Lavoro e cittadinanza
di MARX21 (Alessandro Belmonte)
da https://alessandrobelmonte.it
Alla fine il giorno tanto atteso è arrivato. Dal primo gennaio 2024, il reddito di cittadinanza verrà abolito. Giorgia Meloni ha così mantenuto fede ad una delle sue principali promesse elettorali. Nell’attesa delle definitiva eliminazione, già dal prossimo anno non sarà più possibile richiederlo (non è ancora ben chiaro se solo per le nuove domande o anche i rinnovi) e coloro che sono considerati occupabili (compresi nella fascia di età 18-59 purché non si tratti di donne in gravidanza o non abbiano nel nucleo familiare disabili, minori o persone a carico con almeno sessant’anni di età) potranno usufruirne al massimo per altri otto mesi con l’obbligo di frequentare un corso di formazione o riqualificazione professionale e di accettare la prima offerta di lavoro congrua (la cui definizione non è ancora ben specificata).
Che lorsignori siano assolutamente avversi ad un tale strumento di sostegno del reddito è normale. Lo sono innanzitutto sul piano ideologico, in quanto i liberisti considerano il capitalismo l’unico dei mondi possibili nel quale ogni individuo possa completamente realizzarsi. Ne consegue che, quando ciò non dovesse accadere, la ragione non è da ricercarsi nella insostenibilità di un sistema che concentra le ricchezze nelle mani di pochi eletti ma nell’incapacità del singolo di cogliere appieno le opportunità messe a sua disposizione. Chi è povero, lo è perché non ha alcun merito. Lo è perché non si impegna a sufficienza. Ecco dunque che la povertà diventa quasi una colpa da espiare e che quindi bisogna evitare di aiutare coloro che si trovino in una situazione di indigenza in quanto ciò non solo avrebbe l’effetto di ridurre ulteriormente il loro impegno ma sarebbe anche di cattivo esempio per gli altri. In sintesi: schifano i poveri.
Vi è poi una contrarietà molto più banale e pragmatica data dal fatto che fa sempre comodo avere della manodopera a buon mercato e facilmente ricattabile.
Ciò che, a prima vista, sembra inspiegabile è il consenso popolare che tale decisione riscuote. Infatti, già dalla semplice analisi dei flussi elettorali, si può notare come Fratelli d’Italia sia il primo Partito sia tra gli operai sia tra coloro che si trovano in difficoltà economica. Al netto ovviamente del forte astensionismo che caratterizza, ormai da tempo, il nostro sistema (fonte: analisi dei flussi di voto SWG). Tra l’altro, anche senza analizzare i dati statistici, personalmente mi capita spesso di sentire gente comune, persone umili che lavorano o hanno lavorato per una vita intera esultare per la possibile eliminazione del reddito di cittadinanza.
Quale spiegazione trovare quindi a questo odio di classe rivolto verso il basso? A mio avviso, due potrebbero essere le possibili concause.
La prima, è la campagna mediatica contro il reddito di cittadinanza. Non è passato giorno senza che il fuoco incrociato di giornali e telegiornali ci informassero dei furbetti del reddito, di coloro che lo percepivano in modo truffaldino senza averne diritto, delle povere aziende che per colpa dei fannulloni pagati per stare sul divano non riuscivano più a trovare nessuno disposto a lavorare o di chi aveva addirittura utilizzato la magica tessera gialla per acquistare lo champagne a Natale. Che roba Contessa!
Ma quanto c’è di vero in questa narrazione dominante sui fannulloni del reddito di cittadinanza? Narrazione che, va detto, ha il doppio compito di colpire sia la misura in sé sia l’unica forza “antisistema” con un minimo di consenso di massa ad oggi presente in Italia, a maggior ragione dopo l’evoluzione pacifista e progressista imposta dalla leadership di Giuseppe Conte.
Per provare a dare una risposta è utile analizzare i dati disponibili che ritroviamo nell’ultimo rapporto annuale dell’INPS intitolato “Conoscere il paese per costruire il futuro”. Dalla lettura del capitolo dedicato al Reddito di Cittadinanza si scopre innanzitutto che solo il trenta per cento dei fruitori dell’assegno è “abile” al lavoro ossia ha avuto almeno un’esperienza lavorativa nei tre anni precedenti. Si tratta, tra l’altro, di una percentuale molto bassa caratterizzata dal fatto di avere avuto negli ultimi tre anni uno stipendio inferiore alla media, decrescente anno dopo anno e con orari sempre più ridotti. Così, disperati, hanno richiesto il Reddito.
Proseguendo nella lettura risulta inoltre evidente come il Reddito abbia ridato un minimo di dignità a coloro che lo percepiscono. Cito testualmente: “l’effetto maggiormente significativo si riscontra sulle domande relative al miglioramento della qualità della vita per i percettori sotto tutti gli aspetti considerati: relazioni familiari; relazioni amicali; salute; benessere psicologico. In sintesi, sembrerebbe che gli effetti del RdC siano stati significativi e influenti sulla riduzione dei vincoli di consumo legati a situazioni di estrema povertà e sul miglioramento della qualità della vita. Questi risultati confermano quanto già preliminarmente emerso sugli effetti di RdC sulla riduzione della povertà in Italia, in particolare durante le difficoltà della situazione pandemica”. Tra l’altro, proprio nella fase pandemica, il Reddito ha avuto anche il pregio di ridurre la percentuale di mortalità in modo particolare nelle città più grandi e nelle regioni settentrionali.
Si nota infine anche un seppur lieve vantaggio per gli stipendi, in particolare per quei lavoratori con retribuzioni più basse poiché “a seguito della minore disponibilità di alcuni percettori di RdC ad offrire la propria attività lavorativa, questi lavoratori hanno potuto beneficiare di un lieve incremento di reddito dovuto probabilmente sia al fatto che hanno lavorato di più sia ad un incremento dei salari”. Tralasciando il dato statistico, posso testimoniare che, ad esempio, nel settore in cui lavoro, caratterizzato dall’utilizzo massiccio di forme contrattuali atipiche che spingono alla precarizzazione ed al turnover selvaggio, impedendo a monte ogni possibilità di sindacalizzazione e relative rivendicazioni salariali, molte aziende sono state costrette ad aumentare gli stipendi quasi esclusivamente per l’effetto accennato dal rapporto INPS.
Per quanto martellante, lo sforzo dei media da solo non sarebbe però stato sufficiente alla formazione di un tale senso comune se, nel corso degli anni, non si fosse man mano svuotato il valore socioeconomico del lavoro. Il tutto è plasticamente certificato dalla recente analisi dell’Ocse sull’evoluzione dei salari europei dal 1990 ad oggi. Mentre Giannini e Bennato cantavano le notti magiche, gli italiani guadagnavano in media 40000 dollari l’anno, posizionandosi al settimo posto in Europa. Oggi la media è scesa a 38000 dollari e ci posizioniamo al tredicesimo posto. Ciò a fronte di incrementi salariali, nello stesso periodo di riferimento, che negli altri paese europei (tralasciando quelli dell’ex area sovietica) variano dal +85% dell’Irlanda al +6,2% della Spagna, passando per il +33,7% della Germania ed il +31,1 della Francia. L’Italia non regge il passo nemmeno con gli altri due paesi dei cosiddetti Pigs dato che Grecia e Portogallo registrano rispettivamente un incremento del 30,5% e del 13,7%.
In sintesi, fino a quando c’era la tanto vituperata Prima Repubblica, chi aveva un lavoro, qualunque esso fosse, poteva guardare al futuro con ottimismo. Sapeva che se si fosse impegnato avrebbe potuto costruire per sé e per la propria famiglia un futuro migliore attraverso la dignità del lavoro. Oggi lavorare basta a malapena per sopravvivere e, pur impegnandosi al massimo, sono inimmaginabili cose che erano la norma per gran parte dei lavoratori italiani fino agli anni ’90: la seconda macchina, la villeggiatura, la casa al mare.
A stento si riesce ad arrivare a fine mese mangiando schifezze dei discount e sperando che non accadano imprevisti che non consentano di pagare qualche bolletta. È logico che in un clima di tale disvalore economico e sociale del lavoro, possa sembrare quasi un privilegiato chi “stando seduto sul divano” percepisca un reddito che non si discosta molto da quello di chi ogni giorno si spacca la schiena per ore.
Il problema quindi non è il reddito di cittadinanza bensì ridare dignità al lavoro.
Fonte: https://www.marx21.it/italia/lavoro-e-cittadinanza/
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