Asia: nuovi caccia cinesi al Pakistan. Pechino e Islamabad sempre più vicine
da ANALISI DIFESA (Fabrizio Scarinci)
Islamabad. Alcune settimane fa il governo pakistano ha deciso di equipaggiare le proprie forze aeree con 25 caccia cinesi di quarta generazione J 10CE.
Sviluppati in anni recenti dalla ditta Chengdu, tali velivoli, di cui il Pakistan diventerà il primo utilizzatore a livello mondiale, costituiscono la “sotto-variante” da esportazione del caccia multiruolo J 10C, ovvero l’ultima e più avanzata evoluzione della cosiddetta famiglia dei “Firebirds”, di cui fanno parte anche il più anziano J 10A, la sua sotto-variante da conversione operativa J 10S, quelle imbarcate J 10AH e J 10SH, e il relativamente più moderno J 10B, equipaggiato con nuove contromisure elettroniche, un IRST e, volendo, anche un radar di tipo AESA.
Tra i maggiori punti di forza del J 10C, il cui progetto deriva direttamente da quello del J 10B, figurano un’avionica più avanzata rispetto a quella dei suoi predecessori e la possibilità di utilizzare il nuovo missile aria-aria a guida radar attiva PL-15, che, con un raggio d’azione forse anche superiore ai 300 Km risulta particolarmente indicato al fine di neutralizzare target normalmente collocati a grande distanza come AWACS e aviocisterne.
Per quanto riguarda, invece, i velivoli acquistati da Islamabad, stando alle poche informazioni disponibili, essi dovrebbero incorporare solo una parte delle caratteristiche appena elencate. Non diversamente da quanto accade con altri mezzi pensati per l’export, infatti, è probabile che anche i J 10CE siano stati progettati per l’utilizzo di sensori e sistemi d’arma di tipo parzialmente “degradato”.
L’introduzione di tali piattaforme si inserisce in pieno nel percorso di ammodernamento intrapreso alcuni anni orsono dalle forze aeree pakistane, che ha comportato anche l’acquisto di 18 F 16C Block 52+ dagli Stati Uniti (entrati in linea a partire dal 2010) e lo sviluppo, sempre in collaborazione con la cinese Chengdu, del multiruolo “leggero” di quarta generazione JF 17 “Thunder”, già in servizio in 134 esemplari su un totale di 188 complessivamente ordinati.
Ad oggi, queste macchine costituiscono certamente la punta di diamante della Pakistan Air Force, che per il resto, almeno con riferimento alla sua prima linea da combattimento, si compone ancora di un variegato insieme di mezzi obsoleti e decisamente poco adatti alle esigenze poste in essere dai moderni scenari operativi, tra cui 67 F 16 ADF (acquistati dagli USA ai tempi dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan), 56 Mirage III forniti dalla Francia sul finire degli anni 60, 69 Mirage V introdotti negli anni 70 e alcune decine di J7 Skybolt acquistati dalla Cina a partire dal 1988.
Per i vertici pakistani, sostituire il più rapidamente possibile i mezzi appena elencati rappresenta sicuramente un obiettivo di primaria importanza, tanto più in ragione della necessità di mantenere un accettabile livello di deterrenza nei confronti delle “rivali” forze aeree indiane, che, pur disponendo anch’esse di un inventario parzialmente obsolescente (come nel caso dei 130 cacciabombardieri anglo-francesi SEPECAT Jaguar e dei 128 MiG 21 ancora in servizio), risultano comunque in possesso di qualcosa come 260 Sukhoi Su-30 MKI (che presto supereranno le 300 unità), 36 Rafale, 45 Mirage 2000 modernizzati, svariate decine di MiG 29 in fase di aggiornamento (a cui si sommano i 36 MiG 29K in dotazione alla Marina) e 24 esemplari (su oltre cento ordinati) del pur non troppo esaltante caccia multiruolo locale Tejas, senza contare l’imminente arrivo dei nuovi potentissimi sistemi superficie-aria S 400 Triumph a protezione del loro spazio aereo nazionale.
In tale contesto, l’arrivo dei 25 J 10CE commissionati nelle scorse settimane e degli ultimi 50 JF 17 fornirà sicuramente un valido contributo alla sostituzione di svariate decine di mezzi più anziani, conferendo all’aeronautica pakistana notevoli vantaggi sia a livello gestionale che in ambito operativo.
L’introduzione di tali velivoli fornisce, inoltre, l’ennesima dimostrazione di quanto sia Pechino che Islamabad conferiscano, oggi, un’enorme importanza al mantenimento (e, forse, anche ad un ulteriore approfondimento) della loro storica cooperazione in ambito strategico.
Nata nel corso degli anni 60 allo scopo di bilanciare l’avvicinamento dell’India all’Unione Sovietica (e notevolmente facilitata dal successivo “rapprochement” sino-statunitense), la partnership tra Cina e Pakistan ha, infatti, consentito a Pechino di acquisire un importante alleato contro Nuova Delhi e a Islamabad di approfittare per diversi decenni della sottile forma di competizione progressivamente instauratasi tra cinesi e statunitensi (questi ultimi già da tempo alleati del Pakistan) al fine di ottenere (o mantenere) il ruolo di “maggiore referente” geopolitico del Paese.
Tale triangolo strategico, grazie al quale Islamabad riuscì, nel corso del tempo, ad ottenere notevoli quantitativi di armi ed equipaggiamenti, sarebbe, però, entrato in crisi (almeno per quanto concerne le relazioni pakistano-statunitensi) negli anni immediatamente successivi alla fine della Guerra fredda, allorché le varie Amministrazioni succedutesi da quel momento in poi alla Casa Bianca assunsero un atteggiamento sempre più critico (arrivando anche ad imporre sanzioni) sia riguardo al programma nucleare pakistano, sia riguardo agli ambigui rapporti intrattenuti dai servizi segreti del Paese con alcune organizzazioni terroristiche.
Durata ininterrottamente per tutti gli anni 90, questa lunga crisi sarebbe stata momentaneamente messa in secondo piano solo in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, quando, pressato dall’Amministrazione Bush, il governo del generale Pervez Musharraf accettò di collaborare con gli Stati Uniti nell’ambito della Guerra al terrorismo, fornendo alcune basi e supportando logisticamente le forze della coalizione presenti nell’area.
In cambio di questo sostegno Washington revocò le sanzioni, elargì alcuni aiuti economici ed inserì Islamabad tra i cosiddetti “Major non-NATO allies”, rendendo il Paese nuovamente idoneo all’acquisto di tecnologie militari avanzate prodotte negli USA (da qui la vendita dei già citati F 16 Block 52+).
Nondimeno, gli ambigui rapporti intrattenuti dal Pakistan (o da alcuni segmenti del suo apparato di sicurezza) con le varie organizzazioni terroristiche appartenenti alla galassia dell’estremismo jihadista non sarebbero cessate, e quando, nel 2011, gli statunitensi scoprirono la presenza del leader di Al Qaeda Osama Bin Laden nella località pakistana di Abbottabad, lo pseudo-rapporto di fiducia faticosamente ripristinato nei primi anni 2000 risultò nuovamente compromesso.
Ciononostante, nel corso degli ultimi decenni non è certo stato il Pakistan il maggiore problema di Washington. Come noto, infatti, a partire dagli anni 90 la Cina ha sperimentato una crescita economica senza precedenti, trasformandosi da Paese arretrato qual’era in una potenza estremamente assertiva e potenzialmente in grado di minacciare il primato statunitense a livello globale.
Al fine di contenere la sua ascesa (particolarmente minacciosa per alcuni dei suoi vicini) Washington ha dovuto, per forza di cose, archiviare la lunga stagione di cooperazione seguita al riavvicinamento degli anni 70 ed elaborare alcune contromosse, come, ad esempio, quella di provvedere ad un significativo rafforzamento della propria presenza nell’indo-pacifico.
In tale contesto, i vertici politico-militari statunitensi hanno iniziato a guardare con un certo interesse anche all’India, storico avversario della Cina che, malgrado il suo persistente legame con Mosca (che dal canto suo risulta sempre più vicina a Pechino), potrebbe rivelarsi molto utile nel contribuire all’accerchiamento strategico della Repubblica Popolare.
Naturalmente, però, questo (quasi inedito) avvicinamento si è anche accompagnato con un ulteriore (e, probabilmente, definitivo) distacco del Pakistan dalla sfera d’influenza statunitense, che i cinesi intendono sicuramente sfruttare al fine di avvalersi di Islamabad sia contro Washington che contro Nuova Delhi.
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