Un credito difficile: alcuni esiti del processo di concentrazione bancaria in Italia
di Gli Asini (Marco Zurru)
Dall’inizio degli anni Novanta si sviluppa in Europa un processo di concentrazione bancaria senza precedenti. Complessivamente, tra il 1990 e il 2000, il numero degli istituti di credito europei si riduce del 45%; in Francia e Spagna del 33%, in Germania del 34%. Le dinamiche imposte dalla globalizzazione, l’input normativo determinato dall’Unione Europea, l’adozione dell’euro, la nascita di un mercato dei capitali e dei servizi finanziari integrati, la deregolamentazione finanziaria, il progresso tecnologico e la crescente integrazione tra i mercati, hanno accresciuto il grado di concorrenza e la contendibilità degli assetti proprietari. La competizione ha oltrepassato i confini dei singoli Stati nazionali, ponendo il problema delle dimensioni degli Istituti bancari, della riduzione della frammentazione del settore e dell’ampliamento della gamma dei servizi proposti a famiglie e imprese.
Anche il sistema bancario italiano viene sottoposto, nel giro di 15 anni, a una rapida quanto dolorosissima “cura dimagrante” da parte delle autorità centrali di vigilanza. Anzi, secondo la Banca centrale europea, il sistema creditizio italiano ha sperimentato “la più ampia ondata di concentrazioni in Europa e per il periodo di tempo più lungo in assoluto”. Continui processi di “mergers & acquisitions” hanno comportato un aumento rilevante del processo di concentrazione e una ridefinizione fondamentale della natura proprietaria degli istituti.
Tra il 1990 e il 2006 sono state realizzate 727 aggregazioni che hanno interessato banche cui faceva capo circa il 50% dei fondi complessivamente intermediati (Fonte: Banca d’Italia, Relazioni annuali, anni vari); dal 1994 al 2013, negli “albi ed elenchi di vigilanza” della Banca d’Italia, si nota che le operazioni di concentrazione (che ammontano a quasi il 90%) portano i primi 5 gruppi a detenere oltre il 52% delle quote di mercato sul totale degli attivi. Il numero delle banche si è ridotto enormemente, passando da 1061 del 1990 a 613 del 2016, fino alle attuali 449 del 2022, ovvero un taglio di quasi il 58%.
La trasformazione del settore bancario italiano inizia con la Legge n. 218 del 1990, che abolisce la separazione tra le banche di investimento e quelle commerciali, restaurando il modello di banca mista, o universale. La legge prevede anche l’istituzione delle fondazioni bancarie, persone giuridiche private no profit, che avrebbero dovuto controllare le banche partecipate. La “razionalizzazione” continua poi con il Decreto Legislativo n.385 del 1993 (Tub), che sostituisce tutta la legislazione bancaria italiana, istituendo il “carattere d’impresa” dell’attività bancaria. Con gli accordi di Basilea II (2004) e Basilea III (2010) si rafforzano le politiche di vigilanza e si definiscono gli standard patrimoniali europei. Con il Decreto-Legge n.3 del 2015 si riformano le banche popolari. Infine, con il D.L. 14 febbraio 2016 n. 18 si riformano le banche di credito cooperativo, con l’obbligo di scelta di adesione a uno dei gruppi bancari a rilevanza nazionale (Iccrea e Cassa centrale banca).
La mappa del settore bancario è stata quindi completamente ridisegnata: le banche italiane sono ora protagoniste dello scenario competitivo europeo e due grandi istituti sono tra i primi in Europa per capitalizzazione. Questa “razionalizzazione” del sistema, sempre più incentrata su poche grandi banche e piccoli istituti di credito in parte controllati dai grandi gruppi, pone però – in un sistema produttivo che presenta tuttora un forte dualismo territoriale, frammentazione, nanismo dimensionale delle imprese, opacità, bassa capitalizzazione e sostanziale dipendenza dal settore creditizio – una serie di interrogativi per ciò che concerne la ridefinizione dei rapporti tra banca e impresa/famiglia e la disponibilità e qualità di credito che ne deriva per il settore produttivo in aree differenziate del paese.
Le motivazioni da sempre avanzate dalla Banca d’Italia a supporto delle operazioni di mergers and acquisitions, erano relative all’obiettivo di “salvare” le banche meridionali, fortemente sottocapitalizzate e cariche di incagli e sofferenze, far acquisire dimensioni maggiori agli istituti, sfruttare i vantaggi derivanti dalle conseguenti economie di scala e perseguire superiori condizioni di efficienza gestionale operativa migliorando, di seguito, la reddittività degli istituti di intermediazione. Proprio in ragione di queste giustificazioni, l’Istituto Centrale ha spinto per una “modernizzazione” del sistema attraverso un massiccio ingresso delle (relativamente) più efficienti banche con sede legale nel Centro Nord che, con i sopra descritti processi di mergers and acquisitions, si sono letteralmente appropriate di gran parte del sistema bancario meridionale, definendone una progressiva “liquidazione”. Infatti, se nel contesto più sviluppato del paese la contrazione del complesso degli istituti di credito (1990-2020) è stata del 48,7%, la corrispettiva contrazione delle banche con sede legale nelle regioni del Mezzogiorno è stata del 71%; nel 2020, a fronte delle 383 banche con sede legale nel Cn se ne contano appena 91 nel Mezzogiorno.
Alcune conseguenze non appaiono positive per il Sud. In primis, il livello di bancarizzazione delle regioni meridionali, nonostante i processi di riforma del settore, rimane sempre molto basso nel tempo. Se nel 1990 la quota di sportelli per 10mila abitanti era di 3,5 nel Centro-Nord e 1,9 nelle regioni meridionali, a distanza di 30 anni, le rispettive quote erano di 4,8 e 2,6, mantenendo inalterate le distanze tra le aree, con un Sud “sportellizzato” per meno più della metà rispetto alle altre regioni del Paese.
La dinamica depositi/Pil conferma, ancora una volta, la grande capacità di risparmio delle famiglie meridionali: nel 2011 il Mezzogiorno segna uno 0,66 contro lo 0,61 del Centro-Nord, ovvero le famiglie meridionali riescono a risparmiare il 66% del Pil della stessa area, mentre quelle centro-settentrionali poco meno, il 61%. Negli anni a seguire (almeno fino al 2020) continua a crescere il volume di raccolta da parte degli sportelli localizzati nel Mezzogiorno rispetto alla dimensione economica dove il valore è del 97% del Pil del Sud a fronte del 118% del Centro-Nord. Il dato, però, va letto in ragione della capacità d’impiego di questo enorme volume di risparmio. Infatti, il rapporto tra prestiti/depositi, che rappresenta una misura della capacità di mobilizzare il risparmio locale all’interno del circuito produttivo regionale, è strutturalmente inferiore nel Mezzogiorno rispetto a quello riscontrabile nel resto del Paese: il rapporto impieghi/depositi delle regioni meridionali calcolato con Centro Nord=100, evidenzia un 80% nel 1990, 61% nel 2005 e 58,5% nel 2016.
Una delle letture più pessimistiche di questo processo è quella di Giannola e Lopes, che per il Mezzogiorno parlano di “integrazione dipendente”, giacché il sistema bancario mantiene ed espande la raccolta che troverà impieghi in altre aree del paese. Simonetti appare ancor più duramente esplicita: “Dall’andamento degli indicatori di sviluppo finanziario nel Mezzogiorno negli anni del consolidamento, appare evidente che i processi di ristrutturazione verificatisi lungo la direttrice Nord-Sud sono stati originati non tanto dalla volontà di ampliare e diversificare l’attività di prestito, quanto dalla determinazione ad approfittare della capacità di risparmio delle regioni meridionali”.
Rimangono, poi, complicate le condizioni delle sofferenze: dopo la “cura di smaltimento” tramite cartolarizzazioni che hanno ridotto notevolmente i crediti inesigibili a Sud, la crisi finanziaria del 2008 complica nuovamente lo scenario per il Mezzogiorno, lasciando inalterati i differenziali tra le macroaree. Il deterioramento della qualità del credito nelle regioni meridionali, con il conseguente innalzamento del rischio per gli intermediari, si traduce – poi – in oneri maggiori e in una politica dei tassi d’interesse attivi che troppo spesso tende a penalizzare proprio le imprese meridionali migliori. Ciò accade perché la pratica di utilizzare il tasso medio di sofferenza nella regione come indicatore della rischiosità futura della clientela locale determina una vera e propria discriminazione (statistica) nel mercato del credito a loro svantaggio. Infatti, le condizioni per le imprese non finanziarie e per le famiglie residenti nelle regioni meridionali non sono affatto migliorate dopo il processo di consolidamento: i differenziali peggiori sono quelli su cui insiste la maggior parte delle piccole e medie imprese, ovvero i tassi da 1 a 5 anni e quelli oltre 5 anni (ancora oltre 1 punto differenziale nel 2017).
Il riassetto del settore ha comportato, inoltre, ciò che Alessandrini chiama la nuova “geografia del potere bancario”, con rilevanti conseguenze nel legame tra banche, territorio e sviluppo. È presente un forte impatto del processo di ristrutturazione sulle logiche organizzative interne ai grandi gruppi bancari e gli esiti nei confronti di peculiari segmenti di mercato, quali diversi spazi socioeconomici o imprese di diversa dimensione. Infatti, il consolidamento dimensionale tramite acquisizioni e fusioni, avrebbe determinato in capo all’organizzazione banca un accentramento delle funzioni più qualificanti presso i centri direzionali delle banche leader con sede legale al Centro Nord, aumentando la distanza funzionale tra il centro e la periferia meridionale. Per distanza funzionale s’intende “lo spazio che separa famiglie e imprese di un territorio da un’istituzione bancaria”: si tratta della distanza economica che può intercorrere tra gli obiettivi e le strategie dei centri decisionali nei quali si concentra il potere bancario e le esigenze e le capacità ricettive alle innovazioni dei diversi sistemi locali periferici.
Insomma, la crisi delle maggiori banche del Sud e la loro acquisizione da parte degli istituti di credito del Centro-Nord hanno, di fatto, determinato per il Mezzogiorno la perdita dei principali centri direzionali e strategici bancari e le possibilità di svolgere un’attività di relationship lending, tutto a svantaggio – ancora a distanza di 30 anni – delle famiglie e delle imprese meridionali.
Per approfondire:
Alessandrini P, Presbitero A. F., La Nuova Geografia Bancaria nel Mezzogiorno: la necessità
di un Approccio Sistemico, in “Mo.Fi.R. Working Papers”, 10, 2009.
Bongini P., Ferri G., Il sistema bancario meridionale, Laterza 2005.
Giannola A., Lopes A., Zazzaro A., La convergenza dello sviluppo finanziario tra le regioni taliane dal 1890 ad oggi, in “MoFiR working paper”, 74, 2012
Gros-Pietro G. M., Reviglio E., Torrisi A., Assetti proprietari e mercati finanziari europei, Il Mulino 2001.
Montanaro E., Tonveronachi M., I processi di concentrazione nella gestione delle crisi italiane. Il caso italiano, 1992-2004, in “Banca Impresa Società”, a. XXV, 3: 315-339, 2006.
Simonetti L., Aspetti territoriali del rapporto tra banche e imprese nel Mezzogiorno (1994-2014), in “Bollettino della Società Geografica Italiana”, Serie XIII, vol. IX (2016), pp. 347-364, 2016.
Tarantola A. M., Dalla proprietà pubblica a quella privata: concorrenza ed efficienza del sistema bancario italiano, Intervento alla Conferenza internazionale “The Perspective of the European banking and Financial Sector” (Mosca, 20 luglio 2007)
Zazzaro A., La scomparsa dei centri decisionali dal sistema bancario meridionale, in “Rivista di Politica Economica”, 96, 2: 31-60, 2006.
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