Disuguaglianze che perdono la democrazia
di I DIAVOLI
Non si tratta solo di “un effetto collaterale” del capitalismo. Le disuguaglianze nascondono un problema che ha radici lontane. Se l’ascensore sociale è bloccato, il divario di classe non riguarda solo l’economia ma diventa una questione politica.
“Fingono di non vedere quello che hanno intorno. Non serve nemmeno uno strumento come il coefficiente di Gini: non serve misurare la diseguaglianza della distribuzione di ricchezza, capire se i valori sono più vicini all’equidistribuzione o alla massima concentrazione”.
La settimana scorsa l’Economist ha pubblicato un articolo dal titolo: “La disuguaglianza economica cresce da millenni”. Il sommario suggeriva che le società del Neolitico erano più egalitarie delle nostre. Il pezzo era strutturato sulla base dei dati di un nuovo studio condotto da un team di ricerca guidato da Timothy Kohler della Washington State University. Esaminando la struttura e dimensione delle case all’interno di 63 siti archeologici, gli accademici sono arrivati a calcolare i livelli di distribuzione della ricchezza, attraverso il coefficiente di Gini.
Se in una società perfettamente egalitaria – come ricorda l’Economist– questo indicatore sarebbe pari a zero, lungo l’Eufrate otto millenni prima di Cristo era a 0.2, ma a 0.5 a Pompei nel 79 dopo Cristo. La colpa, secondo gli studiosi, sarebbe della rivoluzione agricola: il passaggio da una vita nomade a una più sedentaria basata sulla coltivazione delle terre.
Che il trend sia stato più o meno costante nel tempo, però, non ci assolve dal ricercare le ragioni (e le soluzioni) delle disuguaglianze nella società che viviamo oggi. Gli otto più ricchi del mondo detengono una ricchezza pari ai 3,6 miliardi di poveri. Tradotto: l’1 per cento della popolazione possiede tanto quanto il 99 per cento (i numeri sono stati diffusi a gennaio scorso da Oxfam).
Negli Stati Uniti “l’American dream” non è altro che una favola, visto che ancora le condizioni e il luogo di nascita determinano le possibilità future dei giovani, tracciando i contorni di comunità chiuse in compartimenti stagni, ovvero in classi sociali rigide e dai confini invalicabili. E altrove non va meglio, perché in termini di disuguaglianza in partenza (ovvero quella che riguarda i bambini e i ragazzi) tra i 41 Paesi dell’Ue e Ocse, la Danimarca è in testa e Israele rappresenta il fanalino di coda, mentre l’Italia occupa il quartultimo posto.
È un gap tra ricchi e poveri e tra giovani e vecchi che si allarga costantemente, quello che racconta anche il World Economic Forum. Una differenza sociale ed economica che viene sistematicamente ignorata da chi ha un ruolo decisionale, salvo poi finire sotto i riflettori quando le urne decretano la Brexit o l’elezione di Trump e costringono a fare i conti con l’avanzata dei populismi (qui la mappa dei populismi d’Europa).
“Spostare l’attenzione sul conflitto generazionale per occultare quello di classe è un vecchio trucco, un rimedio per tutte le stagioni. Ma in troppi hanno visto…”
“La disuguaglianza è molto più di un effetto collaterale del capitalismo del libero mercato. È un sintomo di negligenza politica, laddove per decenni le scorciatoie di credito e di stimolo monetario hanno sostituito troppo facilmente le riforma strutturale, gli investimenti e la strategia economica. Il capitalismo ha avuto un incredibile successo nell’incrementare la ricchezza, ma ha fallito nel ridistribuirlo. Oggi, senza una spinta a ridistribuire ricchezza e opportunità, il nostro modello di capitalismo e democrazia potrebbe affrontare l’autodistruzione”, si legge in un contributo sulle pagine online del WEF.
Dove sono le politiche per arginare la concentrazione di ricchezza e i modelli di business non orientati solo a massimizzare il profitto di cui si parla ogni anno ai vertici dei grandi del pianeta? “Nessun Paese fornisce ai bambini la stessa base di partenza, ma in alcuni Paesi le disuguaglianze sono meno forti”, diceva qualche mese fa il presidente di Unicef Italia Giacomo Guerrera. “I divari sono cresciuti maggiormente nei Paesi più colpiti dalla crisi come Grecia, Spagna e Italia” aggiungeva Goran Holmqvist, del Centro di ricerca Unicef Innocenti di Firenze.
A giugno il quotidiano britannico The Guardian pubblicava a tutta pagina i dati della Social Mobility Commission. L’ascensore sociale in Gran Bretagna è bloccato e, nonostante il discorso politico narri altro, le politiche di redistribuzione della ricchezza hanno fallito visto che il divario che separa facoltosi e poveri è sempre più largo e presenta sempre meno sfumature.
“Senza un progetto di riforma radicale e urgente le divisioni sociali ed economiche aumenteranno, minacciando la coesione della comunità nazionale e la prosperità economica”, scriveva il giornale commentando i numeri del rapporto.
E in Italia?
“Secondo il Coefficiente di Gini le diseguaglianze nella distribuzione del reddito in Italia dal dopoguerra tendono ad appiattirsi. Ovviamente con un Centro Nord in vantaggio sul Sud, ma le curve del grafico sono pressoché sovrapponibili. Poi, dal 2008 succede qualcosa. Con la crisi il Nord rimane stabile, nel Sud la curva ricomincia a salire. Nel Mezzogiorno la ricchezza torna a concentrarsi nelle mani di pochi come nemmeno nei Paesi del blocco sovietico dopo il crollo del comunismo”
Resta allora valida la domanda della presidente della Camera, Laura Boldrini, che qualche mese fa durante un dibattito a Bologna per la Repubblica delle Idee si chiese: “Come racconto la democrazia a una ragazza che lavora a un call center per 400 euro? La disuguaglianza erode la democrazia. La politica non è riuscita a porre un limite al mercato e alla finanza (…) Troppe persone nel pianeta e nel nostro Paese sono state allontanate dai diritti. La disuguaglianza è diventata una vera emergenza del nostro tempo”.
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