Epidemiologia del melanoma: qual è lo stato dell’arte?
da SCIENZA IN RETE (Simonetta Pagliani)
L’arrivo della bella stagione, che porta con sé la voglia di stare al sole, non è estraneo al tema cui il divulgatore rivolge la sua attenzione. Dopo che, su Scienza in rete, Chiara Sabelli ha esplorato il fronte più avanzato della diagnosi differenziale del melanoma, illustrando il confronto tra algoritmi esperti ed esperti dermatologi alle prese con una lesione cutanea evocativa del tumore, chi scrive dà ora conto del dibattito sulla sua epidemiologia, ospitato dal numero di maggio di JAMA Dermatology.
Alcuni ricercatori dell’International Agency for Research on Cancer (IARC) di Lione, dopo aver esaminato l’incidenza e la mortalità del melanoma rilevate nel 2012 e nel 2020 da GLOBOCAN (un progetto varato dall’agenzia che descrive la situazione oncologica a livello globale), ha proiettato le stime nel prossimo futuro. Dieci anni fa, su una popolazione mondiale di 7 miliardi e 125 milioni, erano state fatte 230.000 diagnosi di melanoma e 55.000 persone erano morte per la malattia; nel 2020, con gli abitanti del pianeta arrivati a quota 7.795.000.000, ci sono stati 325.000 nuovi casi e 57.000 morti per melanoma, con un aumento della malattia, in otto anni, del 41,3% e della mortalità associata del 3,6%. Di questo passo, dicono Melina Arnold e colleghi, nel 2040, con 9 miliardi e 199 milioni di individui, ci saranno 510.000 nuovi casi di melanoma e (se non emergono nuove strabilianti terapie) 96.000 morti.
Sullo stesso numero di JAMA Dermatology, Martha Matsumoto e colleghi comunicano di aver trovato melanomi molto più sottili e superficiali nei soggetti che hanno aderito a un esame periodico della cute presso l’University of Pittsburgh Medical Center, che nei soggetti del gruppo di controllo, esaminati solo alla fine dei cinque anni di durata dello studio. Questi risultati, seppure parziali e statisticamente non significativi, confermano che la letalità del melanoma diminuisce per «l’effetto combinato di più esami cutanei di screening, di soglie cliniche in calo per lesioni pigmentate da biopsiare e di soglie patologiche in calo per etichettare i cambiamenti morfologici come cancro».
Sullo scenario preventivo aleggia, quindi, il fantasma della sovradiagnosi, evocato da Robert Swerlick, dermatologo della Emory University School of Medicine di Atlanta, che critica senza appello la convinzione (ben salda nei medici e trasferita con successo ai pazienti) che l’esame periodico della cute diminuisca la mortalità da melanoma. Se sovradiagnosi significa scoprire una condizione che non avrebbe comportato sintomi o morte e non sarebbe mai stata trovata se non la si fosse cercata – scrive nel suo editoriale di commento allo studio di Pittsburg – allora è certamente sovradiagnosi etichettare (e rimuovere) una lesione pigmentata che magari ha i criteri istologici di un melanoma, ma non è noto se ne abbia l’aggressività biologica. Gli scettici dello screening del melanoma – conclude Swerlick – non possono dimostrare che tale pratica non salva la vita, ma tocca ai sostenitori dello screening l’onere della prova che la salvi. Adfirmanti incumbit probatio.
In risposta, i suoi colleghi dell’Oregon Health and Science University di Portland ammettono che, se è pur vero che il medico deve adottare la soluzione migliore per l’individuo che ha in cura, la sanità pubblica è tenuta a restringere il campo degli screening ai gruppi di pazienti a più alto rischio. La delimitazione del campo serve a limitare il numero dei falsi positivi, che è lo scotto inevitabile (e difficile da calcolare) di ogni ricerca a tappeto. Nel caso del melanoma, però, l’eventuale sovradiagnosi ha una sufficiente contropartita, dal momento che i costi e i disagi psicologici e fisici di una biopsia e di un trattamento precoce sono bassi (mentre quelli di una malattia in stadio avanzato sono alti), a fronte di un cancro che può essere letale anche al primo stadio (lo è il 3-15% dei melanomi ≤1 mm), si ingrandisce rapidamente e, una volta metastatico, conduce a morte nella metà dei casi nonostante le terapie più avanzate. Cedere al timore di sovradiagnosi comporta, come ulteriore conseguenza, il rischio di non sviluppare, di non utilizzare e di non poter valutare adeguatamente le nuove tecnologie che migliorano l’accuratezza diagnostica, come la microscopia confocale e l’elaborazione delle immagini assistita da computer o prognostica, come i profili di espressione genica e la misurazione del long non-coding RNA.
Vi è, poi, una criticità di diversa natura, legata ai dati di GLOBOCAN. Le incidenze maggiori di melanoma sono state registrate in Australia/Nuova Zelanda; seguono Europa occidentale, America settentrionale e Nord-Europa, mentre il melanoma sembra raro in Africa e in Asia. All’elevata incidenza nei paesi ricchi fa da contraltare l’elevata mortalità nei paesi poveri. La spiegazione di questo apparente paradosso si trova nella classifica dei vari stati in ordine di HDI (Human Development Index), un punteggio da 0 a 1 che le Nazioni Unite utilizzano già dal 1990 per quantificare indicatori dello sviluppo umano quali salute, longevità, assenza di povertà, disuguaglianze socio-economiche, accesso a internet e sicurezza nella vita quotidiana. L’HDI attribuisce ai vari paesi quattro livelli di sviluppo umano: molto alto (0,8-1,0), alto (0,7-0,79), medio (0,55-0,7) e basso (<0,55)*. Solo i paesi dei primi due livelli hanno un sistema socio-sanitario in grado di fornire informazione sul rischio di melanoma, esami tempestivi della cute e trattamenti adeguati della malattia.
Il colore della pelle umana dipende dalla presenza di un numero minore o maggiore di melanociti, le cellule che producono la melanina, il pigmento che protegge dagli effetti nocivi del sole gli strati cutanei profondi. Mentre nella pelle bianca il fattore di protezione solare intrinseco stimato è 3,3, nella pelle nera è 13,4. Tuttavia, la relazione tra pigmentazione cutanea e fotoprotezione non è lineare come un tempo si credeva e la pelle nera non è immune da basaliomi, carcinomi spinocellulari e melanomi, come lascerebbero credere i dati di GLOBOCAN, la cui accuratezza e rappresentatività, però, hanno qualche limite: la IARC stessa avverte che va tenuta in conto la scarsa capacità di rilevazione dei melanomi dei paesi a basso o medio reddito.
Tuttavia, i farmaco-economisti dell’Università di Tucson, Arizona, sostengono che è sufficiente aver compreso l’ordine di grandezza dell’incidenza del melanoma sui dati dei paesi affluenti per aver chiara la necessità di educare, ovunque nel mondo, i medici a riconoscere le lesioni e la gente a evitare l’eccessiva esposizione alle radiazioni ultraviolette, che è responsabile del 75,7% dei casi di melanoma e ad attuare una speciale protezione dei bambini: anche se gli effetti patologici si vedranno solo molti anni dopo, la maggior parte dei danni da raggi UV, infatti, si produce prima dei 20 anni (le “scottature” infantili aumentano il rischio di sviluppare il tumore). La più alta mortalità in Africa e Asia (e nelle persone di pelle scura che abitano negli Stati Uniti) è legata soprattutto al ritardo nel riconoscimento della patologia, le cui ragioni sono da ricercare prioritariamente nelle disuguaglianze d’accesso alle procedure diagnostiche e, secondariamente, nella difficoltà di riconoscere le lesioni con localizzazione palmare, plantare, mucosale o subungueale che riguardano più della metà dei casi delle etnie di pelle scura.
*L’HDI dell’Italia è 0,88
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