Ci sono molti articoli, blog e libri che criticano l’economia neoclassica – l’economia “volgare” – e che mettono in luce i suoi numerosi fallimenti. L’elenco è troppo lungo per discuterli tutti in questa sede, ma è abbastanza facile trovarli elencati nel canone della letteratura post-keynesiana ed eterodossa.
Autori come Paul Davidson hanno messo ripetutamente in discussione il realismo delle ipotesi neoclassiche, che non sono una descrizione adeguata del “mondo reale”. Altri ancora, come Vicky Chick, hanno lamentato i difetti metodologici dell’economia neoclassica e la sua dipendenza dall’individualismo atomistico, dalla convergenza all’equilibrio, da meccanismi di autoregolazione e simili. Per alcuni, l’economia neoclassica “è morta”, come sostiene Steven Klees, dell’Università del Maryland.
Eppure, una rapida occhiata a quasi tutte le riviste e ai dipartimenti universitari conferma che l’economia neoclassica non è morta, anzi. Essa prospera nei dipartimenti universitari ed è ancora considerata l’unica opzione disponibile, nonostante l’ascesa di punti di vista alternativi, come la Modern Money Theory, o di idee eterodosse che lentamente si insinuano negli approcci tradizionali.
Dalla teoria al mondo reale
Una descrizione forse più accurata la dà John King:
“La teoria macroeconomica mainstream è sbagliata e ha conseguenze perniciose quando viene presa a fondamento della politica economica”.
Ovviamente, queste parole riecheggiano quelle di Keynes stesso nel paragrafo iniziale de “La teoria generale”, dove scriveva:
“Le caratteristiche del caso speciale ipotizzato dalla teoria classica1 non sono quelle della società economica in cui viviamo realmente, con il risultato che il suo insegnamento è fuorviante e disastroso se tentiamo di applicarlo ai fatti dell’esperienza”.
Disastroso, per l’appunto. Le conseguenze sono fin troppo evidenti, come ci ricorda ancora Keynes in un saggio scritto nel 1930. Riferendosi all'”incubo”, Keynes scrive:
“Ci siamo cacciati in un pasticcio colossale: abbiamo preso un abbaglio nel tentare di controllare una macchina delicata, di cui non comprendiamo il funzionamento. Il risultato è che le nostre possibilità di ricchezza potrebbero andare sprecate per un po’ di tempo, forse per molto tempo”.
Oggi, per trovare la prova di tali “abbagli”, non dobbiamo cercare troppo lontano. Certo, c’è la depressione di cui parlava Keynes, ma si pensi, più di recente, alle politiche di austerità fiscale e monetaria che hanno causato e causano ancora notevoli sofferenze ai lavoratori, nell’errata ipotesi che “non esiste alternativa”. Tali misure di austerità (e persino misure di liberalità monetaria, come gli interventi di quantitative easing, che hanno arricchito in modo specifico e deliberato parecchie persone), adottate da vari governi di vari Paesi in vari momenti, ma soprattutto a partire dagli anni Ottanta, hanno corrisposto all’ascesa delle politiche neoliberiste culminate nella crisi finanziaria globale del 2007-2008. In questo senso, la crisi finanziaria globale era una “crisi in attesa”: era inevitabile, ed era semplicemente una questione di tempo prima che il sistema crollasse, così come crediamo succederà con la prossima crisi.
Questo, naturalmente, solleva la discussione sul fatto che le politiche economiche derivate dalla teoria neoclassica, con la sua enfasi sul “mercato” come perno ideale dell’economia, trasformate in politiche pubbliche con privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni, tendono a favorire alcuni più di altri. Certo, tutte le politiche, anche quelle ispirate alle idee post-keynesiane, generano vincitori e vinti. Ma le politiche post-keynesiane cercano almeno di ridistribuire il reddito, la ricchezza e il potere, mentre quelle neoliberiste vogliono concentrarli nelle mani del minor numero possibile di individui.
Ovviamente, i nostri fratelli neoclassici sostengono che tali politiche di austerità sono necessarie per combattere l’inflazione, considerata un male economico e sociale: dobbiamo garantire un’inflazione bassa e stabile, partendo dal presupposto che questo è ciò che conta di più. Come non citare Joan Robinson, che scriveva che uno degli obiettivi dell’“economia tradizionale ortodossa era… uno schema per spiegare alla classe privilegiata che la loro posizione era moralmente giusta e necessaria per il benessere della società”1.
Eppure, ci aveva avvertito James Tobin in un brillante editoriale sul New York Times quasi cinque decenni fa, nel 1974, “l’isteria per l’inflazione può portare a politiche che mantengono il progresso economico ben al di sotto del suo potenziale”. In altre parole, per dirla con Keynes, l’austerità “fa parte di quei rimedi che curano la malattia uccidendo il paziente”. La lotta contro l’inflazione, a tutti i costi e molto probabilmente sulle spalle dei lavoratori, è diventata un grido di battaglia accettabile per le élite benestanti, dato che l’inflazione sgonfia il valore reale della loro ricchezza.
La lotta contro l’inflazione, per essere chiari, aumenta la ricchezza dei rentier e allo stesso tempo riduce il tenore di vita dei lavoratori creando disoccupazione. Ciò riecheggia, o meglio parafrasa, le parole rivoluzionarie di Madame Roland, nella Francia del XVIII secolo: “Inflation, que de crimes on commet en ton nom!2“.
Alla luce di tutto ciò, troviamo strano che i post-keynesiani e gli economisti eterodossi abbiano criticato la teoria e le politiche neoclassiche, ma si siano fermati di fronte a quella che riteniamo essere la domanda più importante e ovvia: dovremmo scomodarci a insegnare l’economia neoclassica agli studenti universitari? Dovremmo semplicemente smettere di insegnarla?
Dopotutto, i fisici non insegnano la teoria della Terra piatta nei corsi universitari, né i modelli geocentrici dell’universo; la biologia non insegna il creazionismo. Queste teorie sono semplicemente sbagliate e non trovano spazio nell’insegnamento universitario, a meno che non siano l’oggetto di qualche scherzo di cattivo gusto. Allora perché gli economisti eterodossi continuano a insegnare l’economia neoclassica? In un blog del 2020, Tim Thornton della Boston University rispondeva così a questa domanda: “È importante, perché il modo in cui viene insegnata l’economia ha conseguenze che vanno ben oltre le mura universitarie: forma le menti della prossima generazione di politici, elettori e cittadini”.
La moralità dell’economia neoclassica
Conveniamo che l’economia neoclassica è sbagliata, che la teoria neoclassica non è rappresentativa del mondo reale e che le sue politiche possono essere disastrose. E queste ragioni da sole dovrebbero convincerci tutti a smettere di insegnarla agli studenti universitari. Probabilmente, molti di noi hanno avuto questa discussione con alcuni colleghi a un certo punto della loro carriera. Stiamo davvero facendo del bene ai nostri studenti insegnando loro qualcosa di sbagliato?
Secondo noi, però, bisogna considerare anche qualcosa d’altro: l’etica (o la moralità) dell’economia neoclassica – un tema sempre più diffuso nell’ambito dell’economia eterodossa, esemplificato, ad esempio, dal recente libro di Negru, Duckworth e Meyenburg. Come spiegano i curatori nell’introduzione al libro, nell’economia neoclassica “l’etica non trova posto” – facendo eco alla conclusione di Joan Robinson, nel 1978, secondo cui nell’economia neoclassica “il problema morale è abolito”. Per noi, questa è forse la ragione più importante per smettere di insegnare l’economia neoclassica: l’economia neoclassica è priva di empatia. Se questo sia in qualche modo importante rivela molto su chi risponde.
In tale contesto, cosa insegniamo esattamente agli studenti quando ci affidiamo all’economia neoclassica? Al di là delle solite critiche sui presupposti irrealistici, quali valori stiamo inculcando ai nostri studenti? Insegnando la micro o la macroeconomia, diciamo agli studenti che l’homo oeconomicus è governato dall’interesse personale, che ciò che conta è il perseguimento della propria utilità; che la società va meglio se ignoriamo tutti gli altri (trascurando l’ipotesi irrealistica dell’assenza di classi sociali, ovviamente) e se facciamo solo ciò che pensiamo sia bene per noi. Affidarsi a qualcun altro o prendersene cura porta a “quei banali e burocratici strumenti di coercizione, tassazione confiscatoria, nazionalizzazione e regolamentazione oppressiva”, come proclamò una volta Margaret Thatcher (citata qui).
In altre parole, insegniamo agli studenti che il perseguimento dell’interesse personale è la strategia ottimale per la crescita economica e che in realtà l’empatia è dannosa per il benessere della società. Come scrive Annett:
“Il paradigma etico dell’economia neoclassica è incentrato sull”homo economicus’, spinto dall’interesse personale a cercare la massimizzazione delle preferenze materiali soggettive, che risulta essere realizzabile (sotto ipotesi altamente restrittive) attraverso mercati competitivi”3.
Di conseguenza, come scrive Morris Altman, “un assunto di fondamentale importanza nell’economia convenzionale o neoclassica è che comportarsi in modo etico è molto probabilmente dannoso per l’economia”4.
Un famoso sociologo americano, Amitai Etzioni, ha studiato gli effetti che l’insegnamento dell’economia (neoclassica) ha sugli studenti, in uno studio intitolato “The Moral Effects of Economic Teaching”5. Si è chiesto se gli studenti “moralmente sviliti”3 fossero portati a studiare economia mediante un qualche processo di autoselezione, o se l’insegnamento dell’economia neoclassica contribuisse a questo svilimento. Conclude l’autore:
“Gli studi rilevano che gli economisti e gli studenti di economia hanno maggiori probabilità di mostrare una serie di comportamenti e atteggiamenti morali ‘sviliti’… Il fatto che anche un solo corso di economia neoclassica possa rendere le persone meno responsabili dal punto di vista morale può riflettere il fatto che il corso si limita a rafforzare le inclinazioni preesistenti verso tale posizione”.
In un mondo sempre più dominato dalla finanza e dall’avidità, le conseguenze sono fin troppo preoccupanti. Siamo semplicemente arrivati ad accettare l’avidità, come spiega Julie Nelson?
“L’immagine della vita economica come intrinsecamente caratterizzata dall’interesse personale, dalla massimizzazione dell’utilità e del profitto e dalla controllabilità meccanica ha fatto sì che molti imprenditori, giudici, sociologi, filosofi, politici, critici dell’economia e il pubblico in generale siano giunti a tollerare l’avidità e l’opportunismo, o addirittura ad aspettarseli o a incoraggiarli”6.
Ciò è in linea con le conclusioni di Gintis e Khurana7, che sottolineano apertamente come la teoria neoclassica abbia “corrotto” la categoria e la società. Per non parlare della lunga lista di litanie elencate da William Black. Mentre Alain Parguez una volta descrisse l’economia neoclassica come “l’esercito intellettuale di riserva della classe dirigente che gode di una grande quota dei profitti aggregati, come la burocrazia statale di alto livello”.
Oggi l’economia neoclassica è molto meno in grado di integrare l’etica al suo interno, soprattutto a causa di una maggiore dipendenza dai modelli e dalla sofisticazione matematica, che rafforzano l’idea dominante dell’homo oeconomicus. Dopo tutto, qual è l’equazione matematica di un comportamento etico?
Il linguaggio dell’economia
A questo punto, prima di concludere, lasciateci menzionare quella che è invece una buona ragione per continuare a insegnare l’economia neoclassica agli studenti universitari. Si dice che, senza conoscerla, gli studenti non riuscirebbero a trovare lavoro. Il mondo in cui viviamo è dominato dall’economia neoclassica e, per trovare lavoro, gli studenti devono parlarne la lingua.
Dopo tutto, diranno i detrattori, la teoria della Terra piatta, i modelli geocentrici e il creazionismo non sono il pensiero dominante nelle scienze. Quindi, non insegnarli non pone gli studenti in una posizione di svantaggio. Ma in economia dobbiamo essere pragmatici e quindi occorre insegnare l’economia neoclassica.
Rimaniamo fedeli a quello che Joan Robinson diceva riguardo all’importanza di imparare l’economia “per non essere ingannati dagli economisti”. In tal senso, è nostra responsabilità riconoscere che il mondo reale è fatto, a torto o a ragione, di un’economia neoclassica che “si ramifica… in ogni angolo della nostra vita”, per parafrasare Keynes.
Per questo motivo, dobbiamo insegnarla, ma solo per confutarla, per rendere gli studenti consapevoli di ciò che vi è di sbagliato ed estraneo al funzionamento dei mercati. Quindi, occorre fare una distinzione: se è vero che i mercati non seguono le leggi dell’economia neoclassica, il mondo è però dominato dalla sua pratica. Gli specialisti del governo, i politici, i banchieri e i professori preferiscono ignorare questa linea di separazione. Ma sono proprio questa consapevolezza e questa distinzione che dobbiamo insegnare ai nostri studenti.
Conclusione
In conclusione, sosteniamo e appoggiamo pienamente l’idea che dovremmo a tutti i costi evidenziare le fallacie dell’economia neoclassica. In tutta onestà, non stiamo facendo del bene ai nostri studenti quando insegniamo loro il self-interest e quanto il mondo sia migliore se si pensa solo a se stessi. Come ha scritto John King, la teoria neoclassica è semplicemente sbagliata e, dal momento che domina il mondo in cui viviamo, dobbiamo confutarla a tutti i costi, per poi insegnare agli studenti a prendersi cura: dell’altro, del pianeta, delle “possibilità economiche per i nostri nipoti”, come ci disse Keynes.
Keynes ci disse anche che:
“Il bravo economista deve possedere una rara combinazione di talenti… Deve essere matematico, storico, statista, filosofo – in una certa misura. Deve capire i simboli ed esprimersi con le parole.
Deve contemplare il particolare, in termini di generale, e toccare l’astratto e il concreto nello stesso lampo di pensiero. Deve studiare il presente alla luce del passato per i progetti del futuro.
Nessuna parte della natura dell’uomo o delle sue istituzioni deve essere completamente estranea alla sua attenzione. Deve essere propositivo e disinteressato allo stesso tempo, distaccato e incorruttibile come un artista, ma talvolta vicino alla terra come un politico”.
Questo ci sembra ancora più urgente in un’epoca di policrisi: cambiamento climatico/problemi ecologici, disuguaglianza sociale ed economica/povertà, instabilità finanziaria, disuguaglianza di genere, crisi del debito delle famiglie, crisi dell’edilizia sociale, crisi dell’insicurezza alimentare, guerre e conflitti geopolitici, problemi etici e così via. Se è impossibile prosperare con le strategie derivate dalla teoria neoclassica, insegnandola diventiamo complici delle crisi di cui tanto parliamo.
Dobbiamo ora andare oltre la sfera dell’economia e proporre nuovi modi di pensare alle crisi. A nostro avviso questo obiettivo può essere raggiunto solo considerando la società e gli individui insieme. Qualcosa che è semplicemente al di là delle capacità degli economisti di formazione neoclassica, forse più adatti a rimanere degli apprendisti stregoni.
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Aggiornamento dell’11 dicembre 2023: il sommario dell’articolo è stato modificato per meglio rispecchiare il messaggio del testo.
La versione attuale recita: “Dobbiamo insegnarla, ma solo per confutarla, per rendere gli studenti consapevoli di ciò che vi è sbagliato ed estraneo al funzionamento dei mercati. Occorre fare una distinzione: se è vero che i mercati non seguono le leggi dell’economia neoclassica, il mondo è però dominato dalla sua pratica. Gli specialisti del governo, i politici, i banchieri e i professori preferiscono ignorare questa linea di separazione. Ma sono proprio questa consapevolezza e questa distinzione che dobbiamo insegnare ai nostri studenti”.
La versione originaria recitava: “Se vogliamo rimanere fedeli al nostro intento di seguire la rivoluzione di Keynes, l’unica conclusione a cui si può giungere da una prospettiva post-keynesiana o eterodossa è smettere di insegnare l’economia neoclassica. Punto e basta. Rendiamo un servizio migliore ai nostri studenti insegnando loro come funziona il mondo reale”.
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