Le trappole della rete: l’illusione quantitativa
di Stefano D'Andrea
Ogni strumento apporta una utilità o crea una possibilità e al tempo stesso arreca danni o comunque cagiona perdite: l’esempio paradigmatico è il telefono, che quando venne introdotto consentì agevoli contatti con la persona lontana ma spinse ben presto ad abbandonare la scrittura di lettere: l’uomo che telefona non è necessariamente migliore dell’uomo che scrive lettere.
La rete di internet non si sottrae alla regola generale. Nessuno può contestare che la rete consente di reperire informazioni che altrimenti non avremmo avuto e di conoscere riflessioni che altrimenti non avremmo mai letto. La rete ha permesso, non soltanto in Italia, di organizzare partiti politici – è il caso del movimento cinque stelle o dei diversi partiti dei pirati. Perciò essa è anche mezzo organizzativo, oltre che mezzo di diffusione di informazioni e riflessioni estranee al pensiero unico (nelle due versioni di sinistra e di destra, comprese le varianti della sinistra e della destra radicali).
Tuttavia, queste indubbie potenzialità della rete non devono spingere verso il disinteresse per le trappole che la rete tende e nelle quali si cade facilmente.
La prima trappola consiste nell’indurre il navigante a credere che coloro che sono in possesso di una determinata notizia o che accolgono un preciso punto di vista morale o politico o una interpretazione storica o una proposta di politica economica siano molti di più di quanti sono effettivamente. La chiamerei la trappola dell’illusione quantitativa.
E’ una trappola che la rete tende per sua natura. Tutti i pesci che amano un determinato cibo, ossia tutti gli utenti che si interessano di alcuni temi o che vanno in cerca di posizioni eterodosse intorno a una certa materia – per esempio la sovranità monetaria, economica o politica o i temi connessi alla decrescita -, sono attirati, per il funzionamento di internet, in un preciso “luogo” o meglio tratto, più o meno ampio, della rete. Quanti sono i siti di “controinformazione” (uso una parola che non amo, soltanto in ragione della sua diffusione) o di “controriflessione” che occupano quel luogo? Tutto sommato sono pochi e comunque non molti. Accade così che un gruppo di siti o di pagine facebook sia frequentato in gran parte dalle medesime persone. Quindi un sito avrà mille contatti giornalieri, un altro duemila, un altro tremila e un altro ancora seimila; ma le persone che approfondiscono quotidianamente il tema principale di questo gruppo di siti non sono dodicimila (mille più duemila, più tremila più seimila), bensì sei o settemila al giorno e verosimilmente dieci-dodicimila a settimana.
Ma la trappola consiste in altro e segnatamente nel fatto che quei siti e quelle pagine facebook sono frequentati da pochissimi sostenitori della linea dominante. In calce agli articoli si accumulano commenti, talvolta a decine, tutti favorevoli a una nuova linea politica, a una deversa politica economica, a una diversa politica energetica, a una diversa collocazione geopolitica dell’Italia. Frequentando quotidianamente quei siti, nei quali si dileggiano e denigrano con strafottenza le concrete e reali decisioni o affermazioni di politici, economisti e giornalisti mainstream, si finisce per avere l’impressione di appartenere a una minoranza non così poco numerosa come si credeva. Non solo. Dinanzi al fatto che, sia pure lentamente, i siti di controinformazione e controriflessione aumentano e così pure i frequentatori di quei siti, si ha l’impressione di appartenere a un movimento politico in grande crescita o che comunque si sta diffondendo in misura maggiore di come effettivamente si va diffondendo.
La verità è che la rete aggrega e segrega; riunisce i pesci che amano un determinato cibo in un tratto di rete e così separa quei pesci dai tanti altri che si nutrono di altri cibi.
L’illusione quantitativa non riguarda soltanto il numero di persone che aderirebbero a una nuova dottrina e sosterrebbero politiche economiche alternative alla linea dominante, riguarda anche e soprattutto il livello di disperazione, di rabbia e di contestazione; la disponibilità a ribellioni, ad invadere piazze e città, a partecipare a occupazioni illegittime. Frequentando taluni siti o alcuni gruppi facebook si scopre che migliaia di persone scagliano quotidianamente offese, insulti, e frasi di rabbia contro i politici. Si ha come l’impressione che esistano centinaia di migliaia di ribelli. Si è indotti inizialmente a credere che coloro che si esprimono su quei siti siano rappresentativi di un modo di essere molto diffuso.
Tuttavia, quando fuori dalla rete si parla con le persone comuni, al bar, in incontri occasionali con vecchi amici, durante incontri lavorativi o professionali o sotto l’ombrellone, ci si avvede che al massimo una persona su cento rivela quella rabbia, quella perdita di controllo, quella volontà ribelle.
Coloro che parlano della crisi sono molti di più. Moltissimi commercianti, molti imprenditori, tutti i disoccupati e molti lavoratori precari. Salvo alcune eccezioni, non lo fanno tuttavia con ossessione. Nella maggior parte dei casi si tratta di uno degli argomenti di conversazione. Soltanto una parte degli ossessionati è persuasa che si debba uscire dalla crisi con scelte politiche innovative, che segnino un netto distacco dalle politiche fino ad ora seguite. Molti, infatti, sono convinti che il sistema si riprenderà tra qualche anno o magari tra un paio di anni; non pochi accettano l’idea che la crisi sia un costo da pagare e che poi si ripartirà. Alcuni dicono che la crisi farà bene, perché è nei momenti difficili che le persone di valore si fanno valere. Altri dichiarano di non capire le ragioni delle diffuse difficoltà economiche. Moltissimi sparano la sentenza risolutiva: se facessero pagare le tasse a tutti….; se licenziassero tutti gli statali che non lavorano…..; se eliminassero gli intralci burocratici…..; se abbassassero le imposte a un livello accettabile….. Si tratta di un gruppo molto nutrito, per il quale la soluzione è in fondo agevole, salvo il fatto che chi è al governo non avrebbe interesse a prenderla.
Ma le persone che, pur avvertendo una qualche perdita economica, o invece non subendo alcun effetto negativo della crisi, si disinteressano alla crisi e non parlano di euro e unione europea più di una volta, per venti minuti, ogni due settimane sono di gran lunga la maggioranza.
La rete è dunque utile per scoprire informazioni e riflessioni. Ma poi va utilizzata per uscirne: per organizzare un’associazione o movimento o partito di persone che militino nelle cittadine e nelle città italiane. Portare la “controinformazione” e la “controriflessione” fuori dalla rete è già militare. Organizzare volontà politiche collettive, che si esprimano e agiscano fuori dalle catacombe di internet, e che diffondano controinformazioni e controriflessioni al fine di fare proseliti ed ingrandire l’esercito dei militanti è ancora meglio. L’obbiettivo è sacrosanto ma non così facile da realizzare. La rete, infatti, tende un’altra trappola: dà la dipendenza. Ma di questa seconda trappola della rete discorreremo in un altro articolo.
infatti la prima fase della guerra di liberazione non è nè vinta nè persa, meglio orientarsi su altre considerazioni
non mi ricordo più chi scrisse che ogni epoca è rappresentabile con una tecnologia: il XVIII secolo con l' orologio meccanico, il XIX con il treno, il XX con il computer molteplice che si fa network, nel XXI probabilmente saranno le biotecnologie
"non ho mai visto mezzi che non siano anche fini!" disse un filosofo, da questo punto di vista l'universalizzazione virtuale del network va di pari passo con la gabbia d'acciaio del solipsta, che, come nota Stefano, casca nella trappola gnoseologica: ho l'informazione, mi può bastare. invece non basta.
Altrecorrispondenze,
ovviamente sono d'accordo, forse anche sul fatto che la prima fase della guerra di liberazione non è vinta ma non è persa. Comunque, è un dato di fatto che certi temi certi problemi e certe parole d'ordine, non soltanto hanno avuto una certa diffusione nella rete ma si sono affacciate fuori di essa. Bagnai ha un blog su il fatto quotidiano; Paolo Becchi sostiene le posizioni su Libero; entrambi assieme ad altri, come Borghi, hanno avuto modo di parlare in TV; in fondo si sono aggiunti ad Ida Magli; Brancaccio è approdato, sia pure per le vie tortuose della politica (non vuole essere una critica, bensì una presa d'atto che si tratta oltre che di un validissimo studioso di un coerente uomo di partito, che cerca di traghettare quest'ultimo e non lo abbandona) alla fuoriuscita dall'euro, con tutti i corollari – e anche Brancaccio va in tv e talvolta interviene su qyuotidiani di rilievo nazionale; Barnard e gli studenti della MMT vogliono tutti la riconquista della sovranità; essi hanno già cominciato un diffuso lavoro di informazione nelle città italiane e il 21 ottobre organizzeranno una seconda riunione nazionale di MMT; noi dell'ARS abbiamo in programmazione già sei convegni o conferenze in città italiane e credo che ben presto ne metteremo in cantiere altre sei; per il bene comune svolge attività simile alla nostra; Luigi Cavallaro concede un'intervista a "oltre la crisi", che ha avuto notevole diffusione (anche se sul web), nella quale sostiene la tesi dell'assoluto contrasto tra Costituzione e trattati europei; gli economisti che hanno scritto oltre l'austerità sono andati ben oltre la famose "lettera degli economisti". Insomma, tutto questo tre anni fa non c'era;eravamo quattro gatti, guardati anche con sospetto. Ora non siamo più quattro gatti e alcuni si sono conquistati il diritto di tribuna fuori dal web. Se non è una vittoria è comunque un bel passo avanti e induce a perseverare.
lo stato dei fatti lo vedo diverso
occorre perseverare nella critica, a mio avviso, renderne più acuminate le armi, e sotto questo punto di vista invece il discorso – dalla Grecia, quindi da 2 anni- si è addirittura arenato
come ho già qui detto l'assunzione dello spazio nazionale come unico spazio possibile per qualsiasi politica economica sociale è una reazione, una reazione meccanicamente, come tutte le reazioni, acritica e che ha bisogno urgentemente di sviluppo teorico, pena dare retta a tanto redivivo stalinismo/statalismo ( fatto non a caso spesso da economisti) di cui non sentivo la mancanza
per conto mio mi piaceva l'ipotesi comunitarista (le tante ipotesi comunitariste che girano), ma anche questa mi pare che si sia insabbiata nelle secche della contingenza politica e dell'indigenza teorica, dovendo rispondere nell'immediato a fenomeni ancora da capire sia nelle ricadute sia nella sostanza
dare retta a tanto redivivo stalinismo/statalismo…
Non capisco la necessità di accostare lo stalinismo (di cui nessuno sente la mancanza) allo statalismo, ovvero alla necessità che lo Stato si faccia garante dell'interesse della popolazione invece di lasciare che sia il Mercato a decidere cosa e come.
L'articolo di Stefano è ben scritto e articolato e dice che ciò che manca non è l'impulso propositivo (che degenera facilmente nel populismo) ma l'organizzazione. La rete (presenza nella virtualità) contro la presenza in luogo, fisica.
la parola chiave del mio commento è "a/critica", senza critica per me non si potrà riproporre la comunità politica nazionale, a cui non sono ideologicamente ostile
In Italia stalinismo del PCI e statalismo democristiano sono andati a braccetto per un bel pezzetto, con incontestabili quanto congiunturali meriti in termini di modernizzazione ed arricchimento del paese, ma, ad un livello più sostanziale, mi pare difficile sostenere che l' emancipazione finisca lì, nel senso sostenuto allora correttamente, per forza di cose, solo da rarissimi intellettuali
entrambi, stalinismo e statalismo, erano -come si ricorda- programmaticamente a sovranità limitata perchè entrambi articolazioni del Capitalismo keynesiano, la sola realtà che non si poteva contestare nel merito. Se poi sono stati sostituiti dal liberismo nella versioni falco o colomba, questo non fa venire meno la loro funzione che prima o poi verrà consegnata alla storia del novecento e non riproposta, neppure nella versione di socialismo sotto il capitalismo. Alcune magagne di allora sono, trasformate, quelle che ci troviamo di fronte oggi.
il post di Stefano è ben scritto, ho cercato di ampliarlo, non gli è piaciuto l'appunto sulla guerra delle parole, ma era un dettaglio. ho colto allora l'occasione per parlare di un altro aspetto della realtà politica che mi preme
altre corrispondenze,
consentimi una domanda. Secondo te, tra le esperienze storiche, dove e in che periodo si è stati più vicini a una società socialista o meno lontani da essa?
l'uomo non è ancora uomo ! il processo è però in atto
Così però sfuggi. E siccome sei acuto, sai che questa fuga non è dovuta a labilità ma ad acutezza. Infatti, se non riesci nemmeno ad affermare che una esperienza storica è stata meno lontana dal tuo ideale rispetto alle altre, è chiaro che, secondo te, le concrete esperienze storiche sono macchiate dall'uomo, che le ha rese tutte lontanissime anni luce dall'ideale del mondo nuovo. E perché il processo sarebbe in atto? Perché l'uomo sta migliorando? No. Perché le condizioni materiali starebbero peggiorando (suppongo), spingendo verso la una rivoluzione dei rapporti materiali che genererebbe la attesa catarsi.
Tanto acume dentro una visione religiosa? Non c'è niente di male, basta essere chiari.
una cosa alla volta