A te che vieni a farmi la morale
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alessandro Staderini Busa)
Dalla presunzione di innocenza a quella di colpevolezza: siamo tutti potenziali malati, potenziali untori, anche se siamo sani. Ma cosa c’è di morale in questo?
Forse ricordi meglio di me come tutto, in un momento, abbia cominciato ad andare in disfacimento: il funzionamento dei treni, il rifornimento delle città, le basi dell’armonia familiare, i fondamenti morali della coscienza. Il male peggiore, la radice del male futuro, fu la perdita della fiducia nel valore della propria opinione. Si credette che il tempo in cui si seguivano le suggestioni del senso morale fosse passato, che ora si dovesse cantare in coro e vivere di concetti altrui, imposti a tutti. Questo traviamento della società coinvolse tutto, contagiò tutto. Ogni cosa ne subì l’influenza funesta – ti dirà Pasternak. Per nascondere il fallimento si doveva ricorrere a tutti i mezzi dell’intimidazione per togliere alla gente l’abitudine di giudicare e di pensare, costringendola a vedere ciò che non esisteva e a dimostrare il contrario dell’evidenza.
E se poi cerchi fra i dialoghi e i frame di certi legal thriller, incapperai nella formula che equivale, per aule di giustizia nordamericane, al nostro La legge è uguale per tutti. Ovverosia Innocent until proven guilty – cosa che in italiano diventerebbe Innocente fintantoché non dimostrato colpevole. La chiamano “presunzione d’innocenza” – o più precisamente “presunzione di non colpevolezza” – ed è il principio fondativo della giurisprudenza d’Occidente. Saprai che tra i primi a divulgarne l’applicazione moderna, passata la metà del fatidico secolo XVIII, furono Verri e Beccaria. Di fatto due inventori dell’acqua calda, abili semmai nel copia e incolla di un principio probatorio già tracciato dai maestri della Giurisprudenza latini, quello dell’adfirmanti incumbit probatio. Il che, di nuovo tradotto, vuol dire la prova spetta a chi afferma. Il che, per i profani di Diritto, significa come non stia all’imputato dover provare la propria innocenza, ma piuttosto alla pubblica accusa accertarne la colpevolezza: al primo basterà dimostrare inconsistenti le accuse presentategli contro dalla seconda. Saprai che a tal principio si ispira l’articolo 11 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo oltre che l’articolo 48 della Carta di Nizza, e che per l’ordinamento di casa nostra valga l’articolo 27, secondo comma, di quella Costituzione non certo la più bella del mondo, ma almeno benintenzionata a scongiurare revival autocratici, quando nacque all’indomani del Ventennio. Parentesi storica contro cui tuonava, 25 aprile 2019, il Presidente Mattarella, ricordando:
“La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tagica e distruttiva.”
Presidente Mattarella – 25 aprile 2019
Sì, perché uno dei fiori all’occhiello di ogni dispotismo come si deve è il ribaltamento di quella norma di cui sopra, dove la condizione di partenza del cittadino non è più l’innocenza, bensì la colpevolezza. Un Novecento inzeppato di deliri ideologici ce lo ha insegnato. Sono appena 21 anni che “il secolo breve” s’è concluso e già tu l’hai dimenticato?
Dopo Pasternak, hai presente l’altro nobel Solženicyn – quello che, per intenderci, fu dileggiato dall’altro nostro Presidente, Napolitano, per aver infangato il buon nome della Rivoluzione con “rappresentazioni tendenziose della realtà dell’URSS”? Apri al volume I, capitolo terzo, di Arcipelago Gulag. Vi troverai:
“Nel 1950, uno dei colonnelli più eminenti del KGB, Foma Fomič Železov, dichiarò ai detenuti: Noi non faticheremo a dimostrare la vostra colpa. Dimostrateci voi di non aver avuto intenzioni ostili. […] Il coniglio acciuffato, tremante e pallido, privato del diritto di scrivere, telefonare, portare qualcosa con sé, privato del sonno, del cibo, della carta, d’una matita e perfino dei bottoni, seduto su uno sgabello nell’angolo di un ufficio doveva trovare DA SÉ ed esporre all’ozioso giudice istruttore le prove di NON avuto intenzioni ostili! E se non le trovava (come avrebbe potuto procurarsele?) offriva all’istruttoria le prove approssimative della propria colpevolezza!”
E se col Baffo dei Soviet dovevi scagionarti da crimini mai commessi, con l’altro Baffo non te la saresti cavata meglio, avendo questi predisposto che il buon cittadino circolasse solo a mezzo di un documento detto Ahnen-pass, attestante nessuna ascendenza ebraica. Ora, a noi, non è toccato in sorte né l’uno né l’altro. Semmai, hegelianamente parlando – vedi: tesi, antitesi, sintesi – è toccato un po’ di entrambi. Perché è di colpevoli a prescindere, la condizione nostra, ed un passaporto serve a discolparci. Come la vedi? Vai in ufficio, a scuola, al cinema, al ristorante, prendi il bus, solo dimostrando l’innocenza di non portar con te il virus che uccide. E il pass da Ahnen s’è fatto Green, perché la questione ambientale ci sta a cuore e non vogliamo gravare sulle risorse di madre terra. Non trovi quanta continuità leghi il passato col presente? Cambiano la foggia e i colori della moda, cambiano i volti degli oppressi e i culi sulle poltrone, ma l’Errore torna a proporsi senza troppe variazioni, in quanto che l’uomo resta un essere finito e, all’interno delle società che costruisce, le possibilità di male, gira e rigira, son sempre quelle.
Uno che aveva conosciuto l’inganno di ambo i Baffi, il polacco Wojtyla, definiva la legge morale quella sorta di “grammatica”, scritta nel cuore dell’uomo, che serve al mondo per affrontare il suo stesso futuro. Non vanno distanti i tratti con cui uno Jünger tracciava l’eroe del suo Der Waldgänger (lett. “colui che passa al bosco”): per sapere che cosa sia giusto non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Ad Agostino d’Ippona pareva identica cosa, poiché ciò che parla alla coscienza del singolo, suggerendo quanto sia bene oppure male per sè e per il prossimo, è la stessa voce di Dio, ispirativa di ogni giusta legge scritta dalla mano dell’uomo. Come voce di Dio, essa opera secondo coerenza di quel Dio che, pur onnipotente, rispetta il libero arbitrio umano e non interviene ad anticipare una tua scelta, come farebbero le guardie nello scenario distopico di Minority Report di Dick. Mi segui? Si sarebbe perciò chiamati a sentirci responsabili di mettere a rischio le vite altrui – come tu dici – solo nel momento in cui cadessimo ammalati, e certo non da sani. La logica, esercizio corretto della ragione, suggerisce che sulla gincana delle congetture non possano fondarsi chiamate al dovere di alcun tipo. La morale civica e la carità cristiana poi, pure quelle non possono prescindere dalla retta ragione. Ed è curioso come la stessa forma mentis che finora addebitava all’etica cristiana il meccanismo del senso di colpa, ricorra ora a far leva sullo stesso. Con la differenza che, nel Cristianesimo, la colpa viene a seguito del peccato. Nel caso nostro, al contrario, la colpa di aver nuociuto a qualcuno sarebbe preventiva quanto il trattamento sanitario rifiutato. Che dunque, a rigor di logica e a rigor di morale, con salute buona o salute malferma, scelga ognuno di curarsi oppure no, di aderire a una profilassi o meno. E se sciaguratamente, per legge, la libertà di cui parlo fosse da domani non più garantita? Be’, mi congederei da te che vieni a farmi la morale, di nuovo con le parole di “colui che passa al bosco”…
Quando tutte le istituzioni sono diventate equivoche o addirittura sospette, e persino nelle chiese si sente pregare ad alta voce non per i perseguitati bensì per i persecutori, la responsabilità morale passa nelle mani del singolo, o meglio del singolo che ancora non si è piegato.
FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/a-te-che-vieni-a-farmi-la-morale/
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