Roberto Buffagni
Il nuovo premier britannico, di origine indiana, annuncia che farà chiudere le sedi dell’Istituto Confucio nel Regno Unito. L’Istituto Confucio, come il British Council o la Società Dante Alighieri, si limita a favorire lo studio della lingua e della cultura cinese, non è una diabolica operazione di guerra psicologica architettata dallo SM cinese. Possono senz’altro esservi agenti segreti cinesi – o britannici, italiani, etc. – che si accreditano come dipendenti dell’Istituto Confucio, del British Council, etc. Se esso viene chiuso, le spie si accrediteranno con una diversa “leggenda”. Insomma l’Istituto Confucio è – meraviglia! – una istituzione culturale, preziosa per introdursi alla conoscenza di una lingua (difficile) e di una cultura (antichissima, ricchissima, molto diversa dalla nostra e, nel caso di specie, dalla britannica). Dunque, anche dal ristrettissimo pdv della sicurezza nazionale britannica, abolire l’Istituto Confucio è una decisione autolesionista, perché se lo UK designa la Cina come nemico, dovrebbe fare di tutto per migliorare la conoscenza il più possibile diffusa della cultura cinese, così allargando il bacino di potenziali reclute necessarie per l’analisi delle tendenze in atto in Cina (ovviamente per combattere con successo un nemico è indispensabile conoscerlo meglio che si può). Questa decisione del nuovo Premier britannico è insomma una decisione del tutto stupida, e chi l’ha presa è, almeno sotto un profilo importante della sua personalità, un imbecille.
Quali sono le giustificazioni di questa imbecillità di un uomo che, a giudicare dal suo CV, per altri versi imbecille non è? Vediamo. La prima e la più facile è l’effetto “spin”: così, sui media il Premier fa la bella figura del decisionista che schiaffeggia la grande potenza cattiva e comunista, e si appella alle inclinazioni più stupide e identitarie del suo elettorato. La seconda giustificazione è una cosa più seria e più grave: l’idea che la cultura sia un’arma direttamente politica, perché all’azione politica si affida il compito di creare la cultura, censurando e promuovendo a seconda degli interessi politici in vigore; o per dir meglio, il cortocircuito tra politica e cultura, la quale ultima viene integralmente politicizzata, ed è vero, interessante, valido, fruttuoso quel che è politicamente utile, mentre è falso, superfluo, dannoso e sterile quel che non lo è: perché quel che è politicamente utile o meglio “politicamente corretto” è CULTURALMENTE VALIDO ed ETICAMENTE GIUSTO. Questa è in effetti la tendenza che prevale nell’attuale pensiero dominante occidentale, ed è, va da sé, la MORTE della cultura (e l’iniezione letale per l’intelligenza di chi ci casca).
Sino al termine della Guerra Fredda, i due grandi campo geopolitici trovavano, seppur tra varie difficoltà, un terreno di comprensione culturale comune sulla base dell’umanesimo borghese, certo diversamente interpretato, ma formante un campo di intesa e di comunicazione nel quale i nemici potevano continuare a intendersi reciprocamente come uomini aventi pari dignità, pari possibilità di affrontare “i problemi che nessuno può risolvere per noi”, ossia gli interrogativi perenni che si pongono da sempre e per sempre agli uomini e alle loro civiltà, una delle principali funzioni della cultura, da sempre. Purtroppo, l’umanesimo, che è una gran bella cosa, è molto fragile, perché il suo fondamento è il senso religioso, la capacità di rivolgere la propria attenzione al grande mistero che ci supera e ci contiene come l’amnio contiene il bambino nel grembo materno; per farla corta e un po’ semplicistica il fondamento dell’umanesimo è Dio, parola nella quale ciascuno, e ciascuna civiltà, scorgerà significati diversi, e mai esaustivi perché come disse nel XV secolo Nicola da Cusa, la verità è infinita, e noi possiamo approssimarci ad essa come un poligono si inscrive nel cerchio, ossia mai perfettamente finché il poligono non diviene cerchio esso stesso, ciò che accade solo quando ce ne andiamo all’altro mondo e la realtà del Vero ci sommerge. Dio non va forte sull’attuale mercato delle idee e delle sensibilità, sembra addirittura che sia un prodotto obsoleto, come un modello di automobile d’epoca non più in fabbricazione: lo si vede ancora circolare nelle strade ma non si può più acquistare dal produttore, sparito da decenni; tocca impazzire per trovare i pezzi di ricambio e si finisce per dover supplire con un difficile, precario faidate. Suscita ancora un po’ di curiosità e magari di ammirazione per la sua eleganza, come quando vedi passare una Isotta Fraschini e ti sovvengono scenari Liberty high brow, le vestaglie di Fortuny, Proust che va a cenare al Ritz, le grandes horizontales, e altri ricordini farlocchi ma piacevoli (per cinque minuti). Poi si riprende a vivere la vita vera. Però è difficile, vivere “la vita vera” ossia sta roba che ci succede ogni minuto, viverla senza Dio; molto difficile. Difficile vivere e difficile pensare. Invece, è facile diventare imbecilli.
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