Di Elijah J. Magnier
Tradotto da A.C.
La stabilità in Iraq resta una chimera, oggi più che mai dopo che il Consigliere per la Sicurezza Nazionale irachena Qasim al-Araji ha annunciato che “la missione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha concluso la sua fase di combattimento e si ritirerà dall’Iraq”. Ma la replica a questa affermazione è arrivata dall’addetto stampa del Pentagono, John Kerry: “non ci sono variazioni sostanziali, il numero dei soldati (2500) attualmente in Iraq non cambierà”. Ed è la prima volta in assoluto che gli Stati Uniti annunciano il ritiro totale delle loro truppe da un paese senza che neppure un loro soldato lasci il suo posto, mantenendo inoltre tutte le basi militari sotto il loro comando. “Ritiro” in realtà significa che la missione cambia nome, 2500 uomini delle truppe da combattimento diventano istruttori.
Questo sviluppo della situazione è avvenuto subito dopo l’annuncio dei risultati delle elezioni. Il processo per eleggere un nuovo primo ministro e i due presidenti, della repubblica e del parlamento, avrebbe dovuto aver inizio. Ma le divergenze a livello politico tra i vari partiti hanno impedito la conferma dei risultati da parte della corte federale. E si suppone che verranno annunciati ufficialmente soltanto nel prossimo anno. Pertanto è probabile che l’Iraq non abbia un governo prima di marzo o aprile del 2022. A questo punto viene spontaneo chiedersi quale direzione stia prendendo il paese.
Molti politici iracheni sono convinti che ciò che avviene nel loro paese sia strettamente legato all’accordo (o disaccordo) nucleare tra l’Iran e gli Stati Uniti. Ciò non toglie che le truppe americane siano probabile oggetto di molestie anche se inesistenti secondo la decisione presa dal parlamento iracheno nel gennaio 2020 in seguito all’assassinio del generale maggiore Qassem Soleimani e del comandante Abu Mahdi Al-Muhandes all’aeroporto di Baghdad.
Bisogna però separare le questioni perché l’uscita delle truppe americane dall’Asia Occidentale è un obbiettivo che la Guida Suprema dell’Iran (Wali al-Faqih) Sayyed Ali Khamenei aveva espresso chiaramente dopo l’assassinio di Soleimani. Indubbiamente l’Iran ha sfidato gli Stati Uniti con un bombardamento senza precedenti della loro base più importante in Iraq, Ain al-Assad, nella provincia di Anbar, dove più di 110 soldati sono rimasti feriti. Ma la leadership di Teheran ritiene che questa risposta non sia sufficiente a vendicare la perdita del suo valoroso generale. Pertanto, indipendentemente da ciò che avviene nei colloqui di Vienna, l’Iran troverà pace solo quando le truppe statunitensi lasceranno la Mesopotamia.
E così il governo iracheno si trova ad affrontare una realtà che avrebbe sicuramente voluto evitare: costringendo le truppe americane a lasciare il paese otterrebbe in cambio l’astio di Washington con le conseguenze che ciò comporta. Gli Stati Uniti infatti si sono già rivolti ai vertici iracheni in modo minaccioso avvertendoli di valutare le possibili conseguenze di un loro ritiro e la reintroduzione di sanzioni economiche che andrebbero a colpire il loro paese.
Il Capitolo VI dell’UNSCR del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite prevede che tutti i ricavi delle vendite del petrolio iracheno (l’economia dell’Iraq dipende per il 95% da loro) vengano versati nelle banche statunitensi. E’ chiaro quindi che l’imposizione di sanzioni da parte degli Stati Uniti soffocherebbe l’Iraq proprio nel momento in cui inizia a ripianare il suo debito. (da 133 miliardi nel 2020 è passato a 20 miliardi nel 2021).
D’altro canto anche se si registrasse un successo nell’accordo sul nucleare, questo non impedirebbe agli alleati iracheni dell’Iran di mantenere le loro promesse ovvero di obbligare le truppe americane ad andarsene dopo la mezzanotte del 31 dicembre 2021. E’ questa infatti la data stabilita per la partenza dall’Iraq di tutte le truppe da combattimento, annunciata durante il vertice a due (il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhemi) tenutosi a Washington mesi fa. Al-Kadhemi venne scelto come primo ministro per traghettare il paese verso le elezioni parlamentari anticipate e per negoziare e assicurare il ritiro di tutte le truppe straniere dall’Iraq. E aveva promesso all’Iran che l’assassinio dell’ospite iraniano (Soleimani) non sarebbe rimasto impunito (quando Soleimani fu ucciso era ospite dell’Iran in funzione di mediatore). E l’Iran sta aspettando che Kadhemi mantenga la sua promessa.
L’inimicizia esistente tra gli Stati Uniti e l’Iran non è certo una novità e non è iniziata con l’ordine dato da Donald Trump di assassinare il generale iraniano. Soleimani era stato invitato in Iraq dal primo ministro Adel Abdel Mahdi che aveva richiesto la mediazione iraniana per cercare di affievolire la tensione esistente tra i dimostranti iracheni e la missione diplomatica americana a Baghdad, rappresentante del presidente degli Stati Uniti. Stati Uniti e Iran hanno rapporti conflittuali dal 1979, l’anno che segnò la vittoria della “Rivoluzione Iraniana”. E se anche ci fosse un accordo sul nucleare probabilmente l’ostilità tra i due paesi non scomparirebbe. Per cui, indipendentemente dal raggiungimento o meno di un accordo sul nucleare, Teheran ritiene che la presenza delle truppe americane sui suoi confini e sul suolo iracheno rappresenti un pericolo costante per la sua sicurezza nazionale.
Va poi anche detto che gli Stati Uniti sfruttano a loro vantaggio le divergenze politiche esistenti tra i vari blocchi iracheni e l’assenza di segnali che facciano pensare ad una possibile soluzione o a un accordo utile a formare un nuovo governo. In conseguenza di ciò Washington sa perfettamente che il potere dell’attuale governo non è più così effettivo dopo le ultime elezioni. E approfitta anche della sua ambiguità, infatti il governo iracheno accetta la presenza nel paese di truppe da combattimento americane sebbene la natura di queste truppe non sia mai stata annunciata come tale. Agli Stati Uniti non è mai stata data l’autorità di condurre operazioni militari in Iraq anche se hanno attaccato più volte le forze di sicurezza irachene sia quando era presidente Trump che oggi con Biden. L’ex primo ministro Adel Abdel Mahdi aveva chiesto agli Stati Uniti, dopo l’approvazione in parlamento, di andarsene dal paese ma non ha mai ricevuto un sì.
Molti politici iracheni hanno concordato di chiedere alle truppe della NATO (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord), di sostituire quelle statunitensi. Ma questo significa ridare agli Stati Uniti il controllo della sovranità irachena con il pretesto di combattere l’ISIS e di addestrare l’esercito di Baghdad. Se la resistenza irachena deciderà di attaccare le basi americane, un’eventuale risposta militare degli Stati Uniti segnalerà ovviamente che le “truppe da combattimento” in Iraq sono ancora operative. E’ pressoché scontato che molti gruppi iracheni rifiutino la presenza delle truppe americane, qualunque sia la loro definizione, faranno di sicuro tutto ciò che possono per disturbarle e provocarle lì dove si trovano, nelle basi militari. Senza dubbio l’Iran continuerà ad essere un’arena in cui si agitano le relazioni burrascose dei vari partiti politici e dove gli Stati Uniti e l’Iran giocano a braccio di ferro
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