Ucraina: battaglie e annessioni all’ombra della “bomba”
da ANALISI DIFESA (Mirko Molteni)
Domenica 2 ottobre 2022, la segnalazione da parte dell’intelligence della NATO ai paesi membri che “i russi stanno muovendo il sottomarino K-329 Belgorod nelle acque artiche del Mare di Kara per collaudare il siluro-drone nucleare Status 6 Poseidon”, si è aggiunta come ulteriore segno di allarmismo, degno delle stagioni peggiori della Guerra Fredda USA-URSS.
In realtà movimenti di unità navali e aeree in segno di deterrenza, da parte di entrambi gli schieramenti, sono una prassi consolidata, ma è il periodo che attuale che assegna significati particolari a manovre che in altri tempi verrebbero reputate di routine.
Nel caso russo l’obiettivo sembra essere quello di ribadire che si dispone di un arsenale nucleare pari o superiore quantitativamente a quello statunitense e dotato anche di sistemi speciali come il Poseidon, capace di creare tsunami artificiali per spazzare le coste nemiche.
Nel caso americano e in genere NATO si approfitta di simili episodi per accusare l’altra parte di preparare piani catastrofici, sebbene sia noto che certi armamenti strategici speciali del Cremlino sono stati sviluppati per cercare di riequilibrare la situazione dopo che gli Stati Uniti, per primi hanno stracciato unilateralmente, nonostante gli appelli contrari della Russia, alcuni trattati fondamentali per l’equilibrio strategico, in primis l’ABM nel 2002, ma anche l’INF nel 2019.
E il siluro-drone Poseidon è infatti un modo per aggirare le difese antimissile USA passando dagli abissi, così come un altro innovativo sistema russo, il missile a propulsione nucleare Burevestnik, in grado in teoria di volare per giorni o settimane compiendo larghi giri sugli oceani, può infine arrivare sul territorio statunitense da direzioni e in tempi insospettabili.
Il conflitto in Ucraina rappresenta quindi la miccia di un quadro più complessivo, in cui America e Russia si affrontano entrambi per motivi strategici vitali. Nel caso di Washington mantenere a qualsiasi costo l’Europa nella sua sfera d’influenza, profittando della crisi per recidere ogni legame economico dei paesi UE col concorrente russo.
Nel caso di Mosca, lottare sulla soglia di casa dopo che per oltre vent’anni la NATO si è espansa verso Est, minacciando infine di fagocitare, in un modo o nell’altro, anche l’Ucraina.
Tutto ciò non fa prevedere una conclusione del conflitto in tempi brevi, bensì una sua cronicizzazione, probabilmente ben al di là dell’imminente inverno 2022-2023. E se anche la mediazione dell’instancabile Turchia dovesse propiziare, un per ora improbabile cessate il fuoco, esso prenderebbe, nella migliore delle ipotesi, la forma di un fragile armistizio, senza cioè la firma di una vera pace duratura.
Troppi, il sangue versato, la vastità delle distruzioni e l’odio reciproco accumulato in questi mesi, perché la fascia di confine tra Russia e Ucraina non continui a essere teatro di una crisi endemica che nel futuro a breve termine sarà certamente più intensa di quella avutasi, nell’indifferenza dell’Occidente, dal febbraio 2014, quando il rovesciamento violento del governo ucraino filorusso di Viktor Yanukovich fece slittare Kiev nella sfera d’influenza occidentale, fino al febbraio 2022, quando l’inizio della cosiddetta “operazione speciale”, come viene interpretata dai russi, avviò l’attuale conflitto, assai più esteso dei precedenti 8 anni di scontri a singhiozzo nel Donbass.
Da un lato, gli Stati Uniti e i paesi della NATO promettono di proseguire il sostegno alle forze armate di Kiev incuranti dei contraccolpi economici causati dalla carenza o mancanza di scambi mercantili col gigante russo.
Contraccolpi che sono però subiti dagli alleati membri dell’Unione Europea e non dall’America, aspetto che potrebbe col tempo far emergere quelle spaccature e divergenze di interessi fra le due sponde dell’Atlantico finora sopite o appena sussurrate senza badare ai costi economici per la stessa vita quotidiana della popolazione europea.
Dall’altro lato, la Russia ha proceduto all’annessione di fatto dei territori occupati nell’Est e Sudest dell’Ucraina, comprese le repubbliche filorusse di Donetsk e Lugansk, dietro il paravento dei referendum non riconosciuti dall’ONU tenuti dal 23 al 27 settembre 2022, in modo da poterli considerare parte del territorio nazionale e quindi passibili, in teoria, di difesa anche con armi nucleari tattiche, a discrezione di Mosca, ponendo un pericoloso paletto per scoraggiare controffensive.
Referendum e annessione
Sulla fattibilità pratica, o meno, dell’opzione nucleare torneremo più oltre. Intanto iniziamo col ricordare i dati dichiarati sui referendum, di annessione. Secondo Mosca, avrebbero votato in favore dell’annessione alla Russia il 99,23% degli elettori della Repubblica Popolare di Donetsk, il 98,42% di quelli della Repubblica di Lugansk, l’87,05% nella regione di Kherson e il 93,11% nella regione di Zaporozhye, o Zaporizhzhia. E’ risaputo che sono plebisciti effettuati senza garanzie internazionali e in un contesto in cui, certamente, è facile l’effetto intimidazione per la presenza dell’esercito russo.
Peraltro, parte della popolazione, specie gli ucraini “etnici” distinti dai russofoni, ha abbandonato quei territori cercando rifugio a Kiev, a differenza dei profughi filorussi che, trovato riparo soprattutto nella regione di Rostov, hanno potuto partecipare alle consultazioni con seggi preparati in territorio russo.
Inoltre, non va dimenticato che il controllo russo sul territorio di Zaporozhye/Zaporizhzhia è assai più incompleto che negli altri, dato che l’omonimo capoluogo, Zaporizhzhia-città, resta in mani ucraine.
Su questo equivoco molta stampa occidentale ha giocato per mesi facendo passare i russi come folli che bombardavano le pertinenze dell’omonima centrale nucleare locale, che prende il nome dalla regione, che è sotto il controllo degli stessi russi e sorge nella città di Energodar, in molte occasioni bersagliata da ordigni ucraini.
I referendum hanno di certo raccolto almeno una parte di consensi sinceri, dato che le popolazioni russofone del Donbass sono state bombardate a più riprese dalle forze armate ucraine fin dal 2014. E anche nelle ultime settimane si sono registrati nuovi bombardamenti sui territori di Donetsk e Lugansk, anche con vittime civili, che l’esercito di Kiev ha attuato sia con artiglieria tradizionale (inclusi obici occidentali da 155 mm) e razzi da 122 mm Grad, sia, secondo i russi, con lanciarazzi campali statunitensi M142 HIMARS.
Lo Zar proclama…
Anche se è impossibile dire quanti di quei voti referendari siano sinceri e quanti no, ciò che conta è che il 30 settembre il presidente russo Vladimir Putin ha firmato gli accordi di annessione con i capi filorussi delle quattro regioni Denis Pushilin (Donetsk), Leonid Pasechnik (Lugansk), Vladimir Saldo (Kherson) e Yevgeny Balitsky (Zaporizhzhia) durante una solenne cerimonia nella sontuosa sala di San Giorgio del Cremlino.
In seguito, il 3 ottobre, le annessioni sono state ratificate dai parlamentari della Duma. Putin ha abbinato la firma a un lungo discorso che costituisce anche una sorta di “manifesto geopolitico” della Russia rivolto come monito all’Occidente a guida americana, e come invito al resto del mondo, perchè approfitti dell’occasione storica che potrebbe davvero accelerare il passaggio da un mondo unipolare a uno multipolare, come del resto è sempre stato nei secoli passati.
Fra i passaggi più importanti, certamente quello in cui ritiene che a questo punto i russi potrebbero trattare, ma l’annessione delle regioni è ormai fuori discussione: “L’Ucraina deve cessare il fuoco cominciato nel 2014, siamo pronti a tornare al tavolo dei negoziati. Ma la scelta dell’annessione della popolazione delle quattro regioni non è più in discussione”.
Ciò tuttavia cozza con la rinnovata volontà del presidente ucraino Volodymir Zelensky di riconquistare tutto il paese, per non parlare del decreto legge con cui Zelensky mise per iscritto “il recupero del Donbass e della Crimea” fin dal marzo 2021, poco dopo l’arrivo alla Casa Bianca del neo-presidente USA Joe Biden, dal quale sapeva di poter essere spalleggiato (complici forse anche gli affari in Ucraina del figlio Hunter Biden), decreto che lo scorso anno ha certo contribuito molto a far salire la tensione e a provocare la Russia.
L’altro tratto saliente del discorso dello “zar” è senz’altro l’accenno alla volontà di difesa ad ogni costo delle nuove frontiere: “Proteggeremo la nostra terra usando tutte le nostre forze e i nostri strumenti e faremo di tutto per la sicurezza del popolo”.
Delle armi nucleari Putin ha parlato apertamente in un’altra parte del discorso, ribadendo che, in fin dei conti, finora sono stati soltanto gli USA a utilizzare realmente queste bombe catastrofiche, perdipiù contro un nemico che non avrebbe potuto reagire nella stessa maniera, cioè il Giappone del 1945: “Gli Stati Uniti. Hanno creato un precedente usando le armi nucleari. Esiste un ordine mondiale unipolare, nella sua essenza antidemocratico e non libero.
Gli Stati Uniti sono il solo paese al mondo ad aver utilizzato due volte le armi nucleari, distruggendo le città giapponesi di Hiroshima e di Nagasaki. Ricordo che gli Stati Uniti e i britannici hanno raso al suolo, senza che ve ne fosse la necessità dal punto di vista militare, durante la Seconda Guerra Mondiale, le città di Dresda, Amburgo, Colonia e numerose altre città tedesche. Gli Stati Uniti hanno lasciato un segno terribile nella memoria dei popoli di Corea e del Vietnam con i barbari bombardamenti al napalm e con armi chimiche”.
E’ ovvio che anche URSS e Russia, nei vari conflitti da essi combattuti, non sono andati per il sottile, ma ciò che premeva a Putin era sottolineare la contraddizione di fondo dovuta al fatto che l’Occidente si presenta al resto del mondo con una presunta superiorità morale discutibile o almeno spesso falsata: “L’Occidente difende un ordine basato sulle regole. Chi ha deciso queste regole? Chi è che ha concordato queste regole? È un inganno vero e proprio, con un doppio, triplo standard. Con tutte queste regole false la Russia non ha intenzione di vivere”.
Riprova indiretta si era avuta già il 22 settembre quando Zelensky aveva chiesto provocatoriamente che “venisse tolto alla Russia il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU”.
Iniziativa che sarebbe andato a minare l’origine stessa delle Nazioni Unite nel 1945, quando uno dei pilastri che permisero la creazione dell’ONU fu il diritto di veto concordato tra le 5 potenze principali vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, cioè USA, Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica (poi Russia) e la Cina allora di Chang Kai Shek, poi trasferitasi a Taiwan, che conservò il seggio fino al 1971, quando passò alla Cina rossa di Mao Zedong.
L’idea del diritto di veto era stata concepita di comune accordo fra Churchill, Stalin, Roosevelt, e poi Truman, in un’epoca in cui, per quanto gli Stati Uniti fossero emersi dal conflitto contro l’Asse come la massima potenza militare del globo, avevano però avuto la saggezza di concedere pari dignità diplomatica ai loro maggiori alleati.
Le parole di Putin sui “doppi e tripli standard” assumono particolare significato se si considera che nessuno ha mai chiesto di togliere il diritto di veto agli USA a causa delle varie guerre combattute dagli americani in oltre 70 anni, spesso senza alcuna “pezza legale” delle Nazioni Unite.
D’altronde, non è nemmeno fuori luogo rammentare che l’attenzione mediatica occidentale per le sorti dell’Ucraina ha fatto il paio con la cronica “amnesia” rispetto a conflitti sanguinosissimi in varie altre parti del mondo.
Basti ricordare, per citarne solo tre, la guerra in Yemen, in atto, pur fra fragili tregue, dal 2014, quella in Etiopia, con epicentro il Tigrè, scoppiata nel novembre 2020 e che fra poco “compirà” due anni, e la guerriglia birmana contro i generali golpisti filocinesi, in atto dal settembre 2021.
Come era prevedibile il 1° ottobre la Russia ha posto il veto sulla risoluzione di condanna delle annessioni presentata al Consiglio di Sicurezza ONU da Stati Uniti e Albania. Senza contare che le astensioni di Cina, India, Brasile e Gabon confermano che tali paesi, pur preoccupati dal proseguimento del conflitto, non vogliono rompere con Mosca.
Il presidente russo ha inoltre sostenuto che non è nei suoi programmi ricreare l’Unione Sovietica, poiché “non serve alla Russia e non è a ciò a cui aspiriamo”. Ma nonostante ciò, lasciando intendere tutti gli ultimi vent’anni di pressioni su Mosca e di espansione a Est dell’Alleanza Atlantica, “l’Occidente porta avanti una guerra ibrida contro la Russia”.
E prosegue: “Vogliono frantumare la Russia in staterelli che combattono l’uno contro l’altro. Trasformarci in una loro colonia, defraudarci del petrolio e delle altre risorse, trarre i loro vantaggi per riuscire a essere egemoni”.
Ne ha anche avuto per i paesi europei, considerati dal Cremlino meramente succubi di Washington: “Gli Stati Uniti non vogliono distruggere solo la Russia. Ma anche i loro competitori europei, fra cui l’Italia, la Francia e la Spagna e altri Paesi con storia di secoli alle spalle. La scelta dell’Unione Europea di respingere le fonti di energia russe e altre risorse russe sta di fatto portando l’Europa alla de-industrializzazione. Le élites europee capiscono tutto, ma preferiscono fare gli interessi di altri. Non è più neanche servilismo, ma un tradimento diretto dei loro popoli”.
Nord Stream: Quali sabotatori?
Per quanto di parte, il proclama di Putin non manca di appigli alla realtà ed è ormai riconosciuto che la guerra russo-ucraina, col corollario di sanzioni economiche che hanno costretto al blocco dei commerci con Mosca, sta danneggiando l’Europa occidentale e non gli USA. La stessa Russia, anche se provata dal contraccolpo, lo è molto meno del previsto, potendo contare su numerosi paesi di sbocco delle materie prime.
A confermarlo ha provveduto il 28 settembre la BERS, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, che ha rivisto pesantemente, dimezzandola, la previsione di contrazione del Pil della Russia per il 2022, ricalcolandola a un meno 5%, rispetto all’assai più cupo meno 10% che veniva pronosticato a maggio, mentre per il 2023 il prodotto interno russo viene previsto in calo del 3%, sempre una prospettiva negativa, ma non certo una catastrofe.
Nel medesimo lasso di tempo, tuttavia, bisognerà vedere di quanto saranno peggiorati i Pil e i tenori di vita dell’Europa occidentale, per capire davvero chi sta vincendo la guerra degli embarghi.
E’ in un simile contesto che s’è verificato il 26 settembre il ben noto attentato alla doppia tratta dei gasdotti Nord Stream 1 e 2, con esplosioni sottomarine verificatesi nei fondali attorno all’isola danese di Bornholm, in un’area solitamente sorvegliatissima da navi e aerei della NATO, essendo piuttosto vicina agli stretti del Kattegat e dello Skagerrak che collegano il Mar Baltico all’Oceano Atlantico.
Il 1° ottobre funzionari danesi hanno riferito che le perdite di metano fuoriuscite dalle quattro falle complessive si sono arrestate dopo che la pressione si è stabilizzata. Il mistero su chi ha davvero attuato il clamoroso sabotaggio resta al momento tale, almeno finchè non si scenderà a 80 metri di profondità con veicoli e sensori subacquei per indagare.
Uno dei nodi principali sarà capire se le esplosioni sono avvenute all’esterno o all’interno dei tubi, il che potrebbe già suggerire molte cose. Sempre il 1° ottobre il giornale tedesco Der Spiegel ha pubblicato stralci di una prima inchiesta dei servizi segreti germanici BND (presumibilmente ancora in corso) secondo cui “la potenza delle deflagrazioni rilevata dai sismografi indicherebbe 500 chili di esplosivo per ogni falla”.
E’ una quantità molto maggiore dei 100 chili di tritolo stimati nei primissimi giorni da fonti militari svedesi. Per il giornale tedesco “la quantità di tritolo rafforza l’ipotesi che l’autore sia uno Stato e non un’organizzazione terroristica”. Mentre USA e NATO hanno da subito fatto capire di considerare responsabile dell’attentato la Russia (secondo una strana logica per cui i russi avrebbero voluto semplicemente danneggiare una infrastruttura da essi stessi voluta e gestita), Der Spiegel lascia aperta la porta all’ipotesi che possano essere stati gli americani, ricordando le frasi pronunciate nei mesi scorsi dal presidente Joe Biden: “Porremo fine al North Stream. Siamo in grado di farlo”.
Il giornale tedesco lasciava aperta, come unica possibilità di responsabilità russa, l’ipotesi che Gazprom non volesse pagare multe per la mancata consegna del metano ma non pare molto plausibile, considerato che le sanzioni, il blocco del North Stream 1 e la mancata operatività del Nord Stream 2 sono in ultima analisi causate dall’ostilità espressa dai paesi occidentali.
Fra gli aspetti più interessanti, sembra esserci la valutazione di 500 chili di esplosivo per ogni falla come quantità indicativa. Ammesso che quella dei servizi BND sia una stima credibile, si tratta di una notevole quantità che potrebbe rafforzare la pista della posa di ordigni dall’esterno, con mine telecomandate, sottomarini o droni subacquei.
Tutto il contrario di quanto scriveva lo stesso giorno il quotidiano britannico Guardian, che propendeva più per l’uso di “robot telecomandati per la manutenzione interna dei tubi, che avrebbero posato gli ordigni”.
Mine interne al tubo implicherebbero come potenziali responsabili solo Russia e Germania, che controllano i due capi delle condotte. Ma posare ordigni da 500 chili ciascuno è più facile dall’esterno, poiché per un ordigno che proviene (indipendentemente dal tipo di vettore) dal mare aperto, non ci sono limiti dimensionali, essendo all’esterno, inoltre lo stesso ambiente subacqueo allevia i pesi grazie alla spinta d’Archimede.
Diverso il caso di una mina trasportata, come sostengono gli inglesi, attraverso il cavo, tecnicamente la “luce”, della conduttura. I tubi del Nord Stream, per quanto si sa, hanno un diametro interno di poco superiore a un metro, per l’esattezza vengono dichiarati “1153 mm”.
Lo spazio è certo più angusto per poter trasportare una grossa carica esplosiva, per quanto sia vero che anche un ordigno con 500 chili di esplosivo possa essere eventualmente sagomato in forma oblunga, per ovviare agli ingombri, il che, per contro, potrebbe far disperdere su un’area troppo ampia la forza dell’esplosione, rischiando un effetto inferiore al voluto.
Prima di dati concreti derivabili da una seria indagine, queste sono solo illazioni, ma un aspetto potrebbe già essere preso per buono. Che cioè se “vincesse” l’ipotesi dell’ordigno esterno alla tubazione, diverrebbe più plausibile l’ipotesi di una responsabilità anglo-americana, dato che mezzi navali e sottomarini, anche telecomandati, di Washington, Londra o di altri alleati potrebbero muoversi molto facilmente in quel braccio di mare, diversamente da analoghi mezzi russi.
Intanto, la premier danese Mette Frederiksen ha incontrato fra 30 settembre e 1° ottobre, il segretario della NATO Jens Stoltenberg e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, che hanno assicurato “protezione delle infrastrutture critiche”, nonché la neo-premier britannica Liz Truss, alla quale la collega di Copenhagen ha “fornito dettagli su ciò che non è stato un incidente, ma qualcosa di pianificato”.
Forse non si saprà mai con certezza se qualcuno, oppure no, abbia plaudito al vedere danneggiati i gasdotti sul fondo del Baltico, vedendovi il viatico a massicce importazioni di gas liquefatto via nave.
Tuttavia, non è improbabile che, presto o tardi, il Nord Stream possa tornare in funzione, se il panorama geopolitico potesse mutare. Il 2 ottobre il ministro dell’Energia russo Alexandr Novak ha infatti dichiarato: “Non ci sono mai stati incidenti di questo genere. Ma c’è la possibilità tecnica di ripristinare l’infrastruttura. Ci vorrà tempo e denaro. Ma sono sicuro che sarà possibile capire come farlo”.
Frattanto, Putin in persona aveva presieduto a Mosca il 29 settembre, insieme al capo dei servizi segreti esteri russi SVR, Sergei Naryshkin, un vertice delle intelligence dei paesi della CSI, l’ente che raggruppa la maggior parte delle repubbliche ex-sovietiche, esortandoli ad aumentare la sorveglianza poiché “i nostri avversari geopolitici sono pronti a diffondere crisi, rivoluzioni colorate e massacri sanguinosi”.
“Sappiamo che l’Occidente vuole incitare nuovi conflitti nella CSI ma ne abbiamo già abbastanza, basta vedere ciò che accade fra Russia e Ucraina e ciò che succede sui confini di altri paesi della CSI”.
Frontiera nucleare
Una delle primissime reazioni a caldo alle annessioni alla Russia della fascia del Donbass, più quella fra Kherson e Zaporizhzhia, è venuta dallo stesso presidente ucraino Zelensky, che il 30 settembre ha annunciato la firma della richiesta ufficiale di adesione dell’Ucraina alla NATO. Proprio l’eventualità ipotetica che aveva fatto via via montare la tensione fra Mosca e Kiev fino allo scatenamento del conflitto.
“Stiamo compiendo un passo decisivo firmando la domanda dell’Ucraina per l’adesione accelerata alla NATO. Di fatto, siamo già nell’Alleanza, abbiamo già dimostrato la compatibilità con i suoi standard, reali sul campo di battaglia e in tutti gli aspetti della nostra interazione. Ci fidiamo gli uni degli altri, ci aiutiamo a vicenda e ci proteggiamo a vicenda. Questa è l’Alleanza. Di fatto. Oggi l’Ucraina chiede di farlo de jure. In modo accelerato. Compiamo il nostro passo decisivo firmando la domanda di adesione accelerata dell’Ucraina alla NATO”. Così il capo di Kiev, nel tentativo di reagire alle mosse russe forzando gli alleati a un coinvolgimento più ampio in sua difesa, ma da Bruxelles, consci del rischio, ne hanno subito raffreddato gli entusiasmi.
A parte il fatto che è palesemente improponibile accettare nell’alleanza un paese attualmente in stato di guerra, fonti della NATO hanno diramato quella stessa sera all’agenzia ANSA: “La procedura di accesso all’Alleanza Atlantica la conosciamo bene perché l’abbiamo vista ora con Svezia e Finlandia. Gli alleati si consultano, discutono, ci sono criteri da rispettare e qualsiasi decisione di adesione deve essere collettiva. Poi ci sono le ratifiche nazionali. Quindi nessuna corsia preferenziale per nessuno”.
Nessun ingresso accelerato, dunque, che sembra più una formula propagandistica di Kiev. Lo stesso segretario dell’alleanza, Stoltenberg, ha ricordato il 2 ottobre in un’intervista concessa alla tv americana NBC: “L’adesione dell’Ucraina alla NATO richiede il consenso di tutti i 30 paesi alleati. La priorità ora, ha aggiunto, è supportare l’Ucraina: hanno bisogno di più aiuto, e di un aiuto che sia continuativo”. Insomma, per ora la prospettiva di un’Ucraina membro NATO, nonostante il notevole supporto militare occidentale, è fuori discussione.
Non solo, la testata americana Politico ha rilevato che la pretesa del governo ucraino sta suscitando malumori fra gli stessi deputati e senatori del Congresso USA, divisi sul da farsi e perfino la speaker Nancy Pelosi, a una domanda sull’opportunità di accogliere l’Ucraina nell’alleanza, ha un po’ glissato: “Gli USA sono molto impegnati per la democrazia in Ucraina”.
Del resto, pare che le uniche nazioni NATO apertamente favorevoli all’ingresso di Kiev siano una decina di membri dell’Europa Orientale, i più antirussi, ovvero Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Montenegro, Romania e Slovacchia. Del resto, sta ristagnando anche la procedura di ammissione di Svezia e Finlandia, che lo scorso aprile veniva data per rapida e invece continua a scontrarsi con l’aperta contrarietà di Turchia e Ungheria, anche perché non sembra bastare ad Ankara la ripresa della vendita di armi svedesi all’esercito turco.
Se evitare, per il momento, allargamenti ulteriori dell’Alleanza Atlantica mette al riparo dai rischi connessi con l’applicazione dell’Articolo 5 per la difesa collettiva nel caso un membro venga assalito, gli avvenimenti di questi giorni sono stati dominati dalla paura nucleare legata al nuovo status dei territori annessi.
Ora che la Russia, dal suo punto di vista, combatte sul fronte ucraino per un territorio interamente “patrio”, teoricamente sarebbe possibile il ricorso ad armi nucleari tattiche per sopperire a rovesci sul terreno. Questo in teoria, poiché non è detto che davvero Mosca intenda farlo, tenuto conto che si tratta di devastare e inquinare di radiazioni un’area che si intenderebbe proteggere e di fatto a pochi chilometri dal territorio russo.
Certo Mosca gioca sull’ambiguità dei suoi vertici, che sembrano spartirsi di comune accordo l’onere di interpretare di volta in volta falchi o colombe, dal punto di vista atomico, apposta per mantenere ben viva la dissuasione nei confronti dell’Occidente.
Già il 22 settembre, alla vigilia dei referendum, l’ex-presidente ed ex-primo ministro Dmitry Medvedev, ora vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia, ha dato la stura a uno dei suoi comunicati al vetriolo: “I vari generali idioti in pensione non hanno bisogno di spaventarci parlando di un raid della NATO in Crimea, dato che i nostri missili ipersonici sono in grado di raggiungere obiettivi in Europa e negli Stati Uniti molto più velocemente.
Non solo le capacità di mobilitazione, ma anche qualsiasi arma russa, comprese le armi nucleari strategiche e le armi basate su nuovi principi, potrebbero essere utilizzate per la protezione dei territori che diverranno parte della Russia”.
Due giorni dopo, dal quartier generale della NATO, Stoltenberg ha ammonito, pur senza scendere nei dettagli: “Ci saranno gravi conseguenze se armi nucleari verranno utilizzate dalla Russia in Ucraina. Non elaborerò esattamente su come reagiremo, dipende dal tipo di armi di distruzione di massa che possono usare. Il fatto è che la probabilità di qualsiasi uso di armi nucleari è ancora bassa, ma le potenziali conseguenze sono così grandi, quindi dobbiamo prenderle sul serio. E la retorica e le minacce che il presidente Putin porta avanti aumentano le tensioni, sono pericolose e sconsiderate”.
Il 26 settembre il New York Times ha scritto che, stando a “fonti dell’amministrazione di Washington”, il Cremlino potrebbe ordinare “di usare armi nucleari in un’azione dimostrativa sul Mar Nero, sull’Oceano Artico o sul territorio dell’Ucraina”. Tuttavia “gli esperti ritengono improbabile che Putin prenda decisioni in merito, vista la reazione dell’Occidente e degli alleati di Mosca”. Il 28 settembre, Politico riportava che “l’intelligence USA sta aumentando gli sforzi per individuare movimenti e comunicazioni dei militari russi che possano costituire indizi di un eventuale ordine da parte di Vladimir Putin di utilizzo di armi nucleari in Ucraina”.
Secondo la testata USA, tuttavia “qualsiasi indicazione che il presidente russo abbia deciso di scatenare l’impensabile, in un disperato tentativo di riconquistare l’iniziativa o ricattare la comunità internazionale, potrebbe arrivare troppo tardi”.
In verità, fra il 29 e il 30 settembre giungevano da Mosca segnali di tutt’altro tenore. Anzitutto la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova ha annunciato che “la Russia sta considerando la ripresa delle ispezioni reciproche nel quadro del trattato strategico New START” e che “è allo studio la possibilità di incontri in presenza della commissione bilaterale”.
Si tratterebbe di un passo importante per rivitalizzare l’accordo che limita gli arsenali nucleari strategici di USA e Russia, in vigore dal 2011 e rinnovato, a fatica, nel 2021, ma per soli altri cinque anni, fino al 2026. L’applicazione del trattato, che prevederebbe ispezioni reciproche di delegazioni russe e americane alle basi di missili strategici, è infatti “azzoppata” ormai dal 2020, quando a causa della pandemia di Covid, le visite sono state sospese. Inoltre lo stesso portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov ha escluso categoricamente che le forze russe intendano utilizzare nukes in Ucraina.
Logica vorrebbe che i russi non impiegassero armi nucleari, anche se tattiche e di potenza relativamente piccola, praticamente sulla soglia di casa propria, come ha fatto notare anche l’analista italiano Dario Fabbri, direttore di Domino: “L’impiego reale di un’arma nucleare tattica per difendere la nuova frontiera russa porrebbe enormi problemi, specie la ricaduta radioattiva dell’esplosione, in gergo il fallout. L’uso di simili armi dipende dalle condizioni del vento, ma in Ucraina ci sono venti mutevoli e imprevedibili, inoltre mancano montagne che facciano barriera. Il fallout può disperdersi anche verso la Russia stessa.
Un’atomica tattica non basterebbe a far concludere un conflitto, per quanto devastante. Ce ne vorrebbe una strategica. I russi, inoltre, potrebbero temere che, a un loro colpo nucleare sull’esercito ucraino, le tre potenze atomiche occidentali, cioè Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, possano intervenire con ordigni tattici sulle forze russe. E’ molto improbabile che anglo-americani o francesi reagiscano così. Ma dobbiamo presupporre che i russi non escludano tale eventualità. Nel pensiero militare si tende a non escludere nulla a priori, secondo la formula and if? (e se….)”.
Parla Kissinger
Partecipando il 1° ottobre a una riunione del Council of Foreign Relations di New York, un monumento vivente della geopolitica come l’ex-consigliere alla sicurezza ed ex-segretario di Stato Henry Kissinger, 99 anni, ha dichiarato: “La Russia ha perso la guerra, ora dobbiamo impedire la sua escalation nucleare. Potremmo batterla anche in quello scenario, ma la natura delle relazioni internazionali e l’intero sistema mondiale verrebbero sconvolti. La diplomazia deve tornare in azione. A un impiego russo delle armi nucleari in Ucraina, la NATO dovrebbe reagire il più a lungo possibile con armi convenzionali. Ma i dirigenti russi devono sapere che nel caso usino armi nucleari i termini per un accordo di pace diventeranno peggiori per loro, la Russia ne uscirà come una nazione più debole di prima”.
E ha aggiunto: “L’Ucraina non va demoralizzata. Deve avere un ruolo primario nel processo di pace. Le tutele della libertà ucraina includono la sua appartenenza all’Unione Europea. In quanto al suo rapporto con la NATO, è già stato risolto dagli eventi. Ora, un dialogo, anche solo esplorativo, è essenziale in quest’atmosfera nucleare. Non è rilevante se Putin ci piaccia o no”.
Certamente le parole del “guru” della geopolitica triangolare USA-Russia-Cina, colui che già nel 1972 aveva in pratica intravisto il mondo di oggi, sono condivisibili per quanto riguarda il ruolo principe da assegnare alla diplomazia, al negoziare con Putin “anche se non ci piace”, sebbene la conclusione secondo cui la Russia abbia già perso la guerra sembra perlomeno un po’ affrettata, tenuto conto che con le varie annessioni, comunque, Mosca ha strappato a Kiev circa un 18% del paese. Altra storia è tenerlo saldamente, ma, appunto, lo si vedrà nel tempo.
Un po’ in risposta a Kissinger, il 2 ottobre l’esperto russo Andrei Kortunov, direttore del Russian International Affairs Council ha detto, intervistato da Lucia Annunziata su Rai 3: “Se si arriva a una guerra nucleare, tutti saranno distrutti, non solo la Russia, ma anche i suoi avversari, compresa la NATO. La Russia ha abbastanza testate nucleari per distruggere tutta l’umanità, così come gli Stati Uniti. Da questo punto di vista, noi non siamo in una posizione migliore o peggiore di qualsiasi altro Paese che potrebbe essere esposto all’uso di armi nucleari. Auspico che questa possa essere una considerazione deterrente per il Cremlino, che la Russia non ne faccia uso contro l’Ucraina e che la NATO non interferisca. Ma se la NATO interferirà, essendo superiore a livello di armi convenzionali, la risposta della Russia sarà l’uso di armi nucleari”.
E ha chiosato: “Magari la mobilitazione parziale è un segnale indiretto che il Cremlino vuole considerare una escalation diversa, non con l’uso di armi nucleari ma portando sul terreno forze umane. Ma il pericolo dell’uso delle forze nucleari rimane sempre. Magari per incidente, per errore, soprattutto se l’assistenza militare occidentale all’Ucraina dovesse aumentare”.
Opzioni nucleari
In effetti, pensare che davvero i russi possano utilizzare anche una sola nuke tattica su una grossa formazione dell’esercito ucraino a scopo intimidatorio e per sopperire a uno sfondamento del fronte, pare davvero fuori luogo, assolutamente sproporzionato e perdipiù autodistruttivo, poiché non si sta parlando, come durante la Guerra Fredda, di sganciare ordigni, per esempio lungo il confine fra Germania Est e Germania Ovest.
L’unico scopo di questo brillare di sciabole atomiche sembra quello di dissuadere la NATO dall’aumentare ulteriormente il suo impegno militare in Ucraina, soprattutto non inviando uomini e reparti, al di là dei “consiglieri” già presenti. In altre parole, i russi agitano la Bomba per dissuadere l’alleanza occidentale dall’impegolarsi maggiormente in Ucraina, oltre che dal tentare provocazioni pericolose lungo il fronte Est della NATO, mentre l’Occidente parla da settimane di “conseguenze terribili” in caso di primo uso russo sugli ucraini.
Da un punto di vista politico, infatti, sarebbe estremamente difficile per gli Stati Uniti e i governi occidentali giustificare una ritorsione nucleare contro la Russia in risposta a un’atomica sganciata sull’Ucraina, che non è un paese della NATO e per il quale l’alleanza non è intervenuta in mesi di scontri convenzionali, figurarsi nel caso di superamento della soglia atomica.
Sotto tale aspetto, se per i russi sarebbe comunque politicamente inqualificabile utilizzare simili armi contro divisioni o basi militari ucraine, pur consentendo loro probabilmente una vittoria sicura, per le potenze occidentali sarebbe ancor più assurdo autocondannarsi all’escalation per un’area di cui una Russia inferocita potrebbe sempre dire che è storicamente da secoli nella sua sfera d’influenza.
Governi e popolazioni occidentali e soprattutto europei sarebbero disposti a morire per Kiev?
Domanda che senz’altro potrebbero farsi anche molti soldati russi mandati in prima linea, ma con la differenza che una questione russo-ucraina è, per così dire, una questione “di casa” fra popoli che insieme hanno sempre formato la base dell’Impero Russo e poi dell’Unione Sovietica. Ammesso che i russi davvero sganciassero (cosa di cui dubitiamo) una o due armi da alcuni chilotoni di potenza, quali sarebbero realisticamente le ritorsioni possibili per la NATO? Utilizzare direttamente per rappresaglia una o più testate nucleari dei missili Tomahawk imbarcati sulle navi americane nei mari europei, o dislocati sulle rampe della base di Deveselu, in Romania, dove i russi sostengono siano presenti?
Rendere pan per focaccia con altrettante testate, quasi certamente non chiuderebbe alla pari lo sciagurato gioco, ma ne sarebbe soltanto l’inizio, poiché a loro volta i russi potrebbero sentirsi autorizzati a reagire con maggior forza per quella che, ufficialmente, vedrebbero come una drammatica intromissione di un’alleanza esterna, la NATO, in una “questione privata” fra loro e gli ucraini, al netto dei mesi di aiuti militari che già li hanno innervositi.
D’altronde, se per assurdo, cosa estremamente improbabile, Mosca dovesse dichiarare di sganciare una o due atomiche “per porre fine al conflitto”, paradossalmente non farebbe che agire, a grandi linee, come gli Stati Uniti contro il Giappone nell’agosto 1945, quando il presidente Harry Truman ordinò di radere al suolo Hiroshima e Nagasaki per risparmiare le vite di molti soldati statunitensi (un milione i caduti americani previsti da Washington in caso di conquista metro per metro dell’arcipelago nipponico).
Una rappresaglia convenzionale NATO contro forze russe in Ucraina e/o una no fly zone per abbattere aerei e missili del Cremlino sembrano pure fuori luogo, a prima vista, poiché aggiungerebbero solo un gradino in più prima di arrivare al conflitto diretto NATO-Russia, con tutto ciò che ne consegue.
Il 3 ottobre è stato diffuso dall’ABC un commento del generale ed ex-capo della CIA David Petraeus, secondo cui, se i russi lanciano la Bomba, “Stati Uniti, e NATO eliminerebbero le forze russe in Ucraina” spiegando: “Solo per darvi un’ipotesi penso che risponderemmo eliminando ogni forza convenzionale russa che possiamo vedere e identificare sul campo di battaglia in Ucraina e anche in Crimea e ogni nave nel Mar Nero. Un attacco nucleare non potrebbe rimanere senza risposta.
Ma non deve essere per forza una risposta maggiore: non è nucleare per il nucleare. Non si vuole, di nuovo, entrare in un’escalation nucleare ma devi dimostrare che questo non può essere accettato in alcun modo”.
Petraeus sembra però parlare più per necessità politica che altro, non vedendosi come attacchi convenzionali, che costerebbero morti e danni anche ai combattenti della NATO, possano fare da ritorsione adeguata ad attacchi nucleari.
Visti i precedenti oscuri come le mine sul Nord Stream, viene perfino da chiedersi se potrebbe perfino essere plausibile un’altra pista di eventi, molto fantasiosa, ma che si può citare per puro beneficio d’inventario, ovvero l’eventualità che in territorio ucraino possa esser fatta deflagrare una piccola nuke tattica da qualcuno che non è russo, al preciso scopo di incolpare i russi e squalificarli dal consesso delle nazioni, dal commercio mondiale, anche senza poi operare una qualche ritorsione armata di facciata.
I mezzi esistono, dato che, missili a parte, fin dalla Guerra Fredda sono stati sviluppati ordigni nucleari “tascabili”, di potenza inferiore al chilotone, e abbastanza piccoli da poter essere nascosti in zaini o valige.
Esempi storici di simili sistemi sono certamente l’americana B54, installata in uno zaino o borsa e nota anche come SADM, Special Atomic Demolition Munition, e la sovietica RA-115, in valigia, che erano classificate “mine atomiche da demolizione” posabili in segreto da un singolo soldato, o agente segreto, nel caso fosse ritenuta necessaria una deflagrazione senza mostrarne apertamente la vera responsabilità. Saremmo ai limiti della fantapolitica…sebbene, dopotutto, perfino sbarcare sulla Luna sembrava fantascienza fino al 1969.
Di certo, non fa ben sperare il continuo allarme nucleare sui mass media, che il 2 ottobre abbiamo visto arricchirsi dell’allarme che le intelligence NATO hanno lanciato circa la presenza nel Mare di Kara del sottomarino russo K-329 Belgorod, ritenuto in procinto di “sperimentare il siluro-drone nucleare Status 6 Poseidon”.
Arma alla quale abbiamo in passato dedicato ampio spazio su Analisi Difesa e che è in sostanza un siluro robot lungo 24 metri, a propulsione nucleare, che arrivando fino alle coste americane potrebbe deflagrare con una carica termonucleare di forse 100 megatoni causando uno tsunami tale da spazzar via molte città costiere USA. Se è vero che il sottomarino Belgorod è praticamente appena entrato in servizio, dal luglio 2022, dopo una costruzione lunga e travagliata, il siluro Poseidon viene in realtà collaudato già da alcuni anni, forse fin dal 2016, quando già il sottomarino B-90 Sarov era attrezzato a trasportarlo e lanciarlo. Nulla di nuovo, sebbene sia il momento storico più delicato che mai, a indicare che occorre evitare errori di valutazione anche a livello di forze navali, per scongiurare catastrofici scontri marittimi per errore.
Corsa con l’autunno
Sui fronti ucraini la mobilitazione parziale annunciata da Putin il 21 settembre e inizialmente limitata a 300.000 uomini, sta solo in questi giorni iniziando a ingranare, peraltro ostacolata dalla fuga di migliaia di cittadini soprattutto attraverso i valichi di frontiera con Finlandia e Georgia. Gli effetti sul fronte non si sono ancora sentiti e infatti le forze russe e filorusse seguitano a soffrire carenza di fanterie.
Del resto il 3 ottobre s’è appreso, ad esempio, che “circa metà dei richiamati della provincia di Khabarovsk sono stati rimandati a casa perchè non soddisfacevano i requisiti”, come ha detto il governatore locale, Mikhail Degtyarev. Problemi comprensibili nel momento in cui si richiamano riservisti di tutte le età, ma se anche ci vorrà un po’ di tempo a radunare e addestrare i 300.000 chiesti da Putin, il bacino potenziale è enorme e non si dovrebbero avere difficoltà, contando 2 milioni di riservisti veri e propri (molti con un passato da militari professionisti), più altri 25 milioni di uomini richiamabili delle classi d’età adatte o che hanno in passato svolto il servizio di leva.
La controffensiva ucraina nell’area di Kharkiv ha avuto successo proprio perchè l’area era sguarnita di truppe, a confronto invece col Kherson, dove era concentrato il grosso dell’esercito di Mosca e dove, in effetti, un’offensiva ucraina molto più ingente è stata fermata per settimane mentre nuovi successi ucraini si sono registrati negli ultimi giorni con le avanguardie delle forze di Kiev che avanzano lungo il Dnepr avvicinandosi da est alla diga e centrale elettrica di Nova Kakhovka, 70 chilometri a est di Kherson.
Il 1° ottobre gli ucraini hanno cantato vittoria dopo aver riconquistato Lyman, grazie a una manovra d’aggiramento condotta nei villaggi a est della città. Ciò ha spinto il Ministero della Difesa di Mosca ad ammettere “il ripiegamento su linee più favorevoli”, rivendicando comunque “l’uccisione di 200 militari avversari e la distruzione di 14 veicoli corazzati”. Gli ucraini continuano ad avanzare in questo settore puntando su Kremina e Svatove.
Ritiro che ha suscitato poche ore dopo il malumore del capo delle milizie cecene filorusse Ramzan Kadyrov, che ha perfino chiesto l’uso di armi nucleari tattiche, criticando i vertici militari russi: “A mio parere personale, dovrebbero essere prese misure più drastiche, fino alla dichiarazione della legge marziale nelle zone di confine e all’uso di armi nucleari a bassa potenza. Il colonnello generale Alexander Lapin, comandante delle forze russe che combattono a Lyman, è un mediocre”.
Il 2 ottobre il portavoce della Difesa russa, generale Igor Konashenkov, ha sostenuto che “abbiamo respinto un nuovo tentativo ucraino di avanzare su tre direttrici e sono stati distrutti 31 carri armati e 78 mezzi speciali nemici, mentre 240 soldati ucraini sono stati uccisi.
Le forze aeree e missilistiche russe, soprattutto, stanno proseguendo una campagna aerea strategica per ovviare alla momentanea inferiorità numerica in truppe di terra, almeno finchè la mobilitazione non avrà dato i suoi frutti.
Per citare solo alcuni esempi, il 1° ottobre il Comando operativo Sud dell’esercito ucraino ha reso noto un attacco russo con due missili, considerati Iskander, sul distretto industriale di Odessa: “Nelle prime ore del mattino due missili, presumibilmente Iskander, hanno colpito una struttura industriale, danneggiando una stazione elettrica e diversi edifici circostanti. Dopo le esplosioni è scoppiato un incendio. Le fiamme sono state spente”.
L’indomani, Mosca ha dichiarato bombardato e distrutto ben “sette depositi di missili e munizioni d’artiglieria nelle aree di Kharkiv, Nikolayv, Donetsk e Zaporizhzhia, mentre a Novaya Kaluga, è stato distrutto un sistema missilistico S-300.
Sempre il 2 ottobre, secondo il governatore militare ucraino Valentyn Reznichenko: “Nikopol e Kryvorizky, nella regione orientale di Dnipropetrovsk, sono stati ripetutamente colpiti dai russi con droni kamikaze, missili Uragan, Grad e artiglieria pesante”.
La mattina del 3 ottobre, poi, il governatore ucraino di Zaporizhzhia-città, Oleksandr Starukh, ha denunciato nuovi attacchi missilistici su infrastrutture. Più in generale, la guerra sembra in questi giorni avviarsi a una fase di stasi prevista a partire probabilmente da metà ottobre, o al massimo dai primi di novembre, quando le fertilissime terre nere ucraine si trasformeranno in un fango denso capace di immobilizzare i veicoli.
I contendenti sono impegnati, nelle poche settimane che restano, a cercare di guadagnare, o consolidare, posizioni ovunque sia possibile in una corsa contro il tempo prima dell’arrivo della mota autunnale.
Se però i fronti terrestri risulteranno nelle prossime settimane in qualche modo impantanati, non così nei cieli, dove la Russia gode di una superiorità asimmetrica nell’attacco a lungo raggio, potendo battere le retrovie nemiche, i depositi e le vie di comunicazione con notevole forza d’urto. Nel frattempo Mosca ne approfitterà per mettere a regime la mobilitazione addestrando i riservisti e preparandoli prevedibilmente a tentare qualcosa di risolutivo in primavera o forse già verso la fine dell’inverno. I prossimi mesi saranno sotto tale aspetto cruciali perché da un lato i russi metteranno di tutto sul loro piatto della bilancia, pur di sfidare i paesi occidentali al cedimento qualora il sostegno all’Ucraina dovesse costare troppo in termini economici, anche alle popolazioni dell’UE.
In vista dell’autunno e poi dell’inverno, il problema del proseguire gli aiuti all’Ucraina è stato affrontato il 18 settembre alla riunione del Comitato militare della NATO a Tallinn, in Estonia, in cui s’è parlato anche della difesa degli Stati Baltici.
Per l’ammiraglio olandese Rob Bauer, attuale presidente del detto comitato: “L’inverno sta arrivando ma il nostro sostegno rimarrà fermo. Munizioni, equipaggiamento e addestramento forniti dagli alleati stanno facendo la differenza sul campo di battaglia. Gli ucraini sono stati molto creativi nell’usare le armi fornite loro in modi che normalmente noi non usiamo”.
Il 20 settembre il Financial Times ha anticipato che la premier britannica Liz Truss intende chiedere di stanziare per il 2023 almeno 2,3 miliardi di sterline, cioè 2,6 miliardi di euro, in sostegno militare e civile per l’Ucraina, già presagendo che il conflitto durerà anche nel prossimo anno. Lo stesso giorno fonti del Pentagono hanno adombrato alla CNN la possibile fornitura futura di carri da battaglia M-1 Abrams agli ucraini: “È certamente sul tavolo la possibilità che gli Stati Uniti forniscano tank all’Ucraina. Ma non avverrà nell’immediato per motivi di addestramento e manutenzione. Guardiamo all’insieme delle Forze Armate ucraine e valutiamo per il futuro di quali capacità avranno bisogno e come gli Usa e i nostri alleati potranno sostenere l’Ucraina nel costruire queste capacità”.
Insomma, gli americani promettono i loro carri, ma non si sa quando, dati i problemi di addestramento nel preparare equipaggi di carristi e meccanici ucraini, abituati ai carri di origine sovietica. E’ anche vero però che, dato che gli Abrams venduti dagli USA alla Polonia hanno iniziato ad arrivare in quel paese in agosto, può darsi che nel frattempo alcuni carristi ucraini vi vengano già addestrati senza troppa pubblicità in terra polacca, stante l’affiatamento antirusso Varsavia-Kiev.
Più lesto l’aiuto della Slovenia, che ha dichiarato l’invio a Kiev di 28 carri M-55S, versione slovena modernizzata del vecchio T-55 sovietico. Il 27 settembre Stoltenberg ha tenuto a Bruxelles una riunione straordinaria della Conferenza dei Direttori Nazionali degli Armamenti (Cnad) per affrontate il problema dell’assottigliamento delle scorte di armi e munizioni dei paesi alleati, causato dal fatto che l’Ucraina sta diventando in pratica un pozzo senza fondo.
E’ chiaro infatti che, se nel contempo aumenta la tensione con la Russia, pare azzardato che le forze occidentali depauperino arsenali già non molto ingenti per un alleato esterno, come l’Ucraina, che sul lungo periodo non ce la farebbe ugualmente in uno scontro totale con Mosca.
Al proposito è interessante citare l’episodio del 28 settembre, quando la Reuters ha anticipato l’approntamento di un nuovo pacchetto di aiuti militari americani da 1,1 miliardi di dollari, che comprendono anche 18 lanciarazzi campali HIMARS.
Zelensky ha subito festeggiato per quello che immaginava un arrivo imminente dei nuovi lanciarazzi, di cui finora gli americani hanno fornito 16 esemplari nei mesi scorsi, vari dei quali però già distrutti dai russi (anche se Kiev nega di averne perduti).
Il presidente ucraino ha prematuramente esultato: “Ringraziamo gli USA per il nuovo pacchetto. Otterremo 18 lanciamissili HIMARS in più, altre attrezzature critiche che porteranno l’Ucraina più vicina alla vittoria”.
Poche ore dopo, però, il Pentagono ha precisato che i nuovi 18 HIMARS “sono parte di necessità difensive a lungo termine e saranno consegnati tra alcuni anni”. Evidentemente tardi per questa guerra, a meno che Zelensky non abbia già in mente che possa durare due o tre anni. Il Dipartimento alla Difesa USA ha infatti fatto sapere che acquisterà direttamente HIMARS ordinati a Lockheed Martin. Non verranno forse più forniti a Kiev HIMARS già pronti e prelevati dagli arsenali dell’US Army, che non vuole più privarsene.
A riprova di quanto il conflitto stia costando, il 30 settembre, il Congresso USA ha varato una legge per spostare al 16 dicembre l’asticella che evita una parziale bancarotta a causa del colossale debito federale di Washington e proprio in questa legge è stato inserito un capitolo che contiene una nuova mega-tranche di stanziamenti, pari a 12,3 miliardi di dollari, per l’Ucraina, che comprendono, 3,7 miliardi in armamenti, 3 miliardi per pagare gli stipendi ai militari ucraini, dato che Kiev non ha il becco di un quattrino, più 4,5 miliardi per la stabilità generale delle finanze ucraine.
FONTE: https://www.analisidifesa.it/2022/10/ucraina-battaglie-e-annessioni-allombra-della-bomba/
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