Silenzio a Francoforte
di TELEBORSA (Guido Salerno Aletta)
La BCE condizionata da vincoli, asimmetrie strutturali e troppi errori
“Quieta non movere”: si darà un calcio al barattolo, per dirla in modo meno aulico.
Non ci saranno grandi novità, nella prossima riunione:
– chiusura del PEPP a marzo, come da programma;
– prosecuzione del Qe che verrà modulato in funzione dell’andamento dell’economia e dei prezzi;
– mantenimento dei tassi di riferimento ai livelli attuali;
– reinvestimento delle detenzioni di titoli di Stato alle scadenze.
La ventata di rialzo dei tassi di interesse che è già in corso da quasi un anno, riportando ormai ad un soffio dallo zero il tasso negativo sui Bund e facendo lievitare ad oltre 130 punti base lo spread dei BPT, sarà alimentata dalle decisioni della Fed che va giù di tapering avendo già programmato fino a quattro rialzi dei tassi già nel corso del 2022.
Manca un quadro politico ed istituzionale che consenta alla BCE di assumere una strategia chiara. Bisogna rinviarla a dopo: “a dopo” le elezioni del Presidente della Repubblica in Italia ed in Francia; “a dopo” la definizione di un programma che sterilizzi a lungo termine le detenzioni di debiti pubblici accumulati dalla BCE a partire dal 2020 sulla base del PEPP e forse anche di quelli derivanti dal PSPP a partire dal 2013; “a dopo” la riforma del Fiscal Compact.
Il fatto è che, a partire dal 2020, a causa della pandemia e delle limitazioni delle attività economiche e sociali volte a ridurre i contagi, si sono accumulati nuovi problemi:
i debiti pubblici sono cresciuti notevolmente per sostenere le famiglie e le imprese;
molte situazioni di sofferenza non sono ancora emerse per via delle garanzie pubbliche concesse alle imprese sulle erogazioni di liquidità erogare dalle banche;
i rialzi dei prezzi dell’energia elettrica, del gas e di tante materie prime stanno facendo lievitare i costi delle imprese e riducendo il potere di acquisto delle famiglie;
lo spazio per nuovi “scostamenti” di bilancio in deficit si è fatto sensibilmente più limitato, se non ormai nullo.
La spinta propulsiva che era stata prospettata a partire dal luglio 2020 con il NGUE si è andata progressivamente esaurendo, per tre motivi:
la transizione energetica volta alla completa decarbonizzazione della produzione è oggetto di ripensamento a Bruxelles, con la definizione di una nuova “tassonomia” che includerebbe il gas ed il nucleare come fonti ammissibili nella fase di transizione;
solo l’Italia, e per pochi spicci la Spagna e la Romania, ha richiesto di poter accedere ai loan (prestiti) in aggiunta ai grant (erogazioni a fondo perduto) riducendo enormemente l’impatto teorico degli investimenti che sarebbero stati finanziati con i fondi reperiti sul mercato da Bruxelles;
i grant che verranno erogati ai singoli Stati sulla base del NGUE si fondano su corrispondenti aumenti delle risorse proprie della Unione, e quindi si tratta di una partita di giro da coprire con nuove tasse. Gli aumenti di quelle sulla plastica non riciclata ed altri proventi ambientali sono rimasti ancora da definire concretamente.
C’è un errore fondamentale, da cui si sta uscendo a stento: i tassi nominali negativi sui bond, che è stato determinato dal modo con il quale la BCE ha gestito il PSPP. Ha comprato, infatti, per parità di trattamento, anche i titoli di Stato che venivano considerati safe asset, come i Bund tedeschi, che non solo erano già scarsi sul mercato ma già rendevano pochissimo per il ridotto rischio sotteso.
I rendimenti nominali negativi di questi anni hanno determinato una forte riduzione dei proventi di Assicurazioni, Fondi previdenziali e Banche. Anche la nuova liquidità non è entrata tutta nel circuito dell’economia reale attraverso il credito: visto che i titoli di Stato sono considerati risk free dal punto di vista dell’assorbimento del capitale a fini prudenziali, le Banche hanno preferito acquistare titoli di Stato, anche rimettendoci con i tassi nominali negativi, piuttosto che assumersi il rischio di aumentare il credito e quindi anche le riserve di capitale a copertura dei rischi.
C’è stato dunque un cortocircuito nel sistema bancario tra la convenienza a detenere titoli di Stato, anche se con rendimenti nominali negativi, la riduzione dei margini di interesse che ne è derivata e l’aumento del costo del capitale necessario per coprire i rischi derivante dalla erogazione del credito. Un Paese come l’Italia, per definizione “bancocentrico” e con un enorme debito pubblico, ha visto progressivamente sterilizzarsi il canale creditizio.
Fonte: https://www.teleborsa.it/Editoriali/2022/01/14/silenzio-a-francoforte-1.html#.YeXGI2TSJPw
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