“Rosso antico”. Fu questo l’appellativo che accompagnò Luca (Luigi) Castellano nella sua lunga militanza di intellettuale e artista comunista. Lo pseudonimo gli venne attribuito dal compagno Ferraiulo, a seguito di un intervento che Castellano tenne in una gremita biblioteca della federazione napoletana del partito comunista italiano, in via dei Fiorentini.
Era il mese di maggio del 1968. Partecipavano al dibattito il segretario della federazione e la maggioranza dei dirigenti e degli intellettuali comunisti, “organici” e non. Ma ciò che dava carattere di straordinarietà all’incontro era la presenza di alcuni rappresentanti della “Primavera di Praga” inviati da Dubcek. Il segretario del partito comunista cecoslovacco era infatti a caccia di consensi, in tutta Europa, a sostegno della sollevazione in atto nel suo paese.
Dubcek aveva bisogno di raccogliere adesioni intorno alla possibilità, da lui evocata, di edificare un socialismo che, rispetto a quello sovietico, garantisse maggiormente le libertà economiche e civili. Un “socialismo dal volto umano”, come Dubcek soleva definirlo, che sul piano economico avrebbe dovuto sottoporre a critica “il culto della pianificazione” e su quello geopolitico si sarebbe dovuto sganciare dall’orbita dell’Urss. L’allora segretario del Pci Longo esortava tutti a dare alla crisi uno sbocco pacifico, senza lasciarsi tentare da azioni di forza.
Fu in questo clima di attesa inquieta che si tenne l’affollatissima riunione nella biblioteca della federazione di Napoli. In verità, nessuno si attendeva particolari sorprese da quell’incontro. A Napoli, come nel resto d’Italia, il sovietismo del dopoguerra veniva da molti considerato il residuo di un’era politica ormai alle spalle. Al contrario, l’ipotesi di un “socialismo dal volto umano” faceva proseliti. Durante la riunione, molti dirigenti e intellettuali ricordarono l’occupazione sovietica dell’Ungheria avvenuta dodici anni prima, sottolineando con favore lo scarto tra la posizione di Togliatti dell’epoca e quella successiva di Longo. Tutti, in quel momento, volevano sentirsi “praghesi”. Ai rappresentanti cecoslovacchi presenti veniva dunque espressa una solidarietà convinta.
Nel mezzo di quel coro, unanime e speranzoso, si levò la voce dissonante di “Rosso antico”. Luca Castellano era già noto per il suo eloquio trascinante, ma in quella occasione andò oltre il consueto, cimentandosi in un ardito esercizio previsionale. Argomentò infatti che la “Primavera” rischiava di essere ricordata come il definitivo divorzio politico tra l’Unione sovietica e i partiti comunisti europei. Tale divorzio, secondo Castellano, non avrebbe posto le basi per un nuovo umanesimo socialista. Al contrario, avrebbe accelerato la crisi della grande ambizione costruttivista del Novecento: la messa in opera di un’intelligenza collettiva, di un piano cosciente per la costruzione di un modo di produzione sociale alternativo al capitalismo.
La chiarezza delle argomentazioni e la passione civile dell’oratore presero la sala, alimentarono la dialettica e divisero i compagni. Il livello di tensione raggiunse l’apice quando Luca, in modo sofferto, lanciò un avvertimento agli uomini di Dubcek: se il partito ceco non avesse attentamente contestualizzato i propri “desideri”, l’intervento armato dei paesi del Patto di Varsavia si sarebbe certamente verificato. Grande fu lo sconcerto dei dirigenti di fronte a quel monito. Eppure, di lì a poco gli eventi avrebbero confermato la tragica previsione dell’artista.
Va ricordato che Luca fu quanto di più lontano si potesse immaginare dall’archetipo del burocrate filo-sovietico. La sua militanza era aperta, illimitata, convessa, perennemente orientata all’obiettivo di spostare in avanti il perimetro delle possibilità politiche, in modi che spesso contraddicevano le logiche di apparato. Venne un momento, a Napoli, in cui non vi era università, scuola, operatori teatrali e di cinema, artisti o giornalisti che non fossero stati coinvolti in qualche sua iniziativa. Negli assembramenti di strada come nella promozione di riviste politico-culturali, quello che lasciava era un segno dinamico, ostile a qualsiasi tentativo di ossificazione.
Non è un caso che in ambito pittorico egli fu critico non soltanto verso il “realismo socialista” di stampo sovietico, ma anche nei confronti della celebrata produzione pittorica dell’amico Guttuso. Castellano non ravvisava, nell’opera di Guttuso, forze in grado di affrancarla dalla vecchia problematica della “rappresentazione del reale” e, in ultima istanza, di liberarla dalla remota ossessione del confezionamento dell’oggetto artistico per il mercato. La sua polemica si rivolgeva dunque soprattutto verso i simboli, senza risparmiare le stesse icone di partito.
Quest’ansia di distinguersi contro qualsiasi possibile ingabbiamento raggiungeva a volte livelli parossistici, al punto da rappresentare forse il suo principale limite. Basti ricordare che quando la sua polemica arrivava alle soglie del potere egli si fermava e preferiva defilarsi. Sarebbe tuttavia semplicistico spiegare il suo comportamento come un sintomo di individualismo. Dopotutto, il vero scopo che Luca perseguì sempre con ostinazione fu quello di scuotere per unificare. Ciò che più di tutto contava, per lui, era «aggregare uno in più che sia portatore di coscienza critica».
Castellano concepiva dunque la critica soprattutto nella sua dimensione costruttiva, un collante per la formazione di una forza collettiva capace al tempo stesso di rinnovare coesione e movimento. “Rosso moderno”, potremmo dire, oltre che “antico”. Del resto, fu proprio grazie a una declinazione moderna dell’esercizio critico che egli poté intravedere, nei fatti di Praga, i prodromi di una diaspora senza sbocco, che avrebbe aperto una crisi irreversibile nel movimento comunista internazionale. Solo alla luce di questa sua capacità di anticipazione si può comprendere il monito sorprendente dell’intellettuale iconoclasta ai protagonisti della “Primavera”.
C’era in fondo una traccia di peccaminosa “superbia”, nel pensiero dinamico di Castellano. “Superbia” non semplicemente nel senso della tavola di Bosch, quale mera vanità narcisistica. “Superbia”, piuttosto, nel senso faustiano di volontà suprema di conoscenza. Nel senso che Argan ha ravvisato nel Giudizio Universale di Michelangelo, dove il peccato rompe il sodalizio tra l’uomo e il resto del creato: «l’uomo è ormai solo nella sua impresa di riscatto; ma la causa della sua disgrazia, la superbia davanti a Dio (la ύβρις classica) è anche la sua grandezza». [1]
Al pari della vera lussuria, e contro le apparenze, oggi il peccato della vera “superbia” non è per nulla inflazionato. Al contrario esso è raro e per questo, forse, occorre rilanciarlo. Da dove partire per dare nuova linfa alla vera “superbia”? Proprio la critica del “culto della pianificazione”, che permeò la “Primavera” praghese, offre uno spunto decisivo. Infatti, benché originariamente liberatoria, quella critica è ormai divenuta uno degli innumerevoli feticci liberali del nostro tempo. Decenni di martellamento ideologico hanno espunto il “piano” da qualsiasi ordine linguistico, soprattutto da quello dei sedicenti rivoluzionari del nostro tempo.
Questi appaiono oggi sedotti da qualsiasi definizione possa allontanarli dalla scottante problematica costruttiva della “pianificazione”. Dai “beni comuni” al “comunismo dentro”, qualsiasi definizione sembra per questi andar bene, anche la più illusoria ed ambigua, purché consenta di eludere il nodo cruciale del piano. Il risultato è che si è giunti a considerare rivoluzionaria la mera rivendicazione di quel “reddito di esistenza” che già i liberali invocavano due secoli addietro. E’ un destino ironico dal quale, nel mezzo della più grave crisi capitalistica dal 1929, sarebbe ora di emanciparsi.
Si coltivi allora la “superbia”, per esercitare nuovamente memoria e intelligenza intorno al significato del termine “pianificazione”. Sarebbe un modo per scoprire che la parola “piano” ingloba riflessioni ed esperienze ben più ampie rispetto a quelle che maturarono al di là della cortina di ferro. Sulle combinazioni tra piano e mercato maggiormente in grado di garantire benessere economico diffuso ed equità distributiva si discusse ovunque, nel corso del Novecento, persino negli Stati Uniti.
La vera superbia, oggi, potrebbe allora consistere nel cogliere la congiuntura althusseriana della crisi per rilanciare la discussione sulla potenziale modernità del piano. A partire da un interrogativo cruciale. Da decenni ci viene ripetuto che la centralità del mercato capitalistico è sinonimo di libertà, e che dunque pianificazione e libertà sono inconciliabili. Ma in che misura abbiamo analizzato simili proposizioni, e quanto le abbiamo invece recepite in modo passivo, senza il necessario spirito critico e scientifico, senza il filtro di una intelligente “superbia” politica? Cosa, in altri termini, ci impedisce di ragionare sulla possibilità che esperimenti di pianificazione degli snodi principali della grande finanza e dell’industria, anziché costituire dei freni alla libertà dei singoli, si rivelino al contrario una condizione necessaria per liberare la potenza creativa di innumerevoli individualità sociali soffocate dal comando capitalistico?
Nel tempo catastrofico della “transretroguardia del capitale”, in cui il denaro è divenuto l’unica, vera forza creatrice, sarebbe ora che tornassimo tutti a interrogarci su questa rossa opzione rivoluzionaria.
BIBLIOGRAFIA
[1] Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana, Sansoni, vol. 3, 2002.
[2] Emiliano Brancaccio, “Catastrofe o rivoluzione”, in E. Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala, Meltemi 2020.
*estratto da Ciro Esposito, Gaetano Gravina, Gennaro Sorrentino (a cura di). “RaccontArti. Forme d’Opera e di Scrittura”, Artem, Napoli, 2020.
Fonte: https://www.emilianobrancaccio.it/2021/07/11/superbo-rosso-antico/
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