Cina e India, “double jeopardy” nelle relazioni internazionali in Asia. Verso una riappacificazione o una nuova fase dello scontro?
da SINOSFERE (Stefano Beggiora)
1. Premessa: un conflitto che nessuno vuole
La Cina e l’India sono oggi due paesi asiatici grandi e dinamici, che sono stati in grado di imporsi come realtà nuove nelle contemporanee tendenze delle relazioni internazionali. In particolare, con i tassi in costante crescita annuale del loro PIL, hanno scritto buona parte della storia economica di questi ultimi decenni, passando dalla definizione di paesi emergenti alla realtà di potenze asiatiche. D’altro canto, secondo le stime della Banca Mondiale, Cina e India si attestano fra i primi posti1) – per grandezza e sulla base della parità di potere d’acquisto – dell’economia mondiale surclassando molti dei cosiddetti paesi sviluppati. L’India deve il suo boom principalmente all’apertura del suo mercato agli investimenti diretti esteri, avvenuta a seguito della crisi economica del ’90-91, occasione in cui si decise entro una certa misura di seguire il modello cinese avviato circa un decennio prima. Gli anni ’90 rimangono dunque un importante momento di riavvicinamento fra i due paesi, un idillio che è rimasto tutto sommato costante fino a oggi. In questo lasso di tempo i rapporti commerciali, gli accordi e la collaborazione sono stati esponenziali e sono stati in grado di mobilitare diverse centinaia di miliardi di dollari: una fetta non indifferente dell’economia globale. L’entità di tale interdipendenza è enfatizzata, solo per fare un esempio, dal fatto che la Cina dal 2009 è il più grande importatore dell’India. Venendo subito a dati aggiornati possiamo dire che il commercio bilaterale fra India e Cina abbia raggiunto il record di 125 miliardi di dollari nel 2021, con un aumento del 43,3% rispetto a 20202). È chiaro che in questo scenario, nuovi assetti politici, le pressioni sulla politica internazionale, l’imperativo energetico, l’accesso alle risorse, siano tutti fattori che contribuiscono a portare le due nazioni anche a un certo grado di concorrenzialità.3) È interessante notare una certa idiosincrasia nel fatto che mentre la loro espansione economica e di leadership stia portando a tensioni più profonde che sembrano a tratti superare i benefici attuali, il climax nei rapporti bilaterali tra India e Cina indichi un livello di interdipendenza che finisce per soddisfare ma al contempo incrementare gli obiettivi di sviluppo e modernizzazione reciproci.4) Questo saggio non si propone dunque di analizzare sotto un profilo economico il rapporto fra i due paesi e gli eventuali limiti di questa dinamica di crescita in parallelo, quanto piuttosto viceversa di analizzare ciò che non ha funzionato nella politica estera. Una ferita risalente al 1962, anno di un conflitto convenzionale combattuto fra Cina e India, sembra rimanere costantemente aperta e non rimarginarsi mai, riattualizzandosi, contrariamente ad ogni logica di profitto e di calcolo degli elevatissimi rischi su scala globale, in nuovi scenari contemporanei. Sulla base di quanto il mercato mette annualmente in gioco, è possibile pensare veramente oggi a un conflitto fra India e Cina o si tratta di un fantasma solo evocato, ma non auspicabile per nessuna delle parti?
Fig. 1: Narendra Modi e Xi Jinping al Shanghai Cooperation Organization Council, 2016 (da Wikimedia Commons)
2. Conoscere il passato (recente) per comprendere il presente
La nascita di India e Cina nella loro accezione moderna – quindi l’una nel 1947, dopo il raggiungimento dell’Indipendenza e l’altra quasi contemporaneamente nel 1949, come Repubblica Popolare Cinese – avviene all’alba del secondo dopoguerra. È un periodo che porta con sé ancora la drammaticità dell’epoca precedente, in particolare caratterizzata dal colonialismo occidentale i cui effetti negativi si possono considerare fino a un certo punto condivisi da entrambe le parti. I destini dei due paesi disegnarono nella storia due scenari che oggi sono palesemente distinti, in quanto l’India aveva dovuto ricucire a fatica la sua unione nazionale, dopo secoli di sfruttamento sotto il giogo coloniale inglese, trovando la sua emancipazione solo dopo una sorta di risorgimento nazionale e decenni di lotta. Ma in fin dei conti anche la Cina imperiale era stata costretta a concedere ripetute concessioni territoriali ed economiche a una serie di potenze principalmente europee dalla metà del diciannovesimo secolo in poi.5) Questo basti per considerare che i primi passi mossi da entrambe le nazioni furono caratterizzati da una certa fragilità intrinseca, un senso di vulnerabilità politica, o quasi di sfiducia nel nuovo assetto internazionale che si stava determinando: elementi questi che vanno a fondersi con la necessità di creare, quasi da zero le nuove linee guida del paese. Anche se le dinamiche interne dei processi di state-making e nation-building furono sintomaticamente diverse, è interessante notare come vi sia nella gestione degli affari esteri una certa correlazione tanto per un orientamento di “non allineamento”, almeno formale, rispetto al bipolarismo Stati Uniti-Unione Sovietica, quanto alla possibilità di una nuova esperienza condivisa di alleanza e collaborazione. È per questo che nei primi decenni delle loro relazioni moderne – e per la precisione dall’aprile 1950 – furono avviati rapporti diplomatici fra i due paesi, in barba alle dinamiche che avrebbero portato all’emersione della Guerra Fredda.6)
Il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru (1889-1964) e il premier cinese Zhou Enlai (1898-1976) condussero quindi reciproche visite di stato nel 1954 all’insegna di un senso di solidarietà e amicizia che avrebbe dovuto permeare il futuro di queste relazioni. Si noti che l’India fu il primo paese non formalmente socialista a stringere tali legami con la Cina, per quanto Nehru personalmente avesse elaborato una sua visione socialista che prendeva le mosse dal fabianesimo inglese. L’unione fra le due nazioni, vale la pena di ricordarlo – perché per quanto orizzonte sempre più lontano, è un tema ancor oggi di analisi – avrebbe potuto creare le basi di una maggior stabilità in area asiatica e avrebbe potuto creare un polo coeso, alternativo all’assetto che si andava dettando sotto l’egida delle superpotenze straniere.
Fig.2: Il quattordicesimo Dalai Lama, Jawaharlal Nerhu e Zhou Enlai nel 1956 in India (da Wikimedia Commons)
La linea politica indiana finì per essere rappresentata in celebri slogan e intenti programmatici, che ebbero un grande riscontro anche in Cina. Il termine pañcaśīla, ovvero i cinque principi (di ispirazione classica – si vedano ad esempio i pañcaśīla della condotta buddhista), fu spesso un’espressione abusata nel periodo post-Indipendenza per indicare un percorso politico a cinque tappe, un quintuplice obiettivo, ecc. Ma i pañcaśīla più noti che la storia ricordi nel pensiero nehruviano sono quelli relativi alla coesistenza pacifica con la Cina (Panchsheel Agreement del 1954), che avrebbe dovuto fungere da volano per gli scambi bilaterali. In sintesi, i principi furono: mutuo rispetto della sovranità e integrità territoriale, mutua non aggressione, mutua non inferenza negli affari interni, parità e cooperazione per il bene comune, coesistenza pacifica). Gli ultimi due principi, in particolare, contribuirono a rafforzare una sorta di mantra indiano legato al ripristino della statura internazionale di entrambe le nazioni e alla formazione dei prerequisiti necessari a perseguire obiettivi di sviluppo e modernizzazione reciproci, preservando al contempo l’autonomia e l’autosufficienza dall’influenza esterna.7) Non a caso tale idea o programma fu supportata dal celebre motto hindi chini bhai bhai, ovvero gli indiani e cinesi sono fratelli.
Nonostante questa precoce positività e alcune fruttuose trattative riguardanti le sezioni contese dei loro confini condivisi (a loro volta un’eredità negativa del periodo coloniale), nonché alcuni scambi culturali concertati, le relazioni iniziarono a declinare alla fine degli anni ’50. Il punto più basso di questo deterioramento dei rapporti bilaterali si tocca nel 1962, quando, più o meno inaspettatamente, scoppia un conflitto sanguinoso fra le due nazioni, combattuto per lo più sulle alte creste e i passi di montagna dell’Himalaya centro-orientale. Il conflitto noto come “Sino-Indiano” si vuole dovuto alla celebre “guerra cartografica” fra le due nazioni che indubbiamente funse da casus belli. In realtà la questione è molto complessa e controversa, tanto che qui, per ragioni di spazio, dovremo limitarci a una sintesi, rinviando per approfondimenti alla corposa letteratura in merito che si è formata negli anni8).
2.1 Guerra cartografica o inconciliabilità di percezioni?
Le radici del problema affondano dunque nel periodo coloniale, quando nel 1913-14 fu tracciata la celebre MacMahon Line, che avrebbe dovuto definire i confini fra l’India britannica, e la regione compresa appunto fra Tibet e Cina. Questa, più che ricalcare quelli che avrebbero potuto considerarsi i confini antichi dell’India, semplicemente sostituiva con una nuova frontiera i limiti territoriali definiti dalla precedente Outer Line,9) ricalcando quello che secondo la percezione inglese era il profilo “naturale” della dorsale himalayana, usata a guisa di spartiacque. Forse l’aspetto più interessante da notare qui è che il tentativo di espansione del controllo effettivo del Raj britannico su un territorio effettivamente selvaggio – e che al tempo era ancora poco esplorato – andò a concretarsi in un periodo chiave della storia moderna del Subcontinente indiano. All’alba dei conflitti mondiali l’Inghilterra considerò evidentemente che l’intero territorio, che fino ad allora aveva suscitato scarso interesse, avesse una notevole importanza in possibili futuri scenari d’emergenza strategica e che quindi fosse una priorità espandere le aree da questa controllate creando delle zone cuscinetto attorno all’India e soprattutto tenere la Cina distante dalle ricche pianure dell’Assam. La linea tratteggiava dunque tutta la regione del Tibet, scendendo poi a Nordest, nell’odierno stato dell’Arunchal Pradesh, fino ad arrivare ai confini con Burma. Interessante altresì notare che tutta la cosiddetta frontiera nordorientale dell’Assam, pur avendo avuto in passato forti influenze culturali delle istituzioni brahmaniche indù, islamiche sotto i Mughal e sicuramente Thai con la dinastia Ahom, fu sempre un caleidoscopio di etnie tribali e popoli indigeni tendenzialmente poco docili al dominio straniero.10) L’annessione di queste zone al Raj Britannico risaliva alle campagne di Burma, ma questo non significava che gli inglesi avessero un effettivo controllo del territorio. Non è un caso che uno degli obiettivi della campagna di Burma durante la seconda guerra mondiale, fosse per i giapponesi e i loro alleati proprio la destabilizzazione di quest’area ritenuta intrinsecamente fragile e non troppo distante dalla capitale coloniale del Subcontinente, che al tempo era Calcutta. Paradossale pensare che a più di cent’anni da questi episodi, con un assetto e con confini globali profondamente mutati, l’importanza strategica di uno scenario così cruciale non sia di fatto cambiata.
Gli accordi di Shimla del 1913-14 circa la MacMahon Line furono in sintesi un tentativo di patto tripartito fra Cina, Inghilterra e Tibet per definire i confini Cina-Tibet e Tibet-India britannica, che però non fu in toto accettato dalla parte cinese11). Questa ambiguità da parte della Cina starebbe alla base del conflitto del ’62 e di una sostanziale divergenza di prospettive sui confini fra le due neo-nate nazioni, anche se è onesto considerare che sostanzialmente il patto non fu mai siglato dalla terza parte. La maggioranza degli storici12) sono convinti che la guerra Sino-Indiana sia stata dovuta a una questione di “percezioni” che entrambe le parti ebbero di sé e della propria importanza nel contesto asiatico, che sovrapponendosi le une alle altre sarebbero entrate in un rapporto idiosincratico sempre più inevitabile. Vi sono questioni di natura secolare o persino millenaria circa l’importanza che queste civiltà ebbero in passato, prima dell’epoca coloniale furono entrambe potenze in grado di controllare gran parte del commercio globale attraverso le vie della seta e delle spezie . Nei diversi secoli vi furono diversi momenti di sovrapposizione nelle loro sfere di influenza storiche, che avevano portato a una serie di precedenti contese tra cui il Tibet e l’ovest della Cina, il Bhutan, l’odierno Bangladesh e probabilmente quasi tutto il sud-est asiatico. L’invasione del Tibet negli anni ’50, nella fattispecie, ebbe di sicuro un peso cruciale in tutta la questione. Sebbene infatti l’India avesse concesso la sovranità sul Tibet e lo avesse riconosciuto come una regione autonoma della Cina, che l’aveva annesso nel 1950, l’accoglienza da parte di New Delhi del Dalai Lama in India, dopo la sua fuga da Lhasa a Dharamsala nel 1959, contribuì ad accrescere sfiducia e frustrazione nelle relazioni diplomatiche. Senza contare che il governo tibetano in esilio, istituito in quelle circostanze, oggi Central Tibetan Administration, aveva cominciato ad attirare oltre confine molte migliaia di profughi e rifugiati politici. Beijing iniziò dunque a percepire New Delhi come una potenziale minaccia per la sua eventuale leadership nel quadrante asiatico13).
Ma mi pare valga la pena qui astrarsi un attimo dalla cronologia degli eventi che precedettero il conflitto e proporre una riflessione sulla storia del pensiero in Asia, in quegli anni, per una maggiore comprensione dei fatti di ieri, che implicano delle importanti ricadute nello scenario attuale. È un dato assodato che fra gli effetti più deleteri del colonialismo, ben più del dominio politico e lo sfruttamento delle risorse, vi sia la repressione culturale, l’annichilimento di modelli espressivi e di oggettivazione delle società locali. Per molti analisti in questo processo la vecchia Europa riuscì a esportare nelle colonie il modello di nazionalismo che le era stato proprio nei secoli XVII e XVIII, ovvero l’insieme delle dinamiche atte alla creazione di un concetto identitario, basato su una matrice di stato-nazione costruita ad hoc sulla percezione della sacralità dei confini della patria, della territorialità, e un’idea di storia nazionale supportata da musei e monumenti. Esiste un dibattito molto interessante in India che mette in luce come questo processo di acquisizione, che finì per sostituire la percezione di un paese basata tradizionalmente in passato su altri elementi, sia stato fondamentale nel movimento nazionalista indiano che d’altro canto portò all’Indipendenza.14) Questa stessa percezione filtra in un certo qual modo nella visione del primo governo indiano e in quella di Jawaharlal Nehru. La nazione indiana risulta alfine ricomposta sul territorio sacro di una Madre-India, ora libera ed emancipata. L’uguaglianza, la fratellanza e la collaborazione col popolo cinese stavano evidentemente per una certa India nella condivisione di questi valori, nel riconoscimento e nel rispetto reciproco della sacralità dei confini: la libertà di una nazione, mi si conceda questa sintesi, che naturalmente si risolveva dove cominciava la libertà dell’altra. Non è possibile ora affermare che la disputa sul confine himalayano non rappresentasse una priorità per la Cina, per quanto riguarda la sicurezza e l’integrità territoriale. Ma è anche vero che la prima epoca post-coloniale fu caratterizzata dalla rivoluzione culturale e dalla diffusione del comunismo. Soffiava un vento di cambiamento, dei nuovi ideali che stavano infiammando da qualche decennio (per quanto non in maniera uniforme) le diverse regioni d’Asia: su questo modello amo pensare che la Cina vedesse un possibile confronto col popolo indiano, una fratellanza costruita sulla condivisione di una prospettiva marxista sulle leggi che governano lo sviluppo storico della società umana. Ecco forse l’origine di una idiosincrasia che va chiaramente oltre il mero concetto di controllo di un confine.15) Tant’è che buona parte dell’India, così come in passato alcuni fra i suoi freedom fighters, abbracciava quell’ideale. In particolare in Bengala, ma non solo, vi furono movimenti – come quello Naxalita della celebre rivolta agricola del 1967 – che immaginavano la nuova nazione indiana prendendo chiaramente ispirazione dal modello che era stato della Cina di Mao Zedong (1893-1976). Questo fu interpretato come destabilizzante dal governo Indiano e il movimento, che pure oggi esiste ancora, ma è profondamente cambiato da quei tempi, è ancora bollato come “maoista” ed è considerato di stampo terroristico.
Facendo un passo indietro e tornando ancora agli anni dopo l’indipendenza indiana, quello che per molti fu un grande scempio della sacralità dei confini avvenne proprio con la Partition fra India e Pakistan, che causò devastanti disordini, una quasi guerra civile, nonché l’immane ferita ancor oggi aperta della questione del Kashmir. Per il primo governo indiano fu un compromesso inevitabile,16) ma altresì è interessante notare che all’alba dell’agognata indipendenza l’India era tutt’altro che unita. Esisteva, oltre ai blocchi di India e Pakistan, anche un terzo polo dei cosiddetti Princely States. Questi regni o principati erano entità nominalmente sovrane dell’Impero indiano britannico che non erano governate direttamente dagli inglesi, ma piuttosto da un sovrano locale, o mahārāja, sotto una forma di governo indiretto, soggetto a un’alleanza sussidiaria o alla condizione di suzerainity, o comunque soggetti alla supremazia della corona britannica. Nei primi anni dell’indipendenza questi potentati furono chiamati a scegliere se unirsi o meno alla nazione indiana, quindi il governo di Nehru ebbe un gran da fare a ricucire la nazione in questo senso. Decisioni cruciali furono prese anche in merito ai piccoli domini coloniali che altre potenze europee ancora mantenevano in India. Per esempio, si decise, con un’intesa nel 1954, che i territori francesi che gravitavano attorno a Pondicherry tornassero all’India. Il mancato accordo con il Portogallo sulla restituzione di Goa, Daman e Diu, motivò addirittura una brillante operazione militare, sulla cui legittimità ancora ci si interroga, che portò all’annessione con un rapido colpo di mano di ciò che rimaneva dello Estado da India Portuguesa.17) Vijay, “vittoriosa”, è il nome dell’operazione che condusse alla cosiddetta annessione dei territori di Goa. Il fatto di per sé è eclatante perché si trattò di un conflitto in piena regola, per quanto risolto nell’arco di poche ore e con perdite relative per le parti, contro uno stato occidentale che fu fra i primi a entrare nel blocco NATO. Nonostante l’accordo prevedesse una mutua difesa da aggressioni esterne, non vi furono rilevanti ripercussioni alla questione: troppo delicata la posizione dell’India in quegli anni, troppo distanti strategicamente i territori contesi. Contemporaneamente però vi fu plauso e approvazione da parte di Unione Sovietica e da molti dei governi del cosiddetto terzo mondo, che videro nell’azione di Nehru la legittimità di una nazione fino ad allora soggiogata dal dominio coloniale che si prendeva finalmente una rivincita contro l’imperialismo occidentale.18)
Il nesso con il conflitto cinese, che sembrerebbe non essere finora stato rilevato da altri, mi pare lampante. In questa operazione di ricucitura o ricomposizione dello stato-nazione, la posizione anti-imperialista dell’India si fonde con una sorta di irredentismo da parte di Nehru. L’operazione Vijay si svolse nel 1961, mentre già nel 1959 s’erano viste incursioni cinesi nel Ladakh e lungo la frontiera nord-orientale, a causa di un confine poco chiaro su cui s’estendeva ancora una zona d’ombra. Anche se pare ovvio oggi che, almeno al tempo, l’India non vedesse la Cina come una minaccia imperialista tout court, la disputa sul confine era evidentemente uno dei problemi da risolvere in un’agenda di più ampio respiro. Fiducioso nei pañcaśīla ed esaltato dalla vittoria militare contro una potenza occidentale, Nehru inviò le truppe indiane ad assicurare i confini della Madre-India e a contrastare quella che fu definita la forward policy cinese.19) Ma la situazione poltico-militare della Cina non era paragonabile al Portogallo né a quella di altre nazioni. Il conflitto del 1962, sfociato a seguito di una serie di scaramucce in alta quota – che come provato dal desecretamento e dalla divulgazione successiva dei rapporti e della documentazione relativa furono causate veramente da diverse percezioni dei confini e della loro violazione da entrambe le parti – fu un disastro per l’India.
Per quanto il conflitto Sino-Indiano si sia risolto in un lasso temporale breve, gli eventi che ebbero luogo dall’ottobre al novembre del 1962 sono di una certa complessità e un’adeguata analisi relativa richiederebbe uno spazio diverso. Mi pare però importante fare luce su un punto che ha spesso prodotto confusione fra i non addetti ai lavori, ovvero che il fronte dei combattimenti non fu uniforme. Vi furono due fronti distinti nel conflitto che, sebbene caratterizzati dalla finale supremazia del PLA (People’s Liberation Army), che riuscì a soverchiare il nemico conquistando una fetta considerevole di territorio, ebbero poi destini diversi e si presentano oggi come scenari con caratteristiche molto diverse, sia per quanto riguarda l’assetto strategico su più larga scala nel quadrante Sud Asiatico, sia per quanto riguarda le risorse intrinseche delle rispettive regioni.
Fig. 3: Pattuglia di soldati indiani nella guerra al confine sino-indiano del 1962 (da Wikipedia)
2.2 Il conflitto Sino-Indiano del 1962, “Western Theatre”: Potenzialità e ricadute
Il primo fronte, detto anche Western Theatre, consiste nella regione oggi nota come Aksai Chin cioè la parte orientale del territorio del Kasmir che include parte della regione del Ladakh. La Repubblica Popolare Cinese cominciò negli anni ’50 a costruire una strada che collegava lo Xinjiang al Tibet occidentale, il famoso progetto della China National Highway 219, una parte della quale attraversava proprio la regione dell’Aksai Chin rivendicata dall’India. L’avanzata cinese del ’62 riuscì a strappare all’India circa 38.000 kilometri quadrati di un territorio la cui importanza strategica, anche sotto il profilo dello sviluppo dell’infrastruttura, appare oggi lampante. Ma la portata di questa azione a ridosso di uno degli scenari più caldi del mondo, ovvero al confine kashmiro – a sua volta conteso fra Pakistan e India – ebbe un valore di più ampio respiro nello scenario Sud Asiatico. Infatti questo fu il preludio di un riavvicinamento fra Cina e Pakistan che oggi risulta uno dei più grandi motivi di preoccupazione per la politica estera indiana.20)
In sintesi è possibile affermare che la forward policy cinese era stata motivo di turbamento anche per il governo pakistano. Tuttavia il mancato accordo per un fronte comune con la vicina India, portò i governi di Beijing e Rawalpindi-Islamabad21) a trovare assieme una soluzione alternativa, che addirittura concedeva alla Cina sezioni aggiuntive dell’Aksai Chin. La Shaksgam Valley o Trans Karakoram Tract infatti fa attualmente parte dell’Hunza-Gilgit: una regione definita Pakistan Occupied Kashmir (POK), che pur essendo territorio conteso rivendicato dall’India, era al tempo controllato dal Pakistan. Propaggine nordorientale del POK più settentrionale, la regione è delimitata a est dal ghiacciaio Siachen, ma confina a nord proprio con la provincia dello Xinjiang. La Shaksgam Valley fu quindi ceduta dal Pakistan alla Cina tramite un accordo siglato nel 1963, quasi immediatamente dopo la sospensione delle ostilità fra indiani e cinesi (ma che beninteso non fu mai riconosciuto dall’India che ancora lo considera parte della questione kashmira). D’altro canto per il Pakistan il trattato fu discretamente vantaggioso, in parte perché alcuni altri territori di diverso valore economico furono offerti in cambio, ma più che altro fu significativo politicamente, dal momento che – oltre a ridurre il potenziale di conflitto tra Cina e Pakistan – riuscì a dimostrare come implicitamente la Cina fosse pronta ad abbracciare la prospettiva pakistana nel considerare la regione del Kashmir (o buona parte di essa) come non appartenente de facto ancora all’India.22) Inoltre l’accordo gettò le basi del progetto di realizzazione dell’autostrada del Karakoram, costruita insieme dagli ingegneri cinesi e pakistani negli anni ’70, nonché di una serie di altri scambi bilaterali che confermeranno un’alleanza strategica di lunga data fra i due paesi. Si consideri che parallelamente New Delhi affrontò problemi maggiori d’ordine territoriale, di leadership e di status nell’Asia meridionale, che furono alla base di diversi conflitti (convenzionali e non) con lo stato nemico del Pakistan; le relazioni Cina-Pakistan in questo contesto hanno contribuito ad accrescere la percezione della minaccia cinese verso l’India.
In ambito militare infatti suddetto connubio garantisce l’assistenza di Beijing all’esercito pakistano e il miglioramento delle capacità di difesa del Pakistan, oltre a fornire supporto diplomatico riguardo alla disputa del Kashmir; la Cina avrebbe anche aiutato il Pakistan in epoca più recente a diventare uno stato dotato di armi nucleari fornendo informazioni tecniche, missili e strutture in grado di dispiegare i sistemi d’arma. Oltre alle basi militari, la Cina sta investendo anche in un progetto di ampio respiro atto a implementare una vasta serie di infrastrutture sul territorio che rientrano sotto l’egida del cosiddetto China–Pakistan Economic Corridor (CPEC). Qui, in luoghi emblematici come Port Gwadar – sulla fascia costiera del Baluchistan che si affaccia sul mare arabico (ora per concessione sotto controllo operativo della China Overseas Port Holding Company) – si congiungono l’insieme dei progetti relativi alla Maritime Silk Road e alla famosa Belt & Road Initiative.23) La collaborazione sempre più stretta fra Cina e Pakistan, quasi una sorta di effetto domino dai tempi del conflitto Sino-Indiano, è motivo di preoccupazione per New Delhi dunque non solo sulla dorsale himalayana, ma sostanzialmente anche per tutto quello che riguarda lo sviluppo di iniziative commerciali, rotte marittime, nonché la leadership nella regione dell’Oceano Indiano, l’area Indo-Pacifica – Sudest Asiatico incluso.24) Tanto che in India si parla oggi di una vera “sindrome di accerchiamento”, fonte di perenni sospetti nei confronti della Cina. I cinesi infatti avrebbero – secondo alcuni analisti – addirittura mitigato sistematicamente il perseguimento anche di obiettivi strategici comuni, rafforzando la percezione a New Delhi che Beijing stia favorendo una politica atta a contenere intenzionalmente l’India in Asia meridionale. Ecco dunque che, sebbene in teoria sembrerebbe non esservi un vero nesso fra la vicenda dell’Aksai Chin nella guerra del ’62 con la questione della collaborazione Cina-Pakistan, se non per quanto riguardò la definizione alquanto aleatoria dei confini in epoca coloniale,25) mi auguro tuttavia di aver dimostrato come in pratica il cosiddetto Western Theatre sia oggi di grande importanza per le molteplici implicazioni in merito all’egemonia su una considerevole regione asiatica.
Fig 4: I confini contesi fra Cina e India (da Wikimedia Commons)
2.2. Il conflitto Sino-Indiano del 1962, “Eastern Theatre”: Potenzialità e ricadute
Il secondo cruciale scenario di conflitto nella guerra del 1962 è il cosiddetto Eastern Theatre, che si sviluppò più propriamente lungo la McMahon Line (e oltre), nell’odierno stato indiano dell’Arunachal Pradesh. Questo fu un teatro di operazioni su più larga scala, con combattimenti più feroci. L’attacco a sorpresa del PLA si basò sostanzialmente su una serie di manovre di accerchiamento dell’esercito indiano: in una prima fase gli avamposti che controllavano i ponti sul Namka Chu furono aggirati dopo che i cinesi riuscirono a guadare il fiume più a sud; successivamente fu aggirata la linea di difesa indiana attestata al Se La Pass, l’ultimo valico di alta montagna che si affaccia al distretto di Tawang, famoso per i suoi monasteri buddhisti. In breve il PLA fu in grado di attraversare alti valichi di montagna e di sorprendere gli indiani attaccando nuovamente da sud della linea contesa. Successivamente dunque, avendo tagliato le linee di rifornimento, i cinesi riuscirono a isolare alcune divisioni indiane e a catturare alcune colonne di uomini e mezzi inviati in loro supporto. Il grosso dell’esercito indiano presente nell’area ripiegò verso sud oppure oltre il confine bhutanese, ma molti furono costretti alla resa e catturati dal nemico. Per altri non vi fu alternativa che la strenua resistenza fino all’estremo sacrificio, mentre il PLA dilagava verso la pianura assamese. Questa disfatta fu un’autentica doccia fredda per il governo indiano, che mise in luce tutta l’inadeguatezza delle sue forze armate e la mancata lungimiranza dello stesso Nehru sulla border policy e sulla vera natura di quelli che avrebbero dovuto essere i rapporti di amicizia con la Cina. Il 21 novembre del 1962 Zhou Enlai dichiarò il cessate il fuoco unilaterale e il ritiro del PLA di una ventina di kilometri su entrambi i fronti nonostante i successi ottenuti. Occorre notare che negli accordi che seguirono, se la Cina rivendicò sostanzialmente la conquista dell’Aksai Chin, sul fronte orientale invece si tornò allo status quo ante bellum, con il ritiro totale dei cinesi oltre la McMahon Line.26) Questo però non attenuò di fatto la critica e la generale sfiducia che il governo di Nehru ottenne di fronte a questa dura lezione di realismo.27)
La restaurazione del confine indiano e il ritorno allo status quo, dopo la fulminea avanzata cinese, fu sempre percepita come una vicenda di una certa ambiguità da New Delhi. Per quanto la Cina con gli anni abbia esplicitato le motivazioni del momento, alcuni interpretarono il fatto come una eclatante dimostrazione di forza e un severo monito nei confronti della nazione vicina. Ma gli storici sono per lo più dell’opinione che la dichiarazione del cessate il fuoco sia stata motivata dall’esigenza di prevenire il coinvolgimento degli Stati Uniti a supporto dell’India, eventualità che si stava facendo sempre più concreta. D’altro canto è interessante notare che la Cina avviò la grande operazione di attacco e invasione dei territori indiani in uno dei momenti più cruciali della Guerra Fredda, ovvero nel mezzo della crisi dei missili cubana del ’62, in un frangente dove l’attenzione internazionale era catalizzata altrove. L’idea di un territorio conquistato e poi malvolentieri “restituito” ha dato motivo nei decenni a venire a diversi portavoce del governo cinese di avanzare pretese territoriali in nome dei successi militari del ’62.28) In una prospettiva più ampia è possibile dire che la frontiera nordorientale dell’India appaia ai cinesi tutto sommato poco indiana: abitata in grande prevalenza da popoli indigeni nativi i cui tratti etnico-somatici sembrerebbero essere più prossimi all’area cinese-himalayana o al Sudest Asiatico, in essa si parlano diverse lingue e dialetti che discendono dal ceppo tibeto-birmano o comunque dalla famiglia sino-tibetana, per quanto non sinici. Inoltre la regione dell’Arunachal Pradesh, inclusa dalla McMahon line nel territorio indiano, si considerava come la regione del Tibet meridionale. D’altro canto la via che ancor oggi attraversaa Bomdila nel West Kameg e Tawang nell’omonimo distretto, attraverso il Se La pass, che fu teatro della guerra, si considerava la “porta orientale” di accesso a Lhasa: una delle antiche vie di pellegrinaggio e scambio commerciale verso il cuore del Tibet.
In un articolo di alcuni anni fa,29) proponevo di spostare il focus dell’analisi dai confini contesi fra Cina e India, proprio sulla realtà socio-storica del Nordest indiano. Questo è infatti un territorio estremamente complesso, variegato, in cui il fascino e la profondità delle culture e dei popoli presenti eguaglia la magnificenza – congiunta a una certa ruvidezza – di una geografia unica e non sempre di facile accesso. In sintesi è possibile affermare che tutta la cosiddetta frontiera nordorientale dell’India sia popolata da un caleidoscopio di minoranze etniche che attraverso la storia, da prima ancora del periodo coloniale, si erano dimostrate poco inclini alla dominazione straniera. Animate da un forte senso identitario e di appartenenza al territorio, spesso impiegato per dare forza a spinte centrifughe, oggi queste regioni sono un crogiolo di movimenti separatisti (che in alcuni casi hanno cercato di perseguire i propri obiettivi attraverso la lotta armata). In particolare la Partition del Bangladesh (allora Pakistan “Orientale”), che ha logisticamente separato il Nordest dall’India continentale, ha contribuito a intensificare un senso di separazione e abbandono da parte delle istituzioni del Subcontinente. Al di là del minore o mancato sviluppo delle infrastrutture e dei servizi rispetto al resto della nazione, è proprio l’Indipendenza del Bangladesh e la questione tibetana che hanno innescato fenomeni diasporici senza precedenti nella regione, acuendo nel tempo le tensioni interetniche. Nel tentativo di destabilizzare un territorio in grado di destabilizzarsi già da sé, è provato che la Cina in passato avesse supportato le insurrezioni Mizo e Naga in chiave anti-indiana.30) Per questo motivo il recupero del Nordest – e se vogliamo l’abbraccio e l’inclusione nel dharma indù delle minoranze indigene, priorità oggi nell’agenda della destra conservatrice indiana – è un imperativo perseguito con un certo successo dalla politica del Primo Ministro Narendra Modi.31) L’India vede in questa regione un territorio che le è sempre appartenuto, testimonianza ne sono la storica presenza di centri brahmanici, luoghi sacri di pellegrinaggio indù e in larga parte buddhisti, ma anche i resti delle vestigia delle istituzioni islamiche che, in epoca Mughal, qui spingevano le propaggini dell’impero. Di converso le popolazioni locali nel tempo si sono riconosciute poco nelle istituzioni indiane, ma è vero anche che questo atteggiamento è ancor più radicale nei confronti della Cina. In breve apparirà chiaro come le dinamiche che porteranno all’inclusione, ai diritti civili e allo sviluppo di questo complesso scenario sociale sono alla base della stabilizzazione del controllo del territorio, che a sua volta, come in un gioco di specchi, potrà riverberare un notevole peso sulla questione internazionale dei confini.
Va anche considerato che l’intera regione, oltre ad essere di per sé uno degli angoli più affascinanti e incontaminati da un punto di vista naturalistico e della biodiversità del pianeta, racchiude in sé potenzialità e risorse notevoli sul suolo e nel sottosuolo. Gran parte dei fiumi della regione ha un potenziale enorme che attende di essere sfruttato, anche solo per la produzione di energia idroelettrica per cui si stima una capacità di circa 50.000 megawatt di elettricità solo per la zona di confine dell’Arunachal Pradesh.32) Qui si è siglata una serie di memorandum of understanding (MoU) con compagnie e gruppi privati, degli accordi cioè per la costruzione di grandi opere, fra cui si annovera l’edificazione di più d’un centinaio di dighe nello stato. Tali progetti hanno talvolta causato ansietà nella popolazione locale per il rischio di instabilità sismica e di inondazioni durante la stagione delle piogge. Infatti gli incidenti negli impianti cinesi d’oltre confine sono stati frequenti, le ripercussioni dei quali si sono subite anche nei villaggi del versante indiano. Ho avuto occasione di raccogliere effettivamente molte interviste in merito, parlando con la gente dei villaggi lungo la zona di confine, durante il lavoro di ricerca sul campo negli anni passati. Va notato infatti che la quasi la totalità dei fiumi della regione ha origine in territorio cinese e scorre attraverso di esso prima di raggiungere l’India: da ciò risulta una certa chiara dipendenza del Subcontinente che è posto per così dire “a valle” rispetto alla Cina che si trova più “a monte”. Ma forse l’episodio più discusso in merito alla cosiddetta riparian issue consta nella nota e controversa questione della deviazione dello Yangtze-Brahmaputra.33) La minaccia della deviazione del gigantesco corso del fiume – un progetto concreto che è stato ventilato da tempo dagli ingegneri cinesi – per compensare con la sua portata d’acqua la siccità che affligge alcune remote aree della Cina, implica l’ovvio e conseguente rischio di disastro ambientale nella pianura assamese, il cuore del Nordest indiano. Le leggi internazionali d’altro canto permettono a ogni paese di sfruttare le acque sorgive o che scorrono nel proprio territorio, ma nel caso di fiumi il cui corso attraversi i confini di più stati, la cosiddetta Customary International Law è più ambigua in materia. Si prevede infatti che gli interessi degli stati ripari debbano essere garantiti assicurando al contempo un’equa distribuzione delle acque secondo una percentuale ragionevole, lasciando del resto una vaga definizione di cosa esattamente possa essere considerata tale.34)
Sarà chiaro come la questione idrica, nell’epoca dei cambiamenti climatici e del drammatico scioglimento dei ghiacciai anche lungo la dorsale himalayana, sia assolutamente cruciale oggi. Analogamente a quanto visto più sopra, mi auguro di aver inquadrato con sufficiente chiarezza come, anche nel versante orientale, gli eventi e i risvolti del conflitto di una sessantina di anni fa siano intrinsecamente intrecciati con questioni di primaria importanza oggi e abbiano evidenti ricadute nella prospettiva del controllo di risorse cruciali per l’Asia-Centrale.
Fig. 5: La catena himalayana vicino al confine sino-indiano (da Wikimedia Commons)
3. Una terza guerra mondiale combattuta con pietre e bastoni
Alcuni anni fa ho avuto diverse occasioni di visitare la frontiera sino-indiana sul versante dell’Arunachal Pradesh, nell’area di Tawang e più oltre verso il Myanmar. Ho quindi potuto visitare alcune zone militari e in un paio di occasioni ho invece dovuto soggiornare all’interno di basi per questioni di sicurezza. Posso dire che, per quanto riguarda il versante indiano, mi colpì la grande organizzazione delle strutture militari, il dispiegamento dei mezzi e soprattutto il coinvolgimento della popolazione locale nel mantenimento di strade e infrastrutture, per la loro importanza cruciale, pur in un ambiente difficile, montuoso, ricoperto in parte di giungla e sottoposto a forte erosione nella stagione monsonica. Percepii un clima che non posso definire di tensione, ma di un costante stato d’allerta, diventato così quasi routinario. Ricordo discorsi tutto sommato ordinari: i soldati rajput narravano i mesi di servizio e lamentavano la nostalgia di casa, altrove la pesantezza dei turni di pattuglia era evidente. Sopra a tutto il crepitare cadenzato più o meno continuo delle armi da fuoco impiegate a turno nelle esercitazioni. Impressionante l’ibridazione degli elementi in un paesaggio selvaggio, incastonato di monasteri buddhisti e luoghi sacri alle popolazioni di montagna e ai loro sciamani, in cui improvvisamente prevale lo straniante, quasi alienante, ordinamento militare: una novella fortezza Bastiani – per citare il celebre Dino Buzzati – che vigila silente verso il nord il ritorno di un nemico, che forse potrebbe non arrivare mai. Per ovvi motivi non ho potuto porre domande sulla controparte cinese, ma mi sono accorto presto quanto questa immobilità fosse solo apparente: come in un gioco di scacchi, il monitoraggio dei movimenti da entrambe le parti è costante e non sono rari, come mi fu riferito, gli scambi di cosiddetti colpi di avvertimento.
D’altro canto, osservando la linea temporale degli eventi maggiori sul confine conteso, appare chiaro che a scapito dei numerosi organismi di consultazione creati secondo accordi bilaterali per la risoluzione della disputa,35) sono altrettanto numerosi gli “incidenti” che hanno di nuovo alzato la tensione dal 1962 a oggi. Si tratta di una serie di scaramucce di confine, talvolta con esiti tutt’altro che trascurabili, che negli anni hanno suscitato il timore di un’irreversibile escalation.36) L’ultimo di questi eventi si è verificato nel giugno del 2020 nella Galwan Valley e ha riaperto il fronte dell’Aksai Chin. La circostanza ha una sua complessità che qui possiamo riportare solo in sintesi. A seguito di una intensificazione della presenza militare cinese al di là del confine e a seguito di altri incidenti accaduti sul versante orientale del Ladakh, che delimita l’Aksai Chin (in particolare sul Pagong Lake), l’esercito indiano avrebbe cercato di contenere le ripetute violazioni e attraversamenti del PLA della LAC (Line of Actual Control). Da una situazione di stallo, definita “standoff”, in cui i due eserciti si fronteggiavano, s’è passati a episodi di zuffe furibonde con lancio di sassi e uso di armi non convenzionali. Una ventina di soldati indiani hanno perso la vita a seguito delle ferite, o perché scaraventati giù dal crinale o perché incapacitati sul campo sono stati sopraffatti dall’ipotermia.37) Anche se inizialmente negato dal governo cinese,38) da fonti di intelligence straniere e dall’India è riportato il doppio delle perdite per il PLA per le medesime cause. Indefinito il numero dei feriti, anche gravi, e dei prigionieri successivamente scambiati per entrambe le parti. Per quanto gli apparati governativi si siano immediatamente attivati per la risoluzione diplomatica della disputa e per evitare un’ennesima volta l’escalation della tensione, l’incidente ha colpito l’opinione pubblica per la sua brutalità. L’uso di armi e tattiche non convenzionali, come il lancio di pietre e la caduta di massi e materiali diversi potenzialmente dannosi sulle posizioni del nemico, è un adeguamento alla convenzione, accettata bilateralmente, secondo cui i soldati sulla linea di confine dovrebbero viaggiare disarmati o con armi scariche. Questo fu un altro accorgimento per evitare incidenti maggiori fra gli schieramenti, che sovente giungono a distanza ravvicinata. Il bando sarebbe stato aggirato da diversi reparti cinesi che avrebbero attraversato il confine con armi bianche, incluse mazze chiodate e spranghe di ferro avvolte nel filo spinato.39) La reazione indiana non s’è fatta attendere, con il tempestivo equipaggiamento, dopo l’incidente, delle truppe di confine con tenute antisommossa e la rimozione del divieto sulle armi da fuoco.40) D’altro canto un numero esorbitante di colpi d’avvertimento furono scambiati da entrambe le parti nelle diverse fasi della crisi.
Fig. 6: Guardie di frontiera cinesi e pakistane presso il passo Khunjerab (da Wikimedia Commons)
Questo dettaglio, non indifferente, di un ritorno a una lotta corpo a corpo, senza quartiere, feroce, sembra rievocare la celeberrima massima attribuita, forse non troppo correttamente, a Einstein. Non è però la terza guerra mondiale qui a essere combattuta col nucleare e la quarta con le pietre, ma tutti questi aspetti sono in un certo senso contemporaneamente impliciti, connessi, ineluttabili, quando l’incomprensione fra popoli e paesi è spinta verso la china del contrasto, che per sua natura sempre si fa brutale. Da un lato, per alcuni, appare ormai anacronistico il frugare ancora nelle politiche e nelle eventuali lacune della cartografia d’era coloniale, così come la questione tibetana – che fu per certo il principale propulsore del conflitto del 1962 e delle successive tensioni41) – appare oggi dai governi e dalle nuove generazioni abbastanza uniformemente accettata, pur con un certo disappunto da parte di molti. Alcuni analisti azzardano che tutto sommato la localizzazione della disputa, per quanto la border policy sia importante a comprendere le potenzialità dello scenario himalayano, sia tutto sommato irrilevante a fronte del crescente squilibrio di potere fra Cina e India che sarebbe la vera causa della moderna controversia. D’altro canto è ormai abbastanza palese che quanto accade sia una sorta di effetto collaterale della tracimante assertività cinese nei mercati internazionali, e nelle politiche territoriali, sul confine sino-indiano, come nel Mar Cinese Meridionale. L’India in questo contesto biasima la cosiddetta strategia cinese “dell’affettare il salame” (salami slicing)42) secondo cui il governo di Beijing userebbe piccole e graduali provocazioni, nessuna delle quali costitutiva di per sé di un casus belli, ma in grado di produrre cumulativamente un vantaggio ampio a favore della Cina, che sarebbe altrimenti stato arbitrario conseguire in una volta sola. La strategia territoriale nell’Aksai Chin sarebbe un chiaro esempio dell’applicazione di questa tattica: col supporto di un movimento massiccio di truppe nelle retrovie e con l’implementazione crescente di vari tipi di infrastrutture militari e civili, si è arrivati a impadronirsi gradualmente e sfacciatamente di una serie di aree di confine che si trovavano sotto il controllo indiano. Episodi analoghi si sarebbero registrati nel Pamir in Tajikistan, sul confine fra Nepal e Cina e ancora a ridosso del Bhutan.43)
Sul piano economico è interessante notare che il conflitto non abbia finora portato rilevanti alterazioni, anche se si sono diffuse campagne di boicottaggio dei prodotti cinesi e ogni tanto è stata ventilata l’ipotesi di sanzioni. Dati doganali del governo indiano riportano che le esportazioni della Cina verso l’India del 2020 sarebbero diminuite del 24,7% forse a causa di suddette campagne, mentre la quota delle società cinesi di smartphone nel mercato indiano sarebbe scesa fino a circa l’80% nello stesso anno. Ma molti attribuiscono questo calo al fisiologico temporaneo crollo di alcuni settori dell’economia a seguito delle restrizioni imposte della pandemia di COVID-19. Tant’è che molte testate economiche asseriscono che oggi il flusso di import-export India-Cina stia tornando quasi ai livelli precedenti la pandemia.44) Pertanto nell’assunzione che, anche in questo caso, il conflitto sul confine non sia riuscito a mettere in crisi il valore, evidentemente percepito come più alto, dello scambio commerciale fra Cina e India, sembra essere convalidata la premessa fatta in incipit. È dunque legittimo considerare questi recenti attriti come una nuova “fase pericolosa”? Per rispondere alla domanda oggi è sempre più necessario analizzare nel dettaglio la miriade di fattori che hanno determinato e continuano a determinare l’interazione fra i due paesi, ma soprattutto sembra imprescindibile una disamina dei punti di convergenza e divergenza nei legami fra India e Cina e la loro eventuale crescita o collasso.
Immagine: confine fra Cina e Pakistan al passo Khunjerab (da Wikimedia Commons)
Stefano Beggiora è professore associato presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’università Ca’ Foscari di Venezia, dove insegna Storia dell’India, Storia moderna e contemporanea del Sud Asia, Environmental History and Humanities in India. Inoltre è docente di Etnografia dello Sciamanesimo e Letteratura Hindi. Specializzato nello studio dello sciamanismo asiatico, ha svolto più di vent’anni di ricerca presso popoli indigeni e minoranze etniche prevalentemente del Subcontinente indiano. Ha pubblicato diversi libri e più di cento articoli scientifici sulla storia e le religioni delle comunità native (adivasi) dell’India, ma anche sui diritti umani delle minoranze, sulla politica contemporanea, l’economia e i rapporti internazionali in Asia. Attualmente è direttore della collana STRADE (Spiritualità e tradizioni religiose: approcci, discipline, etnografie) dedicata agli studi antropologici e religiosi edita da Franco Angeli (Milano) e della rivista scientifica Lagoonscapes dedicata alle Environmental Humanities pubblicata dalla casa editrice universitaria veneziana.
↑1 | Rispettivamente al secondo e al sesto posto per il 2021 (World Development Indicators database, World Bank, 1 luglio 2022). |
---|---|
↑2 | “India-China Trade Grows to Record $125 Billion in 2021 despite Tensions in Eastern Ladakh”, The Economic Times, 14 gennaio 2022. |
↑3 | J.M. Malik, “China-India Relations in the Post-Soviet Era: The Continuing Rivalry”, The China Quarterly, 142, 1995: 317-355. |
↑4 | C. Bajpaee, “China-India: Regional Dimensions of the Bilateral Relationship”, Strategic Studies Quarterly, 9, 4, 2015: 108-145. |
↑5 | C. Ogden, “The Double-Edged Sword: Reviewing India–China Relations”, India Quarterly, 78, 2, 2022: 210-228. |
↑6 | R.S. Basi, “Communist China and India’s Non-Alignment”, Social Science, 39. 4, 1964: 226-233. |
↑7 | C. Dasgupta, “A Brief History of Panchsheel”, Economic and Political Weekly, 51, 1, 2, 2016: 26-31. |
↑8 | N. Maxwell, India’s China War ” (J.Cape, London / Pantheon Books, New York: 1970); A.R. Das Gupta, L.M. Lüthi, The Sino-Indian War of 1962. New Perspectives (Routledge, London / New York: 2016), W.P. Singh Sidhu, J-D.Yuan, China and India: Cooperation or conflict? (Lynne Rienner Publishers, Boulder, Colorado: 2003). |
↑9 | A. Lamb, The McMahon Line, A Study in the Relations between India, China and Tibet, 1904 to 1914, Vol. II (Routledge & Kegan Paul, London: 1966), 537. |
↑10 | S. Beggiora, “Seven Sisters: identità etnica, tribù e nazionalismo all’ombra del conteso confine Cina-India”, Ethnorêma, 6, 2010: 33-51. |
↑11 | M.C. Goldstein, A History of Modern Tibet, 1913-1951: The Demise of Lamaist State (University of California Press, Berkeley-Los Angeles/London: 1991), 76. |
↑12 | T. Fang, Asymmetrical Threat Perceptions in India–China Relations (Oxford University Press, New Delhi: 2013); A.M. Kacowicz, Peaceful Territorial Change (University of South Carolina Press, Columbia: 1994), 71. |
↑13 | A. Gosh, “Before 1962: The Case for 1950s China-India History”, The Journal of Asian Studies, 76, 3, 2017: 697-727; H. Xiaowen, “The 1950s China-India Relations”, in K. Bajpai, S. Ho, M. Chatterjee Miller, Routledge Handbook of China–India Relations (Routledge, London / New York: 2020) 87-104. |
↑14 | C. Jaffrelot, “For a Theory of Nationalism”, Research in Question, 10, 2003: 1-51. |
↑15 | Cfr. anche S.K. Mitra, Politics in India Structure, Process and Policy (Routledge, New York: 2017), 235. |
↑16 | Si noti che fu una delle maggiori motivazioni addotte all’omicidio di Gandhi da parte dei suoi esecutori. |
↑17 | P. Bravo, “The Case of Goa: History, Rhetoric and Nationalism”, Past Imperfect, 7, 1998: 125-154. |
↑18 | “International Reactions to Indian Attack on Goa—Soviet Veto on Western Cease-fire Resolution in Security Council”, Keesing’s Record of World Events, 8, 1962: 18659; S. Korman, The Right of Conquest: The Acquisition of Territory by Force in International Law and Practice (Clarendon Press / Oxford, New York / Oxford: 2003), 267 e segg. |
↑19 | C. Feng, L.M. Wortzel, “PLA Operational Principles and Limited War: The Sino-Indian War of 1962”, in M.A. Ryan et al. (a cura di), Chinese Warfighting. The PLA Experience Since 1949 (Routledge, New York: 2016),173-197. |
↑20 | J.W.Garver, “China’s Kashmir Policies”, India Review, 3, 1, 2004: 1–24. |
↑21 | La prima capitale del Pakistan fu Karachi, spostata ad interim a Rawalpindi sede delle forze armate nel 1959, fino al completamento dello sviluppo della vicina Islamabad, nuova capitale e sede attuale del governo dal 1967. |
↑22 | B. Lintner, China’s India War Collision Course on the Roof of the World (Oxford University Press, New Delhi: 2018); J. Singh (a cura di), China’s India War, 1962 Looking Back to See the Future (KW Publishers, New Delhi: 2016), passim. |
↑23 | S.O. Wolf, The China-Pakistan Economic Corridor of the Belt and Road Initiative Concept, Context and Assessment (Springer / Palgrave McMillan, Cham: 2020. |
↑24 | A. Mills, “India and the China–Pakistan Relationship: De-hyphenation and Re-hyphenation”, in K. Bajpai, S. Ho, M. Chatterjee Miller (a cura di), Routledge Handbook of China–India Relations (Routledge, London / New York; 2020), 410-419. |
↑25 | Per la precisione qui ci troviamo oltre la McMahon Line che si sviluppa più a oriente, ma una situazione del tutto analoga si ripresenta con il tratto definito The Macartney–Macdonald Line, che andò a corroborare una precedente Johnson Line. Si veda anche V. Prashad, “Tutta colpa dei britannici se ci scanniamo per le frontiere”, Limes, 6 [Pianeta India], 2009: 187-191. |
↑26 | Tutti i dati relativi alle operazioni sono disponibili nella bibliografia segnalata. In particolare si noti: N. Maxwell, op.cit.; 291 e segg.; 360 e segg; N. Maxwell, China’s Borders. Settlements & Conflicts (Cambridge Scholars Publishing, Newcastle: 2014), 120 e segg. Inoltre: I. Vengasseri, 1962 Border War: Sino-Indian Territorial Disputes and Beyond (SAGE Publications, India, New Delhi: 2021). |
↑27 | Incominciò a circolare un motteggio del celebre slogan hindi chini,che sostituiva i “fratelli”(bhai bhai) con un inglese laconico: bye bye! Tuttavia molti analisti oggi considerano che la doccia fredda del 1962 fu fondamentale per il riassetto delle forze armate indiane e per l’allocazione delle risorse che la Difesa ebbe dagli anni ’60 a oggi. |
↑28 | Solo per fare qualche esempio, nel 1986 il vice Ministro degli Esteri cinese Liu Shuqing aveva dichiarato che circa 90.000 kilometri quadrati di territorio cinese fossero sotto l’occupazione indiana. Nel novembre 2006 l’Ambasciatore cinese in India, Sun Yuxi, rivendicò come cinese l’intero stato dell’Arunachal Pradesh. Cfr. S. Beggiora, “Stabilità e conflitto fra India e Cina: cooperazione e sviluppo o una nuova Guerra Fredda?”, Geopolitica, IV, 2015: 103-121. |
↑29 | S. Beggiora, “Ethnicity and Nationalism on the Northeastern Frontier. New Scenarios and Alternative Future for the China-India Disputed Border”, Annali di Ca’ Foscari, Serie Orientale, 50, 2014: 157-173. |
↑30 | D. Norbu, “Tibet in Sino-Indian Relations: The Centrality of Marginality”, Asian Survey 37, 11, 1997: 1078-1095; S. Bhaumik, “Insurgencies in India’s Northeast: Conflict, Co-option & Change”, East-West Center, 10, 2007: 2-43. |
↑31 | P.K. Padhy, “How Modi Government has Transformed Northeast in 8 Years?”, Organiser, The Voice of the Nation, 9 giugno 2022; “Northeast States on Path to Fast-paced Development: PM Modi”, The Times of India, 22 gennaio 2022. |
↑32 | N. Goswami, “China’s Claim on Arunachal Pradesh: Local Perspectives”, Institute for Defence Studies and Analyses (IDSA) Issue Brief (7 luglio), 2011: 1-18. |
↑33 | S.I. Hasnain, “The Geopolitics of Himalayan-Tibetan Glacier Melt”, in A. Ahmed et al. (a cura di), Towards a New Asian Order (Shipra Publications/IDSA, New Delhi: 2012), 297-306. |
↑34 | M. Bisht, “Water Diplomacy and India’s National Strategy”, in V. Krishnappa e G. Princy (a cura di), Grand Strategy for India, 2020 and Beyond (Pentagon Security International/IDSA, New Delhi: 2012), 315-29; U.K. Sinha, “Himalayan Hydrology and Hydropolitics”, in A. Ahmed et al. (a cura di), Towards a New Asian Order (Shipra Publications/IDSA, New Delhi: 2012), 307-24. |
↑35 | In sintesi si segnala la formazione di un Joint Working Group del 1982; la stipula del Border Peace and Tranquility Agreement del 1993 seguito nel 1996 dall’Agreement on Military Confidence Building Measures; il Working Mechanism for Consultation and Coordination on India–China Border Affairs del 2012; e infine il Border Defence Cooperation Agreement del 2013. Cfr. W. van Eekelen, Indian Foreign Policy and the Border Dispute with China. A New Look at Asian Relationships (Brill, Leiden: 2016), 234–263. |
↑36 | In breve ricordiamo i combattimenti di Cho La e Nathu La del 1967 (Sikkim) che causarono diverse decine di perdite da entrambe le parti; l’imboscata cinese del Tulung La ai danni degli Assam Rifles del 1975 (Arunachal Pradesh); l’incidente della Sumdorong Chu Valley del 1987 (Arunachal Pradesh), le impasse alla Depsang Valley nel 2013 (Aksai Chin) e sull’altopiano di Doklam del 2017, che causò diversi feriti da entrambe le parti (sul confine fra Cina India e Bhutan). S. Beggiora, op. cit. 2014: 175; Mitra, S. Thaliyakkattil, “Bhutan and Sino–Indian Rivalry”, Asian Survey, 58, 2, 2018: 240-260. |
↑37 | M. Safi , H. Ellis-Petersen, H. Davidson, “Soldiers Fell to their Deaths as India and China’s Troops Fought with Rocks”, The Guardian, 17 giugno 2020. |
↑38 | La prospettiva cinese si dichiara diametralmente opposta, delegando a un portavoce militare la rivendicazione della Galwan Valley. Cfr. L. Jiayao (a cura di), “Chinese Military Demands Indian Border Troops Stop Infringing and Provocative Actions”, Ministry of National Defense of the People’s Republic of China, Beijing, 16 giugno 2020. |
↑39 | A. Bhalla, “India-China standoff: Brute Chinese Soldiers Brought Guns, Spears, Machetes to Monday’s Skirmish”, India Today, 9 settembre 2020. |
↑40 | P.D. Zore, “If any Chinese Comes with a Baton or Barbed Wire, Shoot the Chap Dead”, Rediff.com, 25 giugno 2020. |
↑41 | M.S. Pardesi, “The Initiation of the Sino-Indian Rivalry”, Asian Security, 15, 3, 2019: 253-284. |
↑42 | B. Chellaney, “China’s Expansionism Enters Dangerous Phase”, The Hill, 25 agosto 2020. |
↑43 | S. Romaniuk, T. Burgers, “The South China Sea as an Echo Chamber of Chinese Foreign and Security Policy”, in G. Houlden, S. Romaniuk, H. Nong (a cura di), Security, Strategy, and Military Dynamics in the South China Sea: Cross-National Perspectives (Bristol University Press / Policy Press; Bristol /London: 2021:), 34. |
↑44 | B. Pattanayak, “Border Clash Fails to Dampen India-China Trade”, Financial Express, 9 settembre 2020. |
Commenti recenti