Vladimir Putin in ottobre compirà 70 anni e, anche a prescindere da come finirà la guerra, non sarà Presidente o Primo Ministro per sempre. Le recenti riforme costituzionali gli permetterebbero di farsi rieleggere per altri due mandati, fino al 2036, ma sembra probabile che una transizione avvenga prima di quella data. Guardando all’ultimo secolo e passa della storia russa, è difficile trovare un esempio della transizione di potere che Putin vorrebbe idealmente portare a compimento. Una transizione in cui possa ritirarsi a vita privata o a un ruolo cerimoniale mentre è ancora popolare e in grado di scegliere un successore che porti avanti il suo corso politico. Gli ultimi leader russi, o sono morti in carica – Lenin, Stalin, Brezhnev, Andropov, Chernenko – o sono stati sfiduciati, rovesciati o cacciati – Nicola II, Kruschev, Gorbachov, Eltsin. Il modello più simile a una transizione ideale dal punto di vista del leader è quello di Eltsin, che però si dimise con la fiducia del popolo russo intorno al 2% e probabilmente ebbe poca influenza sugli sviluppi successivi. Putin dovrà quindi costruire un suo modello, sfidando le costanti della storia russa che non sono molto più clementi, se si va indietro nel tempo.
Come primo caso, prendiamo in esame uno scenario in cui Putin riesce ad ottenere una transizione “morbida”. In questa prospettiva, Putin potrebbe scegliere di non ricandidarsi nel 2024 o nel 2030 – o di ritirarsi a vita privata nel 2036 – selezionando, come Eltsin, un delfino della sua cerchia. Ma qual’è la “sua cerchia”? Il filosofo (erroneamente individuato in Occidente come il suo ideologo) Aleksander Dugin, in Geopolitika Rossii e Putin vs Putin la descrive dividendola principalmente in due anime. Il sistema di potere di Putin è nato da un compromesso tra l’area liberista e atlantista eltsiniana – i “ragazzi di San Pietroburgo” – composta da avvocati, accademici, economisti, oligarchi; e l’area nazionalista e statalista dei “cekisti” o “siloviki“, coloro che provengono dalle forze di sicurezza sovietiche (in particolare dal KGB) o che hanno forti legami con le forze armate e i servizi post-sovietici. Questo compromesso ha portato i primi ad adattarsi a posizioni nazionaliste e sovraniste in politica estera, e i secondi ad adattarsi a politiche liberiste in campo economico.
I due gruppi, nel ventennio putiniano, sono andati via via fondendosi, ma sono ancora individuabili, a partire dai due uomini ad oggi più vicini a Putin: del primo fa parte il ministro degli esteri Sergey Lavrov, originariamente proveniente da un think-tank atlantista; del secondo il ministro della Difesa Sergei Shoigu. Entrambi questi uomini, però, hanno più o meno la stessa età di Putin e questo, in quanto papabili successori, non gioca a loro favore. Al massimo potrebbero presiedere un periodo di transizione.
Putin, nel tempo, ha anche costruito una base di supporto personale, sia presso la popolazione sia all’interno delle istituzioni. Di quest’ultimo gruppo fanno parte il vero ideologo del putinismo, Vladislav Surkov, per sette anni direttore dell’amministrazione presidenziale (forse oggi uscito dalle grazie del Presidente) e Mikhail Mishustin, primo ministro dal 2020, 56 anni, un ex burocrate dell’amministrazione presidenziale. Gli eventi degli ultimi 15 anni, a partire dalla guerra in Georgia, e in particolare la guerra in Ucraina, hanno senza dubbio rafforzato il secondo gruppo rispetto al primo. La sempre più serrata competizione geopolitica con la NATO, ha portato in primo piano le questioni militari e di sicurezza nazionale, mentre il decoupling economico dall’Occidente ha portato all’alienazione degli oligarchi e alla nascita di nuove ipotesi di nazionalizzazione. La più eclatante – e francamente divertente – è quella di McDonalds, trasformato in Zio Vanya dopo che la multinazionale americana ha smesso, a causa della guerra, di operare in Russia.
A oggi possiamo quindi immaginare che Putin sceglierebbe un successore quantomeno gradito ai siloviki, magari un Signor Nessuno come fu lui al momento dell’ascesa al potere sotto l’ala di Eltsin nel 1999. Magari qualcuno di cui anche i cremlinologi più esperti hanno a malapena sentito parlare. Sicuramente questa tendenza non è sfuggita a Dmitry Medvedev, l’ex Presidente russo che fece staffetta con Putin dal 2008 al 2012. Medvedev, attualmente vicepresidente del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, ragazzo di San Pietroburgo per antonomasia, è stato ritenuto fino a ora un putiniano moderato. A ragione, viste le sue aperture verso l’Occidente e una guerra in Georgia condotta, obiettivamente, con il freno a mano tirato.
Ultimamente, però, si sta visibilmente riposizionando in senso nazionalista. Hanno avuto risalto, nell’ultimo mese, la sua risposta alla “dichiarazione di guerra economica” della Francia e il suo op-ed contro la Polonia. Riuscirà ad accreditarsi presso i siloviki? Difficile dirlo, sicuramente l’età è un fattore che gioca a suo favore ed è già conosciuto dalla popolazione russa. Anche se secondo i sondaggi, sebbene abbia goduto di un alto livello di approvazione come Presidente, il suo ultimo periodo da primo ministro è stato poco gradito dai russi[2].
Come ulteriore ipotesi è anche possibile che Putin, soddisfatto dell’architettura costituzionale russa che lui stesso ha creato, lasci campo libero alla competizione elettorale tra i partiti che supportano la politica estera del Cremlino: in primis Russia Unita – il partito di Putin – ma anche il Partito Comunista, il Partito Liberal-Democratico, Russia Giusta e altri. Particolarmente interessante in questo caso, se l’attuale trend geopolitico dovesse continuare, sarebbe un ritorno al potere dei comunisti (al momento sono la seconda forza politica del Paese) che, forse, potrebbero godere dell’appoggio del sempre più vicino alleato cinese. Forse, perché è anche possibile che i cinesi, per accentuare la penetrazione economica in Russia, potrebbero essere contrari a politiche di statalizzazione dell’economia russa.
Se già uno scenario di transizione ordinata appare così intricato e imprevedibile, uno scenario di transizione disordinata lo sarebbe ancor di più. Molte cose potrebbero succedere: la Russia potrebbe ritirarsi rovinosamente dall’Ucraina, Putin potrebbe subire la sua personale rivoluzione d’ottobre (o il suo putsch di agosto), magari qualcuno potrebbe addirittura pensare di eliminarlo fisicamente. In questi casi bisognerà vedere se i servizi di sicurezza e le forze armate riusciranno a gestire la situazione e muovere gli eventi sotto il loro controllo, oppure se si realizzeranno scenari di rivoluzione, caos e forse anche balcanizzazione con conseguente fine della Russia come la conosciamo. Gli esiti sarebbero totalmente imprevedibili.
In questi scenari emergerebbero le frange più minoritarie e radicali dello spettro politico russo, tra comunisti rivoluzionari, nazionalbolscevichi, skinheads e infine l’opposizione atlantista di Navalny e del partito Yablokodi Grigorij Yavlinskij.Può sembrare strano che Navalny – sulla bocca di tutti in Occidente e insignito del “premio Sakharov” – sia menzionato così marginalmente, ma la realtà, al di là della repressione del Cremlino, è questa: ai russi Nvalny non piace, almeno per ora.
A prova di ciò basti guardare i sondaggi del Levada Centre [4] nel settembre 2020: l’82% dei russi sa chi è Navalny, ma di questi solo il 25% ne ha un’opinione positiva. Riguardo al suo avvelenamento, il 78% dei russi ne ha sentito parlare; di questi, solo il 33% crede che sia stato davvero avvelenato, il 26% della popolazione. Di questo 26%, solo il 30% pensa che sia stato Putin, e una parte di questi magari pensa che abbia fatto bene (questo non è stato chiesto nel sondaggio).
di Pietro Pinter
fondatore e curatore del canale Telegram Inimicizie
[1]https://letteradamosca.eu/2022/03/01/la-russia-e-isolata-si-ma-quanto/
[2]https://www.statista.com/statistics/1088544/russia-dmitry-medvedevs-approval-rating/
[3]https://www.lastampa.it/esteri/2022/03/22/news/guerra_ucrainarussia_se_uccidere_putin_e_l_unica_via_d_uscita-2878621/
[4]https://www.levada.ru/en/2020/11/02/alexey-navalny/
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