Lavorare manca?
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Lorenzo Vitelli e Andrea Chinappi)
Sognate ancora un lavoro che corrisponda alla vostra laurea? Continuate a iscrivervi a corsi di formazione per concorrere con i vostri coetanei sul mercato del lavoro in attesa che si liberi un posto adatto a voi? Nel frattempo vi riducete a sopportare stage sottopagati in vista della millantata assunzione da parte del padrone di turno? Facciamola finita. Mettiamo i sogni nel cassetto. Il mercato è saturo. Venite con noi, creiamo il più grande esercito di disertori d’Italia. Nel tempo dell’efficientismo e della produttività la rivoluzione è nel fancazzismo. Buon #Bestiario a tutti Voi. Ecco il nuovo numero!
Quando si era a scuola capitava che la maestra ci chiedesse che lavoro avremmo voluto fare da grandi e accadeva che noi bambini, guardando i nostri giocattoli, ci interrogassimo per la prima volta sul nostro futuro. C’era a chi piacevano le macchine e voleva fare il pilota, a chi le astronavi e voleva fare l’astronauta, chi il calciatore, il cantante, il pompiere, il poliziotto e via discorrendo. Maledetto sia quel giorno! Quell’istante in cui la maestra con il suo volto bonario ci ha fatto credere che avremmo potuto realizzare i nostri sogni, che dietro il cancello scolastico che ci divideva dal resto del mondo ci fosse un mercato del lavoro pronto a rendere reale ciò che in noi era soltanto immaginario! Maledetta sia quella scatola quadrata, dalle luci catodiche, che ci ha indotto a sognare, a credere che anche noi un giorno avremmo avuto i superpoteri e poi, crescendo, a sperare che qualche autore televisivo avrebbe inventato un talent show su misura per noi giovani senza talento. Ci hanno detto di sognare, di sognare sempre, di sperare in un futuro prosperoso, di credere in questa ideologia del benessere venturo, che la storia era – hegelianamente – un miglioramento delle condizioni di vita di generazione in generazione. E poi, infine, sfiorita anche l’adolescenza con i suoi sogni ribelli di notorietà e di gloria, ci siamo limitati a credere, più semplicemente, che con una determinata laurea si potesse esercitare un determinato mestiere. Errore altrettanto grossolano!
Oggi molti plurilaureati non solo hanno abbandonato il loro sogno di quando erano bambini ma anche la loro più ragionevole ambizione adulta – laurearsi in Legge e fare gli avvocati, in Economia e fare i commercialisti, in Lettere e lavorare nel mondo dell’editoria – è svanita (in Italia un laureato su due trova un impiego). Oggi i diplomati meno fortunati in quelle facoltà un tempo prestigiose sono a spasso – con una disoccupazione giovanile del 37% – oppure fanno un lavoro che non ha niente a che vedere con il loro diploma. Lavorano nei call-center o per qualche start-up che gli infila uno zaino con del sushi sulle spalle e li fa pedalare nella gincana delle grandi metropoli.
Siamo «carne da cannone e carne da macchina», scriveva su Lacerba Giovanni Papini più di cento anni fa e non possiamo dargli torto, addestrati come siamo al consumo, alla schiavitù, alla competizione fratricida.
«Uno su mille ce la fa» cantava Gianni Morandi, ma si riferiva al mondo dello spettacolo. Possibile che adesso questa condizione sia anche quella del ben più modesto laureato? Ora uno su mille ce la fa a mettere su famiglia perché non ha un impiego. Anche quello che era scontato è divenuto, per noi “Millenials”, un lusso. Eppure continuano a doparci di sogni. Ogni pubblicità, ogni marchetta, ogni programma televisivo, ogni film ci invita ancora a sognare, a rincorrere un american dream che se in Italia non c’è mai stato, oggi è ancora più anacronistico. Siamo cavalli pazzi dopati di sogni che non potranno mai realizzare. Siamo – se va bene – lavoratori improduttivi part-time che non hanno una vera casa, un vero lavoro, una vera macchina, dei veri risparmi, dei veri vizi, né, tantomeno, ci possiamo più permettere di mettere su una famiglia. Abitiamo un mutuo da pagare, guidiamo le rate dell’automobile, spendiamo soldi virtuali, consumiamo relazioni estemporanee e ci godiamo i nostri piccoli piaceri tecnologici dilazionati in aliquote mensili.
Ecco il tema dei temi, che pian piano si va sviscerando. Quello del lavoro. Oggi chi vuole avere un lavoro stabile è nella stessa condizione di un attore capriccioso di cinquant’anni fa che vuole avere a tutti i costi la sua parte.
Costretto a fare l’immensa trafila della gavetta sottopagata, o misere tournée (Erasmus) investendo tempo e denaro, nella speranza che questa estenuante competizione con i suoi simili, sempre più numerosi, forse si terminerà con l’agognata assunzione. Ma ora è finita, scordiamoci tutto, a partire dalla maledetta maestra con la sua fede hegeliana. Siamo condannati ad una vita di stenti, di compromessi, di rimpianti e di delusioni. Siamo una generazione che ha sognato e sogna invano; e intanto siamo costretti anche a sorbirci i rimproveri dei Ministri del Lavoro sentendoci chiamare “choosy”, “bamboccioni”, “sfigati” e “poco occupabili”. Siamo noi il problema, ci dicono, e in cuor nostro un po’ ci accusiamo di essere la causa di questa malinconia che incombe sul nostro presente. Forse perché abbiamo sognato troppo? Forse perché abbiamo studiato troppo? Il dilemma è lungi dall’essere risolto. Nel frattempo nei Palazzi si indaga su come occupare questa matassa di rammolliti studenti o fannulloni quali siamo.
Con il Jobs Act ci hanno detto di dover essere più flessibili, rendendoci solamente più precari; con l’alternanza scuola-lavoro ci stanno insegnando a lavorare, trasformandoci fin dall’adolescenza in una massa di operai pronti a qualsivoglia attività non pagata, in nome del Lavoro. Come scriveva Volponi ne “Le mosche del capitale” ormai
«non ci sono più personaggi perché nessuno agisce come tale, nessuno ha un proprio copione. L’unico personaggio, è banale dirlo, è il potere».
Qual è allora la soluzione? Semplice: farla finita. Staccare la spina. Allontanarsi il più presto dalla scuola e dall’Università, rifuggire i corsi di formazione, gli stage, i tirocini. Chi ha la possibilità fugga lontano dalle grandi città, recuperi la casa di famiglia nel vecchio borgo spopolato sull’Appenino e si ingegni in pratiche di auto-produzione e auto-consumo per sopravvivere e ripopolare quei luoghi. Gli altri, i meno fortunati, disertino la mega-macchina del Capitale, non diventino forza lavoro sottopagata, non prendano parte al “massacro necessario” di cui parlava Papini e rinuncino, rinuncino a tutto e vadano invece ad ingrossare le fila dell’ultimo vero esercito di resistenza contro il capitalismo globale: quello dei Neet, dei “né-né”. Giovani senza laurea né lavoro, che non vogliono studiare né vogliono cercare un impiego, e che alle promesse dei più grandi non hanno mai creduto. Sopravvivono erodendo il patrimonio dei loro genitori oppure con innocenti lavoretti in nero. Stanno ai margini della società, nessuno li vede e nessuno li sente. Eppure sono il pericolo più impellente per gli alfieri della crescita, del rigorismo economico, dell’efficientismo, del pareggio di bilancio.
Questi giovani nullafacenti, ultimi romantici eredi dei Vitelloni, selvaggi che lottano per sopravvivere, intaccano il Pil per quasi sette punti percentuali. In una “repubblica democratica fondata sul lavoro”, che di democratico non ha più nulla e di lavoro non c’è neanche l’ombra, oggi il vero rivoluzionario è il fannullone. Finché non cesserà l’ultimo battito di tastiera sul Macbook pro, finché non sentiremo più l’assordante rumore delle stampanti, finché anche l’ultima app non verrà più scaricata. Non aspettiamo che il collasso avvenga da solo strappandoci anche l’ultimo briciolo di dignità. Facciamoci fautori del collasso. Diciamo «no», come quel Bartleby di Melville, ai ritmi di produzione dell’impero del lavoro effimero, che tanto con 400 euro al mese non ci campiamo.
“La libertà è partecipazione”
diceva Gaber. Oggi non più: la libertà sta nel non partecipare, nel sospendersi, nel ritirarsi, nel chiamarsi fuori da questa schizofrenica macchina mondiale alla deriva.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/inevidenza/lavorare-manca/
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