Un recentissimo studio dell’INPS e dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) ha fornito cifre interessanti e probabilmente semi-definitive nella loro proiezione sul numero di beneficiari e sull’entità della spesa necessaria a finanziare la misura sperimentale di quota 100. Una misura che ha permesso per il triennio 2019-2021 di andare in pensione anticipatamente a coloro che avessero raggiunto il doppio requisito di 62 anni di età e almeno 38 di contributi versati all’ente previdenziale. Al momento sono pervenute all’INPS 380.000 domande di pensionamento.
Come noto, quota 100 è scaduta lo scorso 31 dicembre e, quindi, per chi non ha raggiunto i requisiti di accesso entro la fine del 2021 non sarà più possibile farne uso. Tuttavia, per chi aveva i requisiti entro la fine dello scorso anno sarà ancora possibile presentare domanda di pensione nei prossimi anni finché, entro la fine del 2025, non si esaurirà fisiologicamente questa ipotesi per il raggiungimento dell’età di pensionamento per vecchiaia da parte degli ultimi potenziali beneficiari.
Ad oggi, secondo lo studio citato, meno della metà degli aventi diritto hanno usufruito della misura e nei prossimi 3 anni si stima che si potrebbe arrivare a 450.000 beneficiari complessivi su un totale di oltre un milione di potenziali aventi diritto, un numero sicuramente importante ma decisamente inferiore alle attese.
La spesa stanziata dall’allora governo gialloverde si attestava per tutto il periodo 2019-2025 a 33,5 miliardi ipotizzando un tasso di adesione superiore al 70%. Verosimilmente ne verranno usati non più di 23 con un tasso di adesione attorno al 50%. Insomma, a regime circa 1 una persona su 2 tra chi ne ha avuto la possibilità, avrà fatto uso della misura. Il numero potrebbe sorprendere alla luce dell’importante anticipo pensionistico che la misura avrebbe garantito rispetto alle alte soglie previste dal combinato delle leggi Sacconi e Fornero (67 anni di età per la pensione di vecchiaia).
La spiegazione del sottoutilizzo della misura è in realtà molto semplice. Come ricorda puntualmente lo studio, sulla base dei meccanismi intriseci del sistema contributivo, l’anticipo comporta una decurtazione dell’assegno a causa del minor montante di contributi versati e del più lungo tempo di vita su cui si spalma il capitale accumulato. Secondo Inps-Upb si rinuncia a circa il 5% per ogni anno di anticipo. In dettaglio, un anticipo di 3-4 anni taglia la prestazione percepita mensilmente del 17% per un autonomo, del 14% per un dipendente privato e del 19,5% per un dipendente pubblico. Mediamente chi ha aderito a quota 100 ha anticipato la pensione di 2,3 anni con perdite consistenti. È evidente che non tutti hanno voluto e potuto accettare lo scambio tra tempo e denaro implicita nell’anticipo pensionistico.
Intanto quest’anno è già in opera quota 102 approvata come misura di transizione temporanea che consentirà di andare in pensione con almeno 64 anni di età e almeno 38 di contributi. La misura non soltanto ha una platea molto ristretta, ma sembra che al momento una parte esigua ne stia beneficiando: in previsione sull’intero 2022 soltanto circa 8500 saranno i beneficiari effettivi, un numero davvero minuscolo.
Lo scarso utilizzo di quota 100 rispetto alle sue potenzialità e la striminzita platea potenziale ed effettiva di quota 102 stanno lì a dimostrare che i profondi problemi del nostro sistema previdenziale legati ad un impianto fortemente restrittivo tanto sotto l’aspetto finanziario quanto sotto quello dei tempi di uscita dal lavoro, non possono essere certo risolti con misure di aggiustamento temporanee e strutturalmente basate su uno scambio insostenibile e inaccettabile tra tempo e denaro.
D’altra parte, l’aspetto più paradossale e odioso del dibattito che da molti anni anima il tema pensionistico è l’uso della trappola del rapporto inverso tra tempo e denaro per delegittimare anche le più ovvie e blande forme di flessibilità in uscita. L’argomentazione falsamente paternalistica spesso usata da parte dei critici di quota 100 e di ogni forma di anticipo pensionistico rispetto ai 67 anni della pensione di vecchiaia è che ai lavoratori non sarebbe convenuto perché la pensione si sarebbe abbassata troppo. Dimenticando ovviamente di dire che l’abbassamento non è un’ineluttabilità che sorge dalle alchimie della matematica ma discende da una logica tutta politica che è quella adottata nel lontano 1995 quando si decise di passare dal sistema retributivo a quello contributivo in un mondo di salari bassi e di carriere che da lì al futuro sarebbero divenute sempre più precarie e discontinue (con grave detrimento del montante contributivo accumulabile dal lavoratore).
Preso dunque questo sistema per dato, con il solo scopo di difendere ad oltranza l’austerità pensionistica e la volontà di risparmiare miliardi di spesa previdenziale, si usano argomentazioni volutamente incomplete per demonizzare le briciole di flessibilità in uscita, elargite peraltro in modo ipocritamente temporaneo.
Questo corto circuito fattuale (per i lavoratori) e argomentativo-ideologico (per i dibattitori seriali e in mala fede delle vicende pensionistiche) non può che indurre ad una riflessione profonda che sciolga ogni aporia logica e vada dritto al cuore del problema delle pensioni italiane.
Le pensioni sono redditi da lavoro differiti. Stabilire come debbano essere finanziate, quale debba essere il loro livello, a quanto debba ammontare il tasso di sostituzione (rapporto tra ultimo salario e prima pensione) e quale debba essere la giusta età di accesso al diritto di ricevere una rendita pensionistica è una scelta integralmente distributiva, politica e sociale. Gli attuali parametri che determinano ammontare della pensione e regole di accesso per età anagrafica e anni di contribuzione hanno definito un sistema che eroga pensioni mediamente basse (il valore medio per le sole pensioni di vecchiaia è di 1285 euro al mese) e soprattutto una quantità gigantesca di pensioni sotto una soglia di sopravvivenza sociale (5,5 milioni sono le pensioni sotto i 1000 euro al mese). Ciò è frutto diretto sia dei bassi salari, ma anche della precarietà lavorativa che determinano versamenti contributivi a singhiozzo. A ciò si aggiungono le regole punitive che impediscono qualsiasi flessibilità in uscita o laddove la consentano per finestre eccezionali (come quota 100 e 102) la fanno pagare a caro prezzo nella logica spietata della riduzione della pensione.
Ciò che serve ai lavoratori e ai pensionati italiani è invece un sistema previdenziale che unisca una ragionevole flessibilità in uscita con garanzie di livelli di pensione dignitosa per tutti coloro che hanno speso un’intera vita a lavorare.
Le leve su cui agire sono numerose e passano per piani di lotta diversi, ma unificati: salari più alti e lotta al precariato; integrazione dei vuoti contributivi tramite la fiscalità generale per le carriere discontinue; totale perequazione delle pensioni all’inflazione; forme di ampia flessibilità in uscita strutturale con trattamenti minimi garantiti per le varie fasce di reddito in caso di anticipo pensionistico rispetto alla soglia “di vecchiaia”. Inoltre, si potrebbe pensare alla fiscalizzazione di una quota parte della spesa pensionistica necessaria a garantire livelli adeguati a tutti: ciò significa che i livelli di prestazioni pensionistiche che si desiderano raggiungere possono essere finanziate dalla fiscalità generale, magari mettendo anche mano ad una riforma delle tasse che ne alleggerisca il carico sul lavoro, o in genere dal Bilancio dello Stato che, come abbiamo più volte ripetuto, non ha alcun vincolo prestabilito.
Sono solo una parte dei numerosi aspetti che richiederebbero energici e coraggiosi interventi. Esattamente l’opposto dei timidi balletti sulle quote che restano dentro ai dibattiti deboli tra i fautori delle briciole di una flessibilità condizionata e i fautori della linea dura della pensione a 70 anni per tutti.
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