Dimenticare Basaglia?
di La Fionda (Raoul Kirchmayr)
Osservazioni critiche sul progetto di smantellamento del “modello basagliano” nei servizi psichiatrici di Trieste.
La partita che si è aperta a Trieste in queste ultime settimane sul destino dell’eredità lasciata da Franco Basaglia e dalla “rivoluzione psichiatrica” va molto al di là delle polemiche innescate dagli esiti di un concorso pubblico per un posto di dirigente medico psichiatra presso il Dipartimento di Barcola, uno dei rioni della città giuliana. A contendersi il posto presso la locale azienda per i servizi sanitari non si erano presentati solo i candidati locali, formatisi nella tradizione della psichiatria di comunità di matrice basagliana, ma anche candidati esterni, il cui cursus professionale risulta lontano, perfino antitetico, rispetto al modello che nel corso dei decenni si è realizzato a Trieste[1]. Un modello che è stato riconosciuto, fin dal 2005, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come un esempio di riferimento, facendo del Dipartimento di Salute Mentale della città un centro leader per lo sviluppo dei servizi psichiatrici in Europa, grazie ai percorsi di formazione, innovazione e ricerca nel campo, oltre che per la supervisione dei processi di deistituzionalizzazione di molte realtà manicomiali, nei Balcani, in America latina, nelle repubbliche ex-sovietiche e altrove. Insomma, una di quelle esperienze nate dal basso, attraverso forme di partecipazione collettiva ai processi sociali e che nel corso del tempo, pur con l’introduzione di modifiche, non hanno tradito l’impronta originaria che Franco Basaglia era riuscito a imprimere, durante gli anni Sessanta e Settanta, grazie alle pratiche di smantellamento dell’istituzione manicomiale, sostituite con una “psichiatria di comunità” particolarmente avanzata che opera in senso sistemico, mediante il coinvolgimento complessivo di utenti, famiglie, operatori, infermieri e medici. Questo approccio psichiatrico è intrinsecamente democratico e tendenzialmente inclusivo, distrugge l’idea di una presunta “normalità” cui si contrapporrebbe la malattia mentale, combatte gli stigmi sociali che colpiscono chi soffre di disturbi psichici, esercita un approccio laico verso la sofferenza emotiva e mentale. Certo, visto dal lato dell’utilità esso comporta un duplice svantaggio: è un modello che richiede l’immersione dell’operatore e del medico nell’esperienza della sofferenza mentale e dunque esige un’elevatissima etica dell’impegno sociale a favore della comunità; inoltre, è un modello che – rispetto alla psichiatria istituzionale tradizionale – ambisce a restituire la soggettività al malato, ponendolo al centro del percorso di cura. Per questo, se volessimo valutare gli attuali processi di riorganizzazione del settore sanitario in nome della “efficienza” e delle “prestazioni”, un punto di vista basagliano ci metterebbe in guardia, ponendoci di fronte all’evidenza dell’illusorietà e della pericolosità del modello di gestione aziendalistica della salute che si sta perseguendo in Italia, nel quale l’oggettivazione e la medicalizzazione del paziente diventano il presupposto di un approccio tecnico che ne accentua, e non ne diminuisce, la condizione d’isolamento e di spaesamento rispetto alle logiche dell’istituzione medica. Se un tempo tali logiche rispondevano in primo luogo ai criteri dell’efficacia del trattamento medico, ora esse rispondono ai criteri del servizio-azienda. A chi ha fatto della “fine delle ideologie” la propria bandiera per così aderire senza resipiscenze al “nuovo corso” del capitalismo, si può ribattere che l’ideologia neoliberale della presunta (e assai poco raggiunta) efficienza aziendale è la peggiore delle ideologie e che la sua messa all’opera è sempre una decisione politica, mai tecnica.
Così, quando i politici, a ogni latitudine, presentano una decisione come causata da una superiore “razionalità tecnica”, si può essere certi che un modello di esercizio del potere politico è ampiamente in funzione e che la dismissione di ogni responsabilità verso la collettività non è che il complemento di tale razionalità tecnica. Se si va a rileggere, per esempio, La lettera da New York,un breve e intenso testo di Basaglia scritto nel 1969, dopo un periodo di studio negli Stati Uniti, si comprende come a fronte della trasformazione delle logiche dei servizi psichiatrici e assistenziali in senso tecnico-specialistico che colà stava avendo luogo nel quadro di un allargamento del Welfare – ricordiamo che storicamente siamo in corrispondenza del culmine dei “Trenta Gloriosi” – la risposta che Basaglia elaborerà e metterà in atto nel contesto italiano è anzitutto politica, teorica e pratica. La prospettiva a lungo respiro è chiara: all’avanzare delle procedure tecniche ciò che dev’essere opposto sono la responsabilità del medico e degli operatori, l’impegno etico e teorico, la mobilitazione politica. Così, l’esperienza di confine a Trieste ha segnato l’avvio di una stagione nuova anche sotto il profilo dell’elaborazione delle idee nel sapere psichiatrico, mentre la psichiatria “ufficiale”, istituzionale e accademica, non smette di impiegare le armi retoriche d’antan che – come uno stanco refrain di un motivetto fuori moda – continuano a tacciare di scarsa scientificità i risultati ottenuti sul campo dal modello basagliano,[2] allorquando è stato proprio il plesso teorica-pratica e un certo empirismo teorico ad aver condotto Basaglia a elaborare un pensiero della follia e delle strategie di distruzione dell’istituzione manicomiale che restano un esempio luminoso, nel nostro paese, di sapere in atto e di inquieta interrogazione su quello stesso sapere e sui suoi effetti pratici. Come ha bene scritto Mario Novello, «l’esperienza basagliana non è soltanto memoria e narrazione, ma ha generato e tuttora genera nuovi saperi di grande complessità che […] quantomeno hanno permesso e permettono di conoscere e analizzare realtà istituzionali e di trasformarle affinché rispondano ai bisogni di salute delle persone reali nel mondo reale e drammaticamente contraddittorio, oppure di distruggerle»[3].
Infatti, la cosiddetta “rivoluzione psichiatrica” di cui Basaglia è stato l’artefice non è stata decisiva solo perché ha portato alla chiusura dell’istituzione manicomiale là dove la psichiatria democratica è riuscita ad applicare la legge 180, ma anche perché ha permesso di rivelare l’infondatezza di una psichiatria tradizionalista di matrice positivista, che traeva la sua legittimazione scientifica principalmente dall’esercizio, frequentemente abusivo e discrezionale, di un potere medico finalizzato alla contenzione e al controllo sociale. Non si tratta solamente di una questione di legittimità epistemologica del sapere psichiatrico, come se ne andasse di un problema di natura prevalentemente teorica, comunque importante. Ciò che è principalmente in questione è il rapporto tra il cittadino e le istituzioni che dovrebbero tutelarlo in virtù della loro funzione precipua e del loro mandato costituzionale. Se e quando, come sta accadendo da alcuni decenni in nome di una superiore per quanto solo supposta “razionalità economica” si privilegia la prestazione misurabile dei servizi secondo degli standard aziendali e non il ruolo di protezione sociale che i servizi pubblici dovrebbero incarnare, allora si comprende facilmente come i fatti di Trieste e lo scontro ch’essi hanno prodotto assumono un’ampiezza molto maggiore rispetto alla dimensione locale, chiamando in causa l’attacco ideologico che i servizi pubblici subiscono da tempo, in nome della loro trasformazione secondo i principi del libero mercato.
In tempi recenti la psichiatria di comunità a Trieste ha prodotto modelli efficaci di intervento sul territorio (il progetto delle cosiddette “microaree” urbane, cioè interventi nei quartieri a maggior disagio della città) ed è stata recentissimamente in prima fila nella battaglia per la chiusura degli OPG. Ora si trova ora a dover affrontare una crisi di origine esogena cui hanno contribuito anche alcuni fattori d’incertezza, quali le prospettive di rilancio del progetto basagliano, la riflessione sui modelli teorici di riferimento e forse una coerente politica di consolidamento della presenza di psichiatri basagliani nel quadro delle locali aziende sanitarie. Insomma, una strategia complessiva in grado di evitare la conservazione dell’eredità basagliana, ma di commisurarla a un quadro sociale profondamente mutato. La società neoliberale, perseguendo un progetto di distruzione dei luoghi e delle forme comunitarie, produce nuovi disagi e nuove sofferenze. Il disastro che si sta annunciando in Italia, per volontà di una destra che nel campo sanitario mostra il proprio volto contemporaneamente populista e aziendalista: alle consuete strategie di aziendalizzazione dei settori pubblici e alle logiche di privatizzazione dei servizi in nome del profitto privato si sovrappone l’ansia securitaria, la negazione dei diritti, la stigmatizzazione del “diverso” percepito come una minaccia all’integrità del corpo sociale. Con un paradosso tipico del combinato disposto delle versioni populiste-reazionarie del neoliberalismo: le forze che contribuiscono a distruggere i legami sociali sono le stesse che evocano delle forme mitiche di comunità “pura” e messa in pericolo da fattori che, nella realtà dei processi sociali ed economici, non sono che degli epifenomeni. Così, la nuova destra liberale e populista può contemporaneamente propugnare un modello in cui libero mercato, distruzione dei diritti e dei servizi pubblici, contrazione del Welfare ecc. si possono combinare con la rivendicazione di diritti, sicurezza e protezione.
Ma torniamo alla pietra dello scandalo, cioè al concorso pubblico. In un recentissimo intervento comparso nella pagine de Il manifesto, Maria Grazia Giannichedda, ha ricordato non solo nomi e cognomi dei protagonisti della vicenda concorsuale, ma soprattutto i loro profili scientifici e professionali, e ad esso rimandiamo per i dettagli.[4] Le polemiche sono scoppiate quando la commissione concorsuale ha ammesso alla prova orale un solo candidato locale su tre, per poi attribuire il posto al candidato che aveva presentato minori titoli e che proviene da vent’anni di esperienza in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura già al centro di ispezioni a causa di diverse irregolarità e per la morte di un paziente, avvenuta nel 2018, denunciata assieme all’uso della contenzione e di maltrattamenti. Si è così innescata un’escalation di accuse e di controaccuse. Il mondo della psichiatria triestina è insorto, denunciando la malagestione del concorso e il progetto di smantellamento delle strutture esistenti che la giunta regionale avrebbe in animo di realizzare. Ma soprattutto si sono mossi gli psichiatri, molti dei quali giovani e combattivi, alcuni infermieri, gli utenti e le loro famiglie, che da alcune settimane si riuniscono in assemblea per discutere, confrontarsi e stabilire una linea di condotta rispetto a un attacco al diritto alla salute che si sta realizzando in due tempi: a un primo momento – che è consistito nella riduzione delle risorse territoriali per la salute mentale, nel blocco dei concorsi e nella riorganizzazione dei servizi imposta dall’alto – ha fatto seguito un secondo momento, quello attuale, con cui il potere politico locale procede ad affidare ruoli dirigenziali a uomini molto lontani dal modello basagliano. Infatti, ciò che ha agitato il mondo della psichiatria locale non è stata tanto la procedura a quanto pare opaca di un concorso pubblico, quanto il fatto che la commissione, nello scegliere il vincitore, non abbia tenuto conto della specificità dell’esperienza triestina e dei suoi percorsi, che coincidono con uno dei processi di maggiore rilevanza nella storia della democrazia sociale di questo paese: la stesura della Legge 180, il senso della battaglia contro una psichiatria arcaica, la fine dell’internamento per i sofferenti di disturbi mentali e il riconoscimento giuridico dei loro diritti, l’apertura degli spazi manicomiali. Trieste non è solo un simbolo di libertà terapeutica, ma è il nome di un’utopia reale, come l’avrebbe chiamata Basaglia, ed è il frutto di una stagione di lotte collettive che da più parti, psichiatria accademica compresa, pare proprio si voglia chiudere e, possibilmente, consegnare al passato. Non pare trattarsi di un’operazione d’archiviazione, piuttosto è l’ennesimo episodio di un conflitto che settori professionali, politici e culturali stanno conducendo nel settore della sanità pubblica, uno di quelli che sono da sempre più sensibili dal punto di vista sociale, anche in considerazione della funzione di controllo che la psichiatria ha storicamente assolto, come hanno riconosciuto i lavori di scavo condotti da Michel Foucault.[5] Dimenticare Basaglia pare dunque essere la linea guida seguita in nome di una razionalizzazione dei servizi psichiatrici improntata a un modello gestionale aziendalistico ed economicistico. Se Basaglia si era speso per un rinnovato umanesimo, il suo lascito rappresenta un impedimento, simbolico e reale, per le forme di razionalità tecnocratica che accompagnano le politiche di privatizzazione dei servizi. All’opposto, è in nome di quell’eredità, di quel modello e di quel sapere sempre aperto che occorre respingere un’idea di società mercatista e utilitarista che ci viene imposta come la sola possibile.
[1] Ampi riferimenti al concorso e ai suoi esiti, con dovizia di nomi e cognomi, sono stati offerti dalla stampa locale e nazionale. Tra gli articoli che denunciano le scelte della commissione, cfr. M. Ballico, Salute mentale, l’allarme degli ex direttori di Trieste: “Così cancellano il metodo di Basaglia”, “La Repubblica”, 28.6.2021; M. Recalcati, Se a Trieste la storia riscrive la Basaglia, “La Stampa”, 7.6.2021; M. G. Giannichedda, Trieste, il concorso che tradisce Basaglia, “Il manifesto”, 11.6.2021; D. D’Amelio, Scelto un non basagliano al CSM di Barcola, non accadeva da quarant’anni, “Il Piccolo”, 14.6.2021;F. Martini, Tagli alle risorse, nuovi metodi e due singolari concorsi: nel Friuli della Lega l’attacco alla 180, “L’Espresso”, 21.6.2021; L. Caglioni, In Friuli a rischio il modello basagliano di cura per la salute mentale: “In pensione i medici della lotta contro i manicomi e servizi impoveriti, “Il Fatto Quotidiano”, 4.7.2021; Ci sono stati tuttavia anche degli interventi a favore della psichiatria istituzionale tradizionale e delle scelte compiute dalla commissione; cfr. S. Fiori, La battaglia che divide gli psichiatri, “La Repubblica”, 2.7.2021; Ead., Pierfranco Trincas: “ma nessuno vuole riaprire i manicomi”, “La Repubblica”, 2.7.2021; vedi anche S. Fiori, Alberta Basaglia: se muore il sogno di mio padre, “La Repubblica”, 14.6.2021. Da segnalare anche il dibattito che si è aperto nel sito di “Psychiatry On Line Italia”, con gli interventi di P. F. Peloso (Sui concorsi in sanità e in salute mentale, a partire dai fatti di Trieste, 13.6.2021), di S. Thanopulos (Trieste non deve morire, 18.6.2021) e una nota di G. Chessa (Informarsi bene, per poter informare, ivi, 25.6.2021, che sposta l’attenzione dal merito della vicenda al trattamento ch’essa ha avuto dagli organi di stampa).
[2] Questa posizione stereotipata di difesa della psichiatria istituzionale e dei suoi metodi è stata rilanciata dal presidente della Società Italiana di Psichiatria, Massimo Di Gianantonio, in relazione al caso del concorso triestino. Cfr. La Società di psichiatria contro i basagliani di Trieste: “Concorsi in regola, non si resti ancorati a una visione antica”, “Il Piccolo”, 6 giugno 2021.
[3] M. Novello, Se cinquant’anni vi sembrano pochi, “News Forum Salute Mentale”, 6 luglio 2021.
[4] M. G. Giannichedda, Trieste, il concorso che tradisce Basaglia, “Il manifesto”, cit.
[5] Mi riferisco in primo luogo a La storia della follia nell’età classica (1963), traduzione e cura di M. Galzigna, Milano, Rizzoli, 2011 e a Id., Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), traduzione di M. Bertani, Milano, Feltrinelli, 2015.
Fonte: https://www.appelloalpopolo.it/wp-login.php
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