulcro emancipante del modello di democrazia sociale disegnato dalla Costituzione italiana?
Le coppie vicinanza/distanza e presenza/assenza segnano dimensioni e confini non mistificabili, perché rivestono un ruolo fondamentale nelle vicende attuative e nelle garanzie di molti diritti, soprattutto sociali e collettivi.
“Essere presenti a distanza” è invece espressione che, divenuta fra le più comuni negli ultimi tempi e senz’altro ineccepibile sul piano fenomenologico, appare a dir poco sospetta se riguardata sul piano politico e giuridico. L’uso e abuso che se ne fa su questo piano sembra infatti tradire l’ennesima rincorsa terminologica verso rassicuranti traslazioni di significato, dove la sostanziale assenza si trasforma in semplice distanza, e questa viene contrabbandata come una forma diversa di presenza: con buona pace per le chances concrete di fruibilità di tutte quelle situazioni cui il costituzionalismo del secondo dopoguerra aveva affidato i suoi valori più esigenti, fra i quali «la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 Cost.).
Vi è più di un motivo, mi pare, per chiedersi se tutto questo debba considerarsi la conseguenza inevitabile e transitoria delle politiche emergenziali o se -al contrario- la tendenza alla normalizzazione dell’emergenza non stia diventando un nuovo strumento di produzione sociale della distanza destinato a soffocare mortalmente quei valori.
- La partecipazione che tiene in vita la democrazia sociale: pluralismo e solidarietà, dissenso e conflitto
Continuare a ricordare l’anima valoriale che sostiene il principio di partecipazione mi pare fondamentale, pena il rischio di offrire il tema alle consuete retoriche bonne à tout faire, con le loro derive demagogiche e antidemocratiche.
Il carattere qualificante di questo principio nel quadro del modello costituzionale italiano deriva dal suo inserimento nell’art. 3, comma 2, in un affiancamento di strumentalità reciproca con il principio di eguaglianza sostanziale. Da questo dato valoriale discende che il principio di partecipazione democratica –quale traduzione concreta e permanente del principio di sovranità- è il prius logico di un’impalcatura concettuale e giuridica in cui tutte le sue diramazioni dovrebbero tenersi in modo coerente: gli istituti partecipativi della democrazia rappresentativa (diritto di voto, diritto di associazione partitica), quelli della democrazia diretta (petizione, iniziativa legislativa, referendum), gli strumenti e le procedure della democrazia partecipativa (consultazione, bilancio partecipativo, dibattito pubblico, ecc.), le forme della partecipazione economica (cooperative di lavoratori, diritto di sciopero, ecc.), i movimenti e le manifestazioni non istituzionalizzati della c.d. partecipazione dal basso.
La apparente genericità che il principio di partecipazione assume nell’art. 3, in quanto non declinato in istituti e garanzie predeterminati, si riempie di contenuto prescrittivo grazie al suo collegamento con l’eguaglianza sostanziale, quale valvola aperta rispetto alle cause storicamente mutevoli della diseguaglianza di fatto e al conseguente necessario e continuo adeguamento delle forme di esercizio della sovranità.
Si tratta pertanto di un principio fondante che è allo stesso tempo obiettivo, strumento e metodo, le cui molteplici declinazioni mirano a mantenere aperte tutte le vie che portano all’inveramento dei valori del sistema democratico: pluralismo, solidarietà e cooperazione, ma anche dissenso e conflitto sociale. Lo dimostra, fra le altre cose, l’uso del termine lavoratori in luogo di quello di cittadini o di individui, a sottolineare (in collegamento con gli artt. 1, 2, 4 e 42-45) il forte radicamento del principio di partecipazione nell’evolvere storico delle condizioni materiali dell’esistenza.
Con l’inserimento del principio di partecipazione nell’art. 3 il Costituente intendeva rispondere alla domanda che la diversa collocazione nell’art. 1, inizialmente prevista, avrebbe lasciato inevasa: prendere parte a che cosa e in che modo? Confrontarsi costantemente con le condizioni che ostacolano la giustizia sociale e la realizzazione effettiva dei bisogni rende il principio di partecipazione estremamente concreto ed esigente: una prospettiva in cui il “pieno sviluppo della persona umana” non è fine in sé ma condizione per realizzare una democrazia socio-economica oltre che politica, emancipante oltre che inclusiva [Atripaldi 1974; Calamandrei 2018; Fichera 1974].
È in questo senso, così fortemente radicato nelle condizioni materiali e non solo formali di realizzazione della democrazia, che il concetto di partecipazione incrocia e intreccia gli assi portanti del costituzionalismo: il rapporto fra autorità e libertà, i modi e le garanzie di esercizio del potere, le condizioni di effettività dei diritti, il conflitto sociale.
Ed è parimenti in questo senso che tale principio si salda, per un verso, con i due articoli che lo precedono, per altro verso con gli articoli che lo seguono e che completano la Prima Parte della Costituzione.
Da un lato il collegamento con gli artt. 1 e 2 Cost.: il principio di solidarietà viene declinato non a caso nelle stesse tre dimensioni cui è riferito anche il principio di partecipazione (politica, sociale ed economica), a disegnare un sistema in cui la responsabilità solidaristica non può non essere circolare (individuale, collettiva e pubblica); e il principio di sovranità si distacca dalla dimensione meramente formale di status politico per assumere le nervature di una condizione di vita sostanziale e permanente.
Dall’altro lato il collegamento con libertà e diritti che, di là dai singoli ambiti dell’agire umano riconosciuti e tutelati, sarebbero di fatto svuotati di senso se sganciati dall’asse valoriale dei primi tre articoli: diritti che rappresentano le precondizioni della partecipazione -come la manifestazione del pensiero, il pluralismo informativo e l’istruzione-, perché senza conoscenza la partecipazione è appannaggio di pochi e dunque pura retorica; diritti che sono strumento di costruzione della partecipazione -come quelli di riunione e di associazione-, per il ruolo che assume la disponibilità di spazi e tempi di confronto collettivo sui temi che animano il conflitto sociale; diritti che sono obiettivo della partecipazione e cioè sono da questa animati, come lo sciopero o il referendum (nei quali i momenti della manifestazione e del voto sono solo l’approdo finale di processi partecipativi più articolati).
Insomma, se di partecipazione oggi si vuole sensatamente continuare a parlare, questa deve essere considerata il perno vitale di un fitto intreccio di precondizioni, strumenti e obiettivi, la cerniera destinata a definire il quadro fisionomatico di un modello di democrazia sociale, il serbatoio ricolmo di dinamicità e senso critico necessario per la costante messa in discussione del potere.
3. Partecipazione, prossimità e spazio fisico: un rapporto necessario tra persona e democrazia
In questa prospettiva, vicinanza e prossimità fisica sono precondizioni strutturali di qualunque discorso sulla partecipazione, nelle sue dimensioni sociale, politica ed economica.
Il perseguimento del pieno sviluppo della persona e della giustizia dei rapporti sociali richiede cioè un dosaggio di vicinanza e relazionamento da immettere costantemente negli ingranaggi della rappresentanza: l’attingimento costante a un giacimento di forza sociale, capacità, saperi, conflitto, rapporti di classe attraverso cui alimentare la dialettica democratica, contro l’emarginazione, l’individualizzazione e la subalternità (e dunque la distanza e il distanziamento) che ogni sistema non democratico produce. Tanto nel passato quanto nel tempo attuale.
Del resto basta ampliare lo sguardo per avvedersi di come la “presenza” sia categoria cara alla democrazia: tutta l’evoluzione del costituzionalismo rappresenta la complessa e faticosa emancipazione delle condizioni di presenza della persona nello spazio pubblico, in un dato territorio e in un tempo storico, quale condizione di una sovranità che “appartenga” effettivamente al popolo. E l’intero assetto costituzionale è disseminato di norme che mirano a garantire le opportunità concrete di presenza: nelle istituzioni rappresentative, nella pubblica amministrazione, nei luoghi dell’istruzione, in quelli del lavoro e della produzione economica; e infine in quello spazio più ampio e articolato ove si sfidano quotidianamente le condizioni concrete di dignità dell’esistenza, di articolazione del pluralismo, di espressione del conflitto sociale[1]. Da ciò discende che, di là dal possesso degli status formali della sovranità e della cittadinanza, l’assenza della persona dalle scelte fondamentali della vita economica, sociale e politica del Paese è condizione incompatibile con un ordinamento democratico.
Il concetto di presenza porta con sé quelli di prossimità e di territorio, e la massima attenzione per tutte le garanzie che possano favorire l’espressione della dimensione relazionale dell’individuo in ogni ambito della vita politica, economica e sociale.
Questa esigenza di «relazionamento costante» fra i consociati e fra questi e le istituzioni [Allegretti 2011, 207] aspira, pertanto, ad essere molto di più che mera espressione di singoli diritti: essa è condizione imprescindibile del “pieno sviluppo della persona”, è terreno di espressione del dissenso e delle plurime istanze sociali radicate nei territori.
È allora evidente il ruolo che assumono i modi e i luoghi attraverso i quali pensare, confrontare e agire quelle istanze; e, prima ancora, le possibilità concrete di accedere a quei modi e a quei luoghi. Solo allora potranno prendere forma le articolazioni di una “partecipazione effettiva”, non di facciata o eteroguidata.
È questa la materia pulsante che abita dentro alla maggior parte delle norme costituzionali di riconoscimento dei diritti e delle libertà: dietro le formule espresse che ne definiscono il contenuto e i limiti, essi intendono consentire e garantire indirettamente quei modi e quegli spazi.
Fra questi, una di quelle che stringono l’alleanza più forte con il principio di partecipazione è la libertà di riunione. Vi è infatti, in questo caso, un gioco di doppia strumentalità che ha molto da dire sull’attenzione con cui andrebbero lette le correlazioni fra le garanzie delle libertà e quelle della partecipazione, fra i limiti applicati alle prime e le ricadute sulla seconda.
La libertà di riunione si connota per un intimo rilievo sociale, che peraltro non si esaurisce in un gruppo sociale fine a se stesso (come la famiglia o il partito): «il diritto di riunione contiene sempre l’esplicamento, l’esercizio di un altro diritto di libertà. Esso può essere il modo di esercizio della libertà di opinione e quindi di discussione, delle libertà politiche, della libertà di culto, della libertà personale» [Ranelletti 1908, 540].
Si tratta cioè di una libertà strumentale per l’esercizio di un’attività che presuppone un finale fuori da sé, una ricaduta dentro a un altro diritto; ma che è a sua volta strumentale all’esercizio della partecipazione e alla costruzione delle sue forme.
Ne è conferma la neutralità dei limiti rispetto alle finalità perseguibili, le quali si riferiscono alle sole modalità di svolgimento: “pacificamente e senz’armi”.
E ne è conferma ancor più significativa l’ampiezza delle forme riconosciute dentro alla nozione di riunione, quale genus che la Costituzione tutela a prescindere dalle species attraverso le quali esso prende vita: «non soltanto le riunioni, preavvisabili e non, organizzate o meno (e quindi, gli assembramenti, le assemblee, i comizi, i convegni, i congressi, le rappresentazioni, i trattenimenti, gli spettacoli) rientrano nella previsione costituzionale, ma anche le processioni, le marce, i cortei, le dimostrazioni» [Pace 1977, 153]. Non rilevano né il fatto della previa organizzazione[2] né l’identità statica del luogo del riunirsi: ciò che rileva è soltanto il fisico e contemporaneo raggrupparsi di una pluralità di persone, rispetto al quale l’identità del luogo è trasposta sul piano relazionale della compresenza, della «vicinanza materiale» [Ruotolo 2006; Tarli Barbieri 2006].
Appare allora evidente il ruolo fondamentale che questo diritto assume non soltanto per l’esercizio di singoli altri diritti bensì, più in generale e trasversalmente, per la realizzazione concreta e plurale della partecipazione: di questa, il diritto di riunione è di fatto condizione strutturale.
Incontrarsi, discutere, raccontare esperienze, immaginare possibilità, intravedere visioni comuni, protestare, proporre, progettare, osare: impossibile negare che il riunirsi sia, da sempre, momento decisivo e prodromico di qualunque tentativo di messa in discussione del potere dominante e di proposta di progetti politici alternativi. Seppure affiancata spesso alla libertà di associazione per le evidenti analogie in termini di ricadute democratiche, la libertà di riunione gode non soltanto della libertà dei fini bensì anche di quella delle forme, generatrice di una tensione dinamica che ne fa uno dei diritti più vitali.
È di questa tensione dinamica che ha bisogno di nutrirsi a sua volta la partecipazione: la tensione che produce compresenza, vicinanza materiale, incontro e confronto; la tensione che coinvolge non l’individuo astratto bensì la persona situata.
Non è un caso che la libertà di riunione sia in genere tra le prime ad essere sacrificate nei regimi autoritari e non democratici. Qualunque limitazione apposta a questa libertà al di fuori dell’unico limite previsto, e che dunque la comprima non nel modo di svolgersi bensì sulla base di argomenti soggettivi o finalistici, dovrebbe essere valutata con estrema attenzione, per le ricadute che inevitabilmente esorbitano dal bilanciamento fra i diritti e giungono a colpire il principio partecipativo dell’art. 3 Cost.
- Partecipazione, distanziamento, “presenza a distanza”: un rapporto ambiguo fra individuo e potere. Nella normalizzazione dell’emergenza nuove forme di produzione sociale della distanza
Sebbene la presenza sia categoria privilegiata del costituzionalismo, anche quella del distanziamento può in taluni casi assumere rilevanza giuridica. Molti dei limiti costituzionalmente previsti rispetto all’esercizio delle libertà si traducono, direttamente o indirettamente, in forme di distanziamento di vario tipo e intensità: da quello fisico in senso stretto (ad esempio per ragioni riguardanti la salute collettiva, come nel caso della pandemia da Covid-19) a quello che intacca la più ampia dimensione relazionale e sociale della persona (la detenzione). Ma non è un caso che la Costituzione ponga solide garanzie a presidio dell’applicazione di questi limiti: rispetto alla forma (riserva di legge, talvolta rinforzata o addirittura teleologica, e riserva di giurisdizione); rispetto ai presupposti (solo motivi di carattere generale, come incolumità pubblica e salute, e mai personali salvo il caso della responsabilità penale).
Tuttavia il distanziamento è categoria ben più scivolosa, poiché più spesso “effetto collaterale” di politiche che si spingono tacitamente ben al di là di quanto contemplato dalle previsioni costituzionali sulle garanzie dei limiti alle libertà. Tornano qui in gioco le parole e le loro ambiguità, che sono specchio di ben altre contraddizioni ed elusioni.
Una delle politiche oggi maggiormente “portatrici” di distanziamento è quella emergenziale. O meglio: la politica emergenziale quale è stata intesa negli ultimi anni.
A partire dalla crisi economica, ma con approccio progressivamente esteso a tutti gli ambiti del vivere (ambiente, lavoro, welfare, sanità, ecc.), è andato consolidandosi un concetto di emergenza schiacciato sui dati statici delle crisi e della loro finanziarizzazione, legittimando dinamiche decisionali accentrate e tecnocratiche, alterando il rapporto fra i poteri, svuotando i circuiti democratici della rappresentanza. Ciò, a discapito dei dati diacronici di situazioni che sono in realtà rivelatrici di vulnerabilità, da leggere e governare con una complessità articolata di strumenti e di politiche, dialoganti fra di loro e con i loro destinatari[3].
Questo tipo di politica dell’emergenza si traduce non di rado in compressioni che contrastano con il complesso delle garanzie costituzionali: riserva di legge, democraticità del potere decidente, inviolabilità del nucleo minimo dei diritti fondamentali (a sua volta limite anche della revisione costituzionale), transitorietà e proporzionalità dei limiti, ragionevolezza, sostenibilità, precauzione.
Non solo. Questo tipo di politica dell’emergenza si traduce ancor più spesso in compressioni della partecipazione, liquidata senza troppe premure sulla base dell’urgenza del decidere e/o dei costi non sostenibili. Ma come ho sostenuto più volte altrove si tratta di un mito da sfatare: lo dimostrano le molte esperienze diffuse di segno contrario, che rilanciano le potenzialità ricostruttive della partecipazione solidaristica e collaborativa proprio nei frangenti di maggiori difficoltà socio-economiche; e lo contemplavano già i Costituenti nel connettere partecipazione e giustizia sociale, quali motori emancipanti di comunità che sono sfidate quotidianamente a costruire regole sostenibili per governare il proprio destino.
Le politiche emergenziali degli ultimi anni tendono invece a produrre una pesante forma di distanziamento delle persone dalle decisioni. E questa tendenza appare oggi pesantemente aggravata in occasione dell’emergenza pandemica, che rischia di alimentare distanziamenti ulteriori e ben più duraturi.
Mi limiterò a quattro ambiti di considerazioni, pur consapevole del fatto che ciascuno di essi apre a questioni che meriterebbero ben altra ampiezza di analisi.
- A) Con riferimento alla dimensione delle libertà collettive, si pensi per esempio alla sanzione comminata per lo sciopero simbolico di 1 minuto svoltosi il 25 marzo 2020[4], o al Dpcm 17 maggio che ammetteva «lo svolgimento delle manifestazioni pubbliche soltanto in forma statica»: misure come queste, fortemente discutibili perché sostanzialmente intimidatorie o perché generatrici di limiti alle libertà ulteriori rispetto a quelli previsti in Costituzione, rischiano di minare le possibilità concrete di protestare proprio nei confronti delle scelte politiche di governo dell’emergenza; possibilità che sono invece costituzionalmente garantite (artt. 17, 39, 40 Cost.) proprio perché l’espressione del dissenso è indispensabile alla democrazia.
Ma si pensi soprattutto, in una riflessione più ampia e che trascende l’emergenza, alla troppa disinvoltura con cui la compresenza fisica viene ormai considerata surrogabile dalla presenza a distanza. È vero che il web è ormai riconosciuto a tutti gli effetti come “luogo” di esercizio dei diritti, equiparabile a quello fisico in termini di garanzie, anche con specifico riferimento alla libertà di riunione[5]: ma una cosa è l’estensione della tutela a modalità che non prevedono la fisicità ma che gli individui abbiano liberamente scelto; altra cosa è che queste modalità vengano imposte. Come ho ricordato più sopra, la fisicità della compresenza è chiaramente requisito essenziale della libertà di cui all’art. 17 Cost., alla quale solo i titolari della libertà possono decidere di rinunciare (salvo, appunto, che tale rinuncia sia imposta dalla necessità di tutelare altri interessi, secondo i limiti –e solo quelli- previsti dalla Costituzione). Una cosa è considerare il web equiparabile per taluni aspetti allo spazio fisico, altro è considerarlo fungibile d’imperio da parte dei poteri pubblici: il web non può essere scappatoia dalla tassatività dei limiti alle libertà costituzionali e delle forme con cui tali limiti possono essere stabiliti.
Il discorso è assai più ampio e riguarda, non da ora, il grande iato esistente fra il mito delle potenzialità emancipanti della Rete e il livello effettivo di inclusione, relazionamento e partecipazione prodotto dai social network.
L’improvvisa sovraesposizione digitale resa necessaria per far fronte al temporaneo distanziamento fisico imposto dalla pandemia sembra aver spazzato via, come d’incanto, le molte criticità che pure da tempo si lamentano riguardo i rischi, i limiti e i fallimenti delle politiche sul digitale [Valastro 2014]; e l’enfasi posta sulla fungibilità della presenza fisica con quella virtuale e della dimensione social con quella collettiva ha determinato un effetto perverso che mina alla radice le promesse democratizzanti della Rete, trasformandole nel loro contrario. È vero che l’uso dei social media può contribuire ad ampliare gli spazi del pluralismo e del dissenso; ma questo supporto offerto alle espressioni della democrazia dal basso ha un prezzo che in genere si omette di ricordare.
I social media non sono strumenti liberi a disposizione delle libertà, bensì servizi di natura commerciale e come tali tutt’altro che gratuiti, il cui costo elevatissimo è la profilazione delle persone[6]: considerati semplicisticamente come naturale evoluzione di Internet, essi sono in realtà strumenti al servizio di interessi economico-finanziari che ben si saldano con le dinamiche bioeconomiche delle politiche neoliberiste, le quali si nutrono di “capitalismo cognitivo” e di autoimprenditività ma anche -dietro a queste retoriche- di individualismo, di incertezza e di distanziamento. Lo sviluppo dei sistemi di collegamento a distanza presuppone infatti –e appunto- la distanza; e la valorizzazione della socialità nella distanza rischia di divenire un potente e strutturale strumento di produzione di distanziamento sociale, spostandolo in avanti, verso altri territori che prescindono dall’emergenza, generando altre e ben più insidiose forme di distanza, di compressione dei diritti, di controllo [Valastro 2020].
Nel quadro dei fini legati alle libertà collettive, e al rilievo che queste assumono per l’inveramento della democrazia sociale e pluralista, la sostituzione della compresenza fisica con quella virtuale non è affatto indolore, né tantomeno a costo zero. E ciò, tanto più, se le politiche emergenziali spingono per un consolidamento ulteriore di questa sostituzione: ciò che ne deriva, infatti, è la sostanziale stabilizzazione di una forma diffusa e pervasiva di distanziamento sociale, tanto più perniciosa in quanto mascherata con il suo contrario; una desertificazione della compagine sociale in cui il mito della “socializzazione produttiva” delle smart technologies (generato da valutazioni di carattere economico-efficientista) difficilmente può bilanciare i “costi sociali” del loro impiego in termini di isolamento, perdita di autonomia, sfruttamento, danno alla salute, precarizzazione, frammentazione dello spazio pubblico, azzeramento del conflitto sociale.
- B) Se l’art. 3 Cost. parla di “partecipazione dei lavoratori”, la seconda considerazione non può che concernere la dimensione del lavoro.
Anche in questo caso un esempio fra tanti: le “Linee guida sul piano organizzativo del lavoro agile (POLA) e indicatori di performance”, approvate nel dicembre 2020 dal Dipartimento della Funzione Pubblica, ove si indica fra gli obiettivi quello di «fornire alcune indicazioni metodologiche per supportare le amministrazioni nel passaggio della modalità di lavoro agile dalla fase emergenziale a quella ordinaria» (corsivo mio). Di nuovo ci si trova di fronte alla stabilizzazione di una misura emergenziale, giustificata con l’opportunità di capitalizzare la grande sperimentazione forzosamente compiuta durante la pandemia in termini di alfabetizzazione tecnologica, di potenzialità produttive, di efficienza. Ma a vantaggio di chi?
L’inversione di prospettiva è evidente: non a caso, la fonte richiamata (il d.l. n. 34/2020, convertito con legge n. 77/2020) è parte integrante del blocco normativo relativo al governo dell’emergenza pandemica, e non di una legge ordinaria di riforma complessiva del mercato del lavoro nel comparto pubblico. Un’inversione talmente macroscopica che emerge in modo palese dalle stesse Linee guida: «l’adozione di questo diverso approccio organizzativo richiederebbe anche un ripensamento complessivo della disciplina del lavoro pubblico. Non sfugge, infatti, che l’attuale disciplina normativa e contrattuale del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche riflette modelli organizzativi basati sulla presenza fisica in ufficio, con la conseguenza che numerosi istituti relativi al trattamento giuridico ed economico non sempre si conciliano con il cambiamento in atto (si pensi, a titolo di esempio, alla disciplina dei permessi, a quella del lavoro straordinario, ecc.) richiedendo un’azione di revisione complessiva da porre in essere con il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali» (corsivo mio).
Come dire: il treno in corsa non può fermarsi né tornare indietro, lo si lasci passare. Dopo penseremo a costruire stazioni, passaggi a livello e semafori.
Ancora una volta, come fu già per le politiche di e-government degli anni ’90, la riconversione tecnologica diviene fine a se stessa anziché strumento di un progetto politico sul governo del lavoro. Si afferma che tra i principi del lavoro “agile” vi è quello del doveroso perseguimento del «benessere del lavoratore», «in una logica win-win» dove «l’amministrazione consegue i propri obiettivi e i lavoratori migliorano il proprio “Work-life balance»; ma di fatto sono le garanzie dei lavoratori ad adeguarsi allo strumento tecnologico, non viceversa.
Che la logica win-win legata allo smart warking sia una retorica pericolosa e in parte mendace lo hanno ampiamente dimostrato i mesi passati, durante i quali l’accentuazione del lavoro a distanza -oltre le misure rese necessarie da esigenze specifiche e puntuali del lavoratore e dell’organizzazione[7]– si è tradotto in forme massicce e insostenibili di rottura dei confini fra spazi e tempi di lavoro e di vita. Né la questione riguarda solo il settore pubblico, aprendo a nuove forme di sfruttamento che aggravano i contesti di precarizzazione[8].
Possono stabilizzarsi in questo modo misure emergenziali di così grande impatto, trasformandole di fatto in riforme strutturali di pezzi importanti del mercato del lavoro?
Ma soprattutto, dietro e oltre al tema delle garanzie dei lavoratori, può svuotarsi così la dimensione collettiva e di spazio politico del lavoro quale luogo di espressione del pluralismo e di costruzione del dissenso?
Il rischio non è soltanto quello di una grave svalutazione del lavoro quale condizione fondamentale di dignità e di emancipazione della persona, ma è anche quello di spezzare il sistema di relazioni che è trait d’union fra democrazia politica e democrazia economica e sociale, che è alla base del conflitto e della lotta di classe, della capacità dei lavoratori di aggregare forza dialogica e potere contrattuale.
Anche per questa via si torna al destino delle libertà collettive e della partecipazione effettiva dei lavoratori alla vita economica, sociale e politica del Paese: esisteranno ancora le possibilità concrete di scioperare? Per giungere al momento finale della manifestazione di protesta occorre incontrarsi, parlarsi, discutere, organizzarsi. Occorre, prima di tutto, conoscersi: aver condiviso disagi, aspettative deluse, bisogni familiari, pause alla macchina del caffè per raccontarsi frammenti di vita, soste all’uscita del luogo di lavoro in cui ci si attarda sulla previsione di altre possibilità. Poi, per mezzo dei social, si può fare il resto.
La narrazione del capitalismo cognitivo e dell’autoimprenditività rischia non soltanto di assorbire le politiche economico-occupazionali entro paradigmi ben lontani da quelli della democrazia sociale, ma di stabilizzare forme di distanziamento sociale ben lontane dalla democrazia tout court.
- C) Fra gli spazi collettivi di costruzione delle condizioni di partecipazione vi è di certo quello dell’istruzione.
A fronte degli slanci in avanti di quanti prefigurano il consolidamento dell’uso degli strumenti digitali nella scuola e nell’università, in vista di modalità didattiche più attrattive ed efficienti, più valutabili e competitive, i mesi passati hanno opposto gravi danni in termini di socializzazione dei più giovani, accrescimento delle dipendenze (da alcool, droghe, esposizione a video giochi e social), crescita di forme di violenza, abbandoni scolastici.
Anche in questo caso il tema è assai più ampio e complesso, ma la dimensione relazionale e dello sviluppo evolutivo della persona rispetto al rapporto con i propri simili e con la collettività trova qui un altro snodo cruciale. Anche la scuola e l’università sono spazi collettivi e politici, oltre che di istruzione strettamente intesa, ove prende l’avvio la costruzione di una “cittadinanza interiore” che viene prima e sarà guida della cittadinanza politica. Quella libertà di riunirsi che in passato si è tradotta in assemblee, occupazioni, manifestazioni, rappresentanza, è qui la prima preziosa sperimentazione di una dimensione collettiva che di nuovo richiede compresenza fisica e vicinanze di corpi, di sguardi che i volti nei riquadri delle piattaforme e-learning non possono sostituire.
Già molto si è perso di quei rituali nei quali si scandiva il tempo di un crescere e confrontarsi che, attraverso la scuola, si proiettava su spazi temporali ed esistenziali più ampi: ad esempio l’abbandono del diario, ormai soppiantato da registri e agende elettroniche eterogestite che scandiscono un tempo digitale, ma di cui taluno molto opportunamente ricorda la valenza etico-politica nel consentire un allenamento alla presenza nel proprio tempo, che «si fa coscienza responsabile e cura di un più vasto ordine naturale e aristotelicamente civile» [Iasonni 2020, 119].
V’è da chiedersi quanto altro ci si potrà permettere in termini di sgretolamento delle relazioni e della vicinanza fisica nelle fasi evolutive dell’esistenza, con cosa si potrà contrabbandare lo sviluppo “pieno” della persona voluto dall’art. 3 Cost. [Barbati 2020; Calvano 2020].
- D) La “partecipazione dei lavoratori” rimanda infine alla dimensione economica.
Se molte piccole attività commerciali falliscono mentre Amazon e altri giganti della Rete moltiplicano i profitti (peraltro grazie a una mole ingente e sommersa di lavoro sottopagato), al danno economico e occupazionale si aggiunge quello dell’ulteriore svuotamento degli spazi di prossimità e di contatto sociale. Lo spostamento crescente di gran parte degli acquisti di beni e servizi verso le piattaforme digitali produce una ennesima forma di distanziamento sociale, poiché erode di fatto una rete di luoghi ove il commercio è anche relazione e incontro in quanto legato a territori e comunità, culture, identità, memorie.
Anche in questo caso, la lettura del dato statico della crisi economica e la conseguente finanziarizzazione dei diritti produce misure miopi rispetto allo sfondo più ampio delle condizioni materiali che influiscono sulla partecipazione effettiva alla vita del Paese. Ed anche in questo caso la stabilizzazione di misure emergenziali (come i sussidi una tantum), in luogo del contrasto allo svuotamento del commercio di prossimità come spazio di vita, sembra mirato più a «calmierare il conflitto sociale» che a rilanciare le espressioni di un’autentica democrazia economica [Algostino 2020, 298].
Ebbene, tutte le forme di distanziamento emerse in questi esempi sono colpi gravissimi inferti non soltanto a singoli diritti ma anche, per il tramite di questi, ai presupposti, alle condizioni fattuali, ai modi, ai luoghi, agli obiettivi della partecipazione: in una parola, al senso ultimo e più profondo di questa, l’unico senso cui è legittimo riferirsi alla luce dell’art. 3 Cost.
Di là dai bilanciamenti fra diritti che si rendono necessari nei momenti di emergenza, emerge cioè una poco rassicurante terra di mezzo ove albergano distanziamenti molteplici e subdoli: fenomeni prodotti da misure che, se per un verso non rappresentano più politiche emergenziali in senso stretto, d’altro canto non appaiono riconducibili neppure a politiche del lungo periodo per tempi di non emergenza. Si tratta piuttosto di politiche di stabilizzazione nel lungo periodo delle logiche e degli strumenti emergenziali: cosa ben diversa, poiché un conto è valutare e correggere costantemente il tiro delle politiche, altro è cristallizzare gli strumenti emergenziali in un dopo che non può in tal modo evolvere ed emanciparsi dall’emergenza.
Il fatto è che la normalizzazione dell’emergenza, legata a orizzonti di paura e incertezza, è da sempre strategia cara alle politiche del controllo[9]: da sintomi di patologie del sistema democratico, distanza e distanziamento assurgono a strumenti fisiologici di governo delle vite, agevolati dalla dinamica naturalmente frammentante delle logiche emergenziali. Quando poi queste ultime si saldano con tecnocrazia, finanziarizzazione delle fragilità, rottura della dimensione territoriale dei diritti e potere digitale, l’abbraccio che ne deriva è mortale; e la «dialettica della libertà» si riduce a recinto ove il cittadino (rectius il cliente, l’utente, il consumatore, il debitore, ecc.) «è il nuovo detenuto» [Rimoli 2020, 8].
L’emergenza è insomma dispositivo da sempre funzionale all’estromissione delle persone dalla scena pubblica e al consolidamento di un decisionismo accentrato, autoritario, tecnocratico.
Diciamolo. Distanziamento e confinamento sono espressioni che sembravano consegnate a un tempo buio della storia: quello degli esperimenti di ingegneria sociale condotti dal nazismo nei confronti degli ebrei, culminati nell’eliminazione fisica ma in realtà costruiti a partire da forme articolate e misure crescenti di distanziamento sociale.
Una realtà profondamente diversa, si dirà. Con ragioni e obiettivi altrettanto diversi.
Eppure non manca chi ritiene che fenomeni come quello dell’Olocausto siano tutt’altro che isolati: non deviazioni irripetibili della Storia bensì particolari combinazioni di dimensioni della modernità, che ben possono ripetersi seppure con forme e modalità diverse. In effetti basta guardarsi attorno per scorgere ancora oggi, sempre vive e striscianti, le tentazioni del confinamento: una fra tante, la vicenda dei centri di permanenza temporanea per i migranti clandestini, in quella prima disciplina che li vide come luoghi di sostanziale deportazione più che di accoglienza, e di grave lesione dei diritti fondamentali e della dignità, come ebbe poi a riconoscere la Corte costituzionale[10].
Il celebre esperimento di psicologia sociale condotto da Stanley Milgram nel 1961 aveva drammaticamente dimostrato proprio questo: la relazione che esiste fra distanziamento sociale, autorità e autoritarismo. Con l’accrescersi del primo diminuisce progressivamente la capacità di percepire le conseguenze dannose di regole o comandi ingiusti, e quindi la capacità di interrompere la sequenza di azioni ingiuste, di reagire, di dire no.
Ciò che colpisce delle argomentazioni che negano l’unicità e l’irripetibilità di fenomeni come l’Olocausto è l’indicazione delle sue dinamiche portanti: la tecnicizzazione e specializzazione delle competenze in chiave di efficienza, che consente di scindere il processo psicologico della razionalità del decisore dalla razionalità delle conseguenze oggettive dell’azione; la conseguente sostituzione dell’efficienza alla moralità dell’azione, e della responsabilità tecnica a quella morale.
Vi è sempre un progetto di “ordine” alla base del potere dominante: ieri “liberarsi degli ebrei”, oggi ripristinare presunte normalità dopo lo scompiglio delle emergenze e delle crisi. Ma una volta posto il progetto, come ricorda Bauman, questo conferisce alle azioni conseguenti la loro legittimazione, la burocrazia tecnocratica gli offre il veicolo, e la paralisi della società gli dà il segnale di “via libera” [Bauman 2010, 162]. Possono così prodursi azioni che sono funzionali ed efficienti rispetto agli scopi del grande progetto anche se in stridente contrasto con gli interessi vitali dei soggetti coinvolti.
L’effetto perverso di questa dinamica è la rottura di quella componente costitutiva di ogni condotta etica che è il legame fra responsabilità e prossimità: la prima viene di fatto erosa (o messa a tacere) quando si erode la prossimità; e ciò innesca processi di trasformazione che sono di fatto processi di separazione sociale, generatori di indifferenza e invisibilità, e di più facile manipolabilità del rapporto fra mezzi e fini.
L’aderenza di queste considerazioni al tempo attuale è sconcertante, poiché getta una luce ancora più sinistra sull’abbraccio perverso esistente tra elementi che appaiono ancora gli stessi: efficienza, spoliticizzazione e tecnicizzazione delle competenze, distanziamenti sociali, paura. A questi si aggiungono oggi il potere finanziario e quello digitale.
La finanziarizzazione delle crisi e dei diritti e le nuove forme di distanziamento sociale oggi fornite a buon mercato dai media digitali si saldano con l’autoritarietà continuamente chiamata in causa dalle politiche dell’emergenza. E il passo verso forme di rinnovato totalitarismo è breve, se è vero che questo altro non è che un potere sollecitato dalle paure che esso stesso genera, che costruisce i propri strumenti di governo sulla promessa di efficacia anziché sulla richiesta di legittimazione, che non produce più libertà ma si esercita in sue continue limitazioni [Arendt 2008; Nussbaum 2018].
Questa ambiguità nel modo del potere dominante di maneggiare obiettivi e strumenti del distanziamento ha inevitabili ricadute nella vita concreta dei diritti fondamentali: accentuazione delle garanzie formali dei diritti a discapito di quelle sostanziali; sovrarappresentazione dei diritti civili a discapito di quelli sociali e politici; svuotamento dei luoghi della partecipazione effettiva, della espressione del pluralismo e del conflitto sociale.
E così, mentre i diritti civili conquistano terreno in carte generose di riconoscimenti (consolazione dell’individuo), i diritti sociali languono e agonizzano nei luoghi dove la partecipazione a distanza non arriva (sacrificio della persona), dove occorre lottare insieme per affrancarsi dall’ingiustizia sociale.
Si contrabbanda bios per zoè. Il riduzionismo della complessità umana, a cominciare dai corpi «dissolti nella virtualità», è il prodotto della «razionalità neoliberale che spinge l’idea di libertà fino al dissolvimento dei limiti posti dalla biologia» [Pitch 2020, 7].
- La fatica del dissenso e le metamorfosi della partecipazione: nell’«alleanza dei corpi» una via irrinunciabile per la democrazia sociale
Aver richiamato l’Olocausto può apparire azzardato. Eppure quella vicenda ancora oggi mette in guardia su ciò di cui è capace la moderna tendenza alla razionalizzazione e all’ingegneria sociale se non viene controllata e mitigata. Difficile non ritenere, ancora con Bauman, che «ogni aggressione al pluralismo sociale e culturale e alle possibilità di una sua espressione politica, ogni passo verso l’indebolimento delle basi sociali della democrazia politica rende un po’ più realizzabile un disastro sociale di dimensioni analoghe a quelle dell’Olocausto» [Bauman ivi, 163].
Nel suo collegamento con l’eguaglianza sostanziale e la giustizia sociale, il principio di partecipazione intendeva essere lo snodo delle molteplici forme di espressione di quel pluralismo, quali strumenti di esercizio della sovranità ma anche di una costante vigilanza democratica.
Ma se ciò è vero, che dire del destino della partecipazione a fronte dei nuovi distanziamenti dai quali sono oggi accerchiate l’autonomia e i diritti delle persone? La figura claudicante cui hanno dato luogo le altalenanti vicende della partecipazione deve considerarsi una volta per tutte defunta?
Eppure di partecipazione si continua a parlare, sempre invocando valori lato sensu democratici anche se con le esperienze e gli esiti più vari.
Si tratta evidentemente di un riferimento ineludibile per qualunque aspirazione ad assetti democratici: un riferimento di tipo concettuale e valoriale prima ancora che politico e giuridico, espressione di un bisogno esistenziale e sociale prima ancora che manifestazione di sovranità politica.
Il fatto è che la partecipazione è dura a morire, proprio perché legata alle spinte dell’umano. Nei fatti, la pluralità esiste: altra cosa è se e come essa riesca ad esprimersi e a trasformarsi in pluralismo. Ugualmente, nei fatti il dissenso esiste: altra cosa è se e come esso riesca a manifestarsi.
Non credo al ritratto sprezzante e cinico di un popolo supino, inconsapevole, che ubbidisce senza reagire. In parte è vero, la paura e lo spaesamento da sempre favoriscono dinamiche di asservimento e rassegnazione. Ma si tratta di un ritratto riduttivo e parziale, tanto più dannoso quando maneggiato semplicisticamente da chi contesta l’autoritarismo antidemocratico del governo neoliberale, perchè fornisce argomenti pericolosamente funzionali alle politiche del controllo che pure si vorrebbero combattere.
In realtà, il controcanto della retorica del “re nudo” è oggi l’esistenza di un orizzonte popolato da forme di partecipazione che vanno spostandosi e mutando pelle: un arcipelago mutevole composto da isole di vera e propria resistenza umana e collettiva, da persone che fanno, che si ritrovano, che inventano, e che nel farlo tengono a distanza il veleno deleterio del cinismo e del senso di sconfitta. Persone tutt’altro che illuse o ignare della realtà, che indossano la sovranità non come rivendicazione fine a se stessa ma come veste concreta, di certo imperfetta ma pur sempre reale. E come tale la agiscono. E vivono, senza chiederla, la presenza che quella sovranità pur ammaccata porta con sé.
A fronte delle bardature proceduralistiche della partecipazione cara al sistema neoliberale, troppo spesso disinnescata in consultazioni dal sapore individualistico e polarizzante (tanto più se online), si stanno facendo strada altre forme che mostrano di voler recuperare i modi, i tempi e i luoghi del pluralismo sociale e collettivo.
Da un lato vi sono le forme di partecipazione che in vario modo mettono in atto il paradigma solidaristico, in una prospettiva di “sovranità praticata” che ricongiunge il principio partecipativo con quelli di cooperazione e di sussidiarietà orizzontale. Rigenerazione urbana e riqualificazione dei luoghi, cura e produzione di beni comuni, patti di collaborazione, amministrazione condivisa, imprese di comunità, economia circolare, co-progettazione, narrazione di comunità: una realtà diffusa fatta di alleanze, multiformi e innumerevoli, che quotidianamente si misurano con l’ordine che le sovrasta costruendo le trame di un’altra politica; esperienze che arrivano anche a produrre nuova giuridicità, ossia ad influenzare il ripensamento di categorie giuridiche, istituti, garanzie[11].
Dall’altro lato vi sono le forme di partecipazione che, al di fuori di qualsivoglia istituzionalizzazione, ricongiungono il principio partecipativo ai valori del dissenso, del conflitto, della protesta. Si tratta dei movimenti e delle forme di c.d. democrazia dal passo, così definite a sottolinearne la specificità rispetto agli istituti della democrazia partecipativa, della democrazia diretta e della sussidiarietà orizzontale. I movimenti territoriali veicolano «una conflittualità “nuova”», ove la protesta si coniuga con la proposta e la rivendicazione di modelli alternativi di società rispetto a quello dominante; «contrappongono socialità e condivisione all’individualizzazione e alla frammentazione competitiva del mercato…, propongono e sperimentano nuovi modi di intendere la democrazia…, rappresentano in modo nuovo rispetto alle contrapposizioni dei partiti novecenteschi il conflitto sociale» [Algostino 2018, 41].
Questi due fenomeni, apparentemente diversi, sono in realtà fortemente complementari perché convergono nel ricongiungere la dimensione partecipativa con quelle della solidarietà e del dissenso, quali elementi portanti della democrazia sociale.
Si tratta di forme di partecipazione che hanno in comune la compresenza fisica e gli spazi collettivi, e che assumono l’interdipendenza e le relazioni come nucleo costitutivo e ineludibile dell’essere umano [Pitch ivi, 7]: una concezione della libertà e dell’autotomia contrastante con quella individualizzante della razionalità neoliberale, in quanto fondata sulla «responsabilità “per” (piuttosto che “di”)», che ne fa gli avamposti di una vera e propria «resistenza costituzionale» [Preterossi 2007][12].
Emergono così le coordinate di una mappa parallela a quella dei racconti ufficiali, basata sulla presenza anziché sull’assenza, sull’agire anziché sul subire, sulle spinte riappropriative della resistenza anziché su quelle pericolosamente adattive della più nota (e abusata) resilienza, sui paradigmi più esigenti della democrazia sociale anziché su quelli fragili della democrazia liberale (e delle sue derive neoliberiste).
Del resto non deve stupire che i principi della democrazia sociale rendano la Costituzione naturale «compagna» delle forme di partecipazione e di azione politica che si realizzano al di fuori della rappresentanza [Algostino 2018, 130]: sia la dimensione costituzionale che quella dell’esistenza hanno a che fare con l’esperienza della vulnerabilità e il bisogno di un diritto «incarnato» [Grossi 2017, 53].
E tuttavia, i due versanti esistono e coesistono: quello degli spazi collettivi svuotati e della partecipazione soffocata entro recinti dove la presenza è illusoria e manipolabile; quello del pluralismo sociale che si riappropria della partecipazione fisica e vitale, della capacità di dissenso e di cooperazione solidale.
Sarebbe un errore considerare questi due mondi come realtà separate che procedono in parallelo: al contrario, il destino delle “nuove” forme di partecipazione è pesantemente influenzato dalla tenacia prensile e pervasiva degli ostacoli che da sempre -e tanto più oggi- affliggono la partecipazione più tradizionale, e che non paiono destinati a dissolversi facilmente.
Per un verso, la partecipazione “effettiva” mostra di traslocare sempre più massicciamente negli spazi del privato/sociale e del pubblico/istituzionale di livello locale; mentre diserta gli spazi del politico/istituzionale/finanziario di livello nazionale e sovranazionale. Di nuovo un confinamento, dunque? Una partecipazione figlia di un Dio minore, disinnescata negli angoli meno scomodi?
Per altro verso, se un ridisegnamento degli ambiti spaziali della partecipazione è certamente in atto, questo è anche il fulcro e l’oggetto della sua esplicita rivendicazione: lo spazio, i luoghi, e con essi l’abitare, fatto non solo di contenitori ma di regole sostenibili e dignitose di governo delle vite; un processo di riterritorializzazione dei diritti nel quale la partecipazione si riappropria delle libertà collettive, resiste e si rinnova negli spazi di compresenza fisica [Capone 2020].
Ma, ancora, questi luoghi sono gli stessi su cui si abbattono le nuove forme di distanziamento sociale che ho ricordato. E la partecipazione si ritrova sempre più spesso inscenata da individui dimezzati, sospesi nella stessa giornata fra smart working e beni comuni, dad e cooperazione, valutazioni efficientistiche e protesta.
In questa tensione incessante fra l’istinto di presenza e i tentacoli dei distanziamenti, la partecipazione torna a rivelare la propria anima resistenziale e di presidio democratico. Quale struttura portante di una Costituzione figlia della Resistenza [Rodotà 2017], la partecipazione è innanzitutto difesa della presenza e delle possibilità di espressione delle specificità dell’umano, è connettersi costantemente con le grandi domande, è movimento incessante verso un oltre, un orizzonte; è audacia e visionarietà, come diceva Zambrano, cioè capacità di avere una visione e di popolarla. Ed è soglia di uno spazio fisico e collettivo che nessuna emergenza né spazio virtuale possono dissolvere.
Se la Rete e i social media possono essere spazi di diffusione di contro-narrazioni che consentono di reagire all’invisibilità, lo spazio esterno al web rimane luogo insostituibile di resistenza “fisica” affidata a pratiche di presenza e compresenza, luogo della prossimità che viene opposta ai paradigmi distanzianti delle narrazioni dominanti, luogo del dissenso che può tradursi in «alleanze di corpi» per un «agire di concerto» [Butler ivi, 20] che mette in atto visioni e progettualità politiche diverse.
In questo orizzonte, in cui il bisogno di compresenza fisica non è affatto morto ma si sposta, opponendosi ai distanziamenti e all’invisibilità, può ravvisarsi in controluce la silhouette di una partecipazione dal corpo sfigurato e diseguale, che in talune parti mostra i segni di una nècrosi galoppante e in altre va reincarnandosi in forme diverse: pulsioni di una dimensione corale che rappresenta l’anima più vera ed esigente della partecipazione cara al costituzionalismo emancipante, che stancamente va oltre, disperde le braci di ciò che è defunto, chiede testardamente altre parole.
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[1] V. ad esempio l’art. 36 Cost., che riconosce il diritto del lavoratore ad una retribuzione non solo “proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto” ma commisurata ai parametri più esigenti di una esistenza libera e dignitosa.
[2] La mancata organizzazione preventiva incide soltanto sulla possibilità del preavviso senza far cadere la garanzia costituzionale.
[3] Si veda per tutti il caso della ricostruzione post terremoto aquilano del 2009, caratterizzatosi per una grave violazione costituzionale non solo dei diritti di partecipazione delle popolazioni coinvolte ma anche delle competenze territoriali locali, di recente ribadite dal nuovo Codice di Protezione Civile.
[4] Alla base della protesta, avviata dalla Confederazione nazionale dell’Unione Sindacale di Base, la preoccupazione per la salute e la sicurezza dei lavoratori rispetto alla scelta del Governo di mantenere aperti e funzionanti le aziende e gli uffici non essenziali ai fini del contrasto all’espandersi della pandemia.
[5] Cfr. in particolare Cass. Pen., sez. I, 12 settembre 2014, n. 375961, che ha definito Facebook come «luogo aperto al pubblico».
[6] Su questi profili si rinvia al saggio di M. Pietrangelo, in questo numero della rivista.
[7] Questa era la filosofia delle leggi nn. 124/2015 e 81/2017, con le quali si è introdotta la previsione della possibilità di forme di lavoro flessibile.
[8] Battaglie come quelle per riconoscere il diritto di disconnettersi, pur condivisibili, rivelano il vero rischio: quello di perpetuare un sistema giuridico meramente difensivo, che allunga le carte dei diritti civili mentre sacrifica i diritti sociali e i meccanismi redistributivi; un giurisdizionalismo che annulla la dimensione sociale, riduce ogni ipotesi di conflittualità alla dimensione individualistica del singolo (o al massimo di un gruppo) che si rivolge a un tribunale, neutralizzando il momento collettivo dell’agire politico.
[9] Se la paura costituisce «l’orizzonte insuperabile del capitalismo neoliberista», la crisi è divenuta permanente perché costituisce la più abile e pervasiva «modalità di governo» di quest’ultimo; e se «col variare della crisi varia il tipo di paura», la politica neoliberista «si esercita nel continuo passaggio dalla crisi economica a quella climatica, energetica, occupazionale, migratoria, e così via»: S. Vida, Neoliberismo, biopolitica e schiavitù. Il capitale umano in tempo di crisi, in Cosmopolis, n. 2, 2016.
[10]V. in particolare la sentenza della Corte costituzionale n. 105/2001.
[11] Si pensi alla sentenza della Corte Costituzionale n. 131/2020 sull’amministrazione condivisa e le imprese di comunità, alla legge della Regione Lazio e ai regolamenti comunali sulla cura condivisa dei beni comuni, alle nuove riflessioni sugli usi civici e gli usi collettivi, alle proposte normative sulle forme di moneta complementare a livello locale.
[12] Per una valorizzazione in questo senso delle esperienze territoriali si rinvia al saggio di A. Algostino, in questa rivista.
In Quaderni di Teoria sociale, n.1/2021, pagg 87 e segg.
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