Il Mediterraneo e l’Italia. Dall’utopia del mare nostrum alla realtà della centralità comprimaria
di NUOVA RIVISTA STORICA (Luca Riccardi)
Qual è il rapporto tra Italia e il mare che la circonda che, lungo la storia, talvolta l’ha abbracciata, in altri momenti l’ha fatta sentire prigioniera? Oppure il Mediterraneo è stato il veicolo attraverso cui ha realizzato incontri e contaminazioni che l’hanno fatta divenire quello che è oggi? Sono domande, probabilmente superficiali, che si pone il lettore quando si accosta al nuovo volume di Egidio Ivetic Il Mediterraneo e l’Italia. Dal mare nostrum alla centralità comprimaria, edito da Rubbettino Editore nella performante collana dritto/rovescio nata da un’idea di Eugenio Di Rienzo e da lui diretta.
Le risposte che si trovano nel libro appaiono tutte convincenti poiché sono tratte dalla storia, anche la più antica, dell’Italia. Ivetic, infatti, non guarda alla vicenda della Penisola con lo sguardo deterministico di chi l’ha osservata in funzione degli avvenimenti otto-novecenteschi che hanno portato alla sua, in realtà non sempre e non da tutti, sospirata unità politico-istituzionale. L’autore la colloca in un orizzonte diverso, come quello mediterraneo, in quanto luogo che genera storia autonomamente dalle sue componenti nazionali. Ivetic ci ha abituato alle sue incursioni sui terreni più accidentati della storia europea come l’Adriatico, i Balcani e lo stesso Mediterraneo. Queste sono aree dove la storia dell’umanità si è manifestata in maniera poco lineare. La confusione tra lingue, etnie, Stati, Imperi, religioni è prodotta in quantità massiccia più di quanto quelle stesse regioni possano digerirne, come disse Churchill parlando del groviglio balcanico. Non c’è dubbio, però, che il Mediterraneo non possa essere considerato una parte accessoria della storia italiana. In realtà la storiografia ha spesso accantonato quel surplus di vicenda umana originaria del Mediterraneo che rappresenta una porzione importante dell’italianità così come ha preso forma nel corso dei secoli. Ivetic si pone il problema del tempo storico. Quello del Mediterraneo, a suo parere, non è uniforme ma «è un insieme di tempi storici diversi, di calendari diversi». In questo senso va compresa la centralità dell’Italia nella più vasta vicenda mediterranea. L’Italia appare –non è banale dirlo- terra di frontiera tra «due quadri generali» che, nel senso più lato, possono essere intesi come quello europeo-continentale e quello marittimo.
Non è un caso che le più importanti esperienze statuali autoctone che videro la luce sulla penisola, a cavallo tra basso medioevo ed età moderna, furono le Repubbliche marinare, soprattutto le più durature come Venezia e Genova. Nella loro esistenza, così poco «italiana» e nazionale, si affacciarono quei complessi rapporti tra economia e politica, tra Stati e imperi, tra commercio e potenza militare, tra diplomazia ed espansionismo che videro la loro definitiva maturazione nell’età contemporanea anche nel grande spazio mediterraneo. Essi divennero una componente, talvolta però molto particolare, del processo unitario italiano inteso non solo come iniziativa di ordine politico, ma come complesso patchwork di cultura, istituzioni, attitudini militari di statualità di matrice diversa. Ivetic osserva acutamente come la «mediterraneità» non sia sempre stata centrale nello sviluppo politico-sociale del conglomerato italiano. Nel Settecento – e su questo si rifà ai più raffinati studi su quel periodo- esso conobbe un vero e proprio «tracollo mediterraneo» che si trascinò anche nei decenni successivi.
La costruzione dello Stato unitario italiano guardava l’Europa. Ecco emergere nuovamente quell’aspetto dell’Italia come frontiera tra Continente e mare. Cavour – pur non dimenticando l’Adriatico e il Mediterraneo, l’aveva appreso da Balbo e Gioberti – guardava alla Francia e alla Gran Bretagna. Grandi Stati nazionali che stavano divenendo potenze ultra-continentali grazie al sapiente intreccio tra modernità capitalista e democrazia liberale borghese. La Francia era anch’essa intrisa di mediterraneità. Così centroeuropea quando si affacciava sul Reno; ma anche così mediterranea quando costruiva un’esperienza coloniale nel Nordafrica cercando di renderlo un secondo midi, anche se complicato dal rapporto non sempre felice con la profonda diversità islamica. La Gran Bretagna, invece, marittima ma non mediterranea, si affacciò sul Mediterraneo e, dall’Ottocento, ne divenne la padrona quasi incontrastata. Ne possedeva le chiavi, ma non ne condivise mai lo spirito e le mentalità. Questo nonostante –sono solo alcuni esempi- l’amicizia per la Grecia, le sue propensioni orientalistiche per gli arabi e il suo filo-semitismo d’inizio Novecento.
Tuttavia il Mediterraneo è stato una componente decisiva dello sviluppo unitario italiano. L’eredità delle marinerie –veneziana, genovese, napoletana – ma anche – Ivetic lo nota molto acutamente- Trieste: essa non fu solo un centro propalatore di irredentismo italiano; ma anche una «piccola Vienna sul mare», una terrazza asburgica che si affacciava sull’apice nord orientale del Mediterraneo che mutuava la sua efficienza capitalista dalla Londra capitale finanziaria del mondo. Una felice sintesi che, però, nella nuova Italia unita fece fatica a trovare la sua giusta dimensione. Una città agognata, simbolo di speranze di risorgimento, ma che poi – diciamo noi – divenne una pur bella periferia di un Paese diviso tra Nord e Sud, incentrato politicamente su Roma.
Tra i pochi politici italiani a comprendere il ruolo del Mediterraneo nella vicenda italiana fu senz’altro Crispi, non a caso doppiamente marittimo: siciliano e albanese. Ma anch’egli lo guardò con gli occhi della potenza tipica degli anni dell’imperialismo. Come una strada che doveva portare lontano, potremmo dire oltre, verso l’Africa e l’Oceano Indiano.
Nel corso della lunga vicenda politico-militare della prima guerra mondiale fu l’Adriatico a recitare la parte del leone nel côté mediterraneo della partecipazione italiana. Esso divenne simbolo di unità definitiva della nazione e – con un indubbio travisamento propagandistico – simbolo di forza e di autorità internazionali. Il regime fascista raccolse – con l’opportunismo che sempre lo avrebbe caratterizzato rispetto alle tradizioni storiche italiane – questa eredità. La fece divenire volontà di potenza totalitaria ed espansionista. Il Mediterraneo si trasformò unicamente in una tappa che avrebbe dovuto condurre all’impero, in un luogo di passaggio dove la dimensione mondiale dell’Italia avrebbe dovuto affermarsi imitando, senza speranza, il ben superiore modello britannico. Ma, nella visione vittimistica che Mussolini riversò nel discorso del 10 giugno 1940, il Mediterraneo si era ormai tramutato in una prigione per la traboccante, in realtà inventata, grandezza italiana.
La terribile lezione subita nella seconda guerra mondiale ha restituito all’Italia una visione mediterranea più ridimensionata, ma senz’altro maggiormente realistica. Il rifiuto di proseguire l’impossibile esperienza coloniale, grazie ad Alcide De Gasperi, ha consentito alla nuova Repubblica di assumere un volto diverso nel più largo contesto mediterraneo. Si potrebbe dire quello di media potenza saggia e ragionevole. Ha ragione Ivetic, però, quando dice che il Mediterraneo è stato sostanzialmente dimenticato nella cultura repubblicana. O quantomeno ha recitato una parte secondaria. Ma, senza dubbio –diciamo noi- qualche segno positivo ancora è sopravvissuto: la spiritualità di Giorgio La Pira, il capitalismo statalista di Enrico Mattei, il neoatlantismo di Amintore Fanfani, la diplomazia di Aldo Moro, il filo-arabismo di Giulio Andreotti e Bettino Craxi. Tutte tendenze, anche se non sempre compiute, in cui il Mediterraneo ha cercato di penetrare nella politica estera italiana divenendo, in realtà, una delle parti migliori dell’esperienza internazionale della Repubblica. Ma ormai l’Italia, dal 1949, aveva un altro confine: non più solo quello tra Mediterraneo ed Europa, ma anche quello con l’Atlantico. E ciò voleva dire non solo una diversa collocazione internazionale; ma anche una nuova cultura politica, concezioni di difesa militare rivoluzionate, fedeltà politiche mai sperimentate in precedenza. Sposare queste tendenze con la mediterraneità fu sempre uno dei tormenti della classe dirigente italiana, perlomeno dagli anni Sessanta in poi. Non era semplice spiegare agli unilaterali americani le complessità del mondo mediterraneo, soprattutto nella sua versione araba. Non di rado, infatti, i governi di Roma sono stati sospettati di terzomondismo, dunque di aver travalicato lo steccato che separava il mondo occidentale dal comunismo. E di averlo fatto proprio nel Mediterraneo. Ma l’Italia, in realtà, come ha spiegato Ivetic, rispondeva ai richiami della sua storia, quotidianamente rilanciati dalla sua geografia.
Le contese ultra capitalistiche del XXI secolo, con l’affermazione di una dimensione europea più liberista che solidale, hanno svalutato il contributo del Mediterraneo nella nuova storia dell’integrazione europea, di cui l’Italia è divenuta parte sostanziale. Mediterraneo – inteso come aggettivo – è divenuto sinonimo di irresponsabilità finanziaria. La vicenda del debito pubblico greco – ma anche di quello italiano, spagnolo, portoghese – ha reso, invece, il sostantivo sinonimo di cialtrone, bugiardo, ingannatore, spendaccione, donnaiolo, sfruttatore. Come se l’Europa dovesse divenire un luogo di rieducazione di popoli che avevano perduto il senso della realtà. E non l’incontro tra culture diverse di nazioni profonde che avevano deciso di condividere insieme la storia. Quest’ultima, invece, avrebbe dovuto essere la lezione da apprendere proprio dalla storia del Mediterraneo.
(Pubblicato il 26 maggio 2022 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)
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