Abbiamo ancora bisogno della verità?
di DOPPIO ZERO (Felice Cimatti)
Gloria Origgi è ottimista. Gloria Origgi è una filosofa, e quella dei filosofi è una categoria uscita piuttosto divisa e ammaccata dalla vicenda del virus. Il punto è proprio questo, i filosofi – a partire dal più famoso di tutti, Giorgio Agamben – hanno preso un abbaglio, quando mettevano in guardia sul modo in cui le autorità mediche e politiche hanno condotto la lotta contro la pandemia, oppure forse le loro preoccupazioni erano, almeno in parte, fondate? Origgi fa parte del gruppo delle filosofe e filosofi che cercano di difendere una nozione che è mal messa forse anche più della categoria dei filosofi, la nozione di “verità”.
In effetti, scrive Origgi (Caccia alla verità. Persuasione e propaganda ai tempi del virus e della guerra, Egea 2022), “la conclusione radicale di Foucault – secondo cui la verità è inestricabilmente intrecciata con la politica – non sembra rendere conto della cocciutaggine dei fatti, del loro permanere al di là delle politiche e delle epistemi e della loro robusta irruzione nel mondo delle rappresentazioni. Il Covid è un fatto. Chiamarlo così, descriverlo come un virus e disegnarlo come una palla piena di bitorzoli sarà frutto magari dell’episteme della scienza contemporanea, ma chi è morto è morto e chi si è vaccinato si è vaccinato in qualsiasi episteme possibile che possiamo immaginare con la fantasia” (p. 22).
I fatti sono cocciuti, è innegabile, come quella montagna che è appena venuta giù per la pioggia. C’è un virus (non prendiamo nemmeno in considerazione chi contesta l’esistenza stessa del virus, non si discute con chi nega l’evidenza, è una perdita di tempo), un virus che provoca una malattia, quella chiamata Covid-19, che ha provocato e tuttora provoca la morte di milioni di esseri umani in tutto il mondo. È vero che c’è un virus, infatti anch’esso ha ricevuto un nome, si chiama Sars-CoV-2. Fin qui, non ci sono problemi, la verità è salva. La posta in gioco, tuttavia, non è se il virus ci fosse, quanto come affrontare l’epidemia.
La verità, a questo punto, diventa subito una questione politica. E in molti casi direttamente poliziesca. State a casa, decide un governo, non è necessario che stiate a casa, decide un altro governo. La mascherina nei luoghi pubblici è obbligatoria, decide un ministro della sanità, è consigliata, non obbligatoria, decide un altro ministro della sanità. Quella verità al singolare, così confortevole e semplice da seguire improvvisamente diventa complicata, non c’è più una verità, sembrano essercene molte; e c’è di peggio, queste verità al plurale non vanno d’accordo fra di loro.
La verità, che sembrava essere solo una faccenda scientifica diventa una faccenda politica. Ma a questo punto il dubbio diventa lecito, e sinceramente inevitabile: bisogna fare così perché è la scienza che lo stabilisce, dal momento che è la scienza che stabilisce che cos’è vero e che cosa non lo è, oppure bisogna fare così perché è l’autorità politica che decide quello che è vero e che è falso? Si pensi al caso del green pass: come mai in democrazie molto più antiche e consolidate della nostra non si è fatto ricorso a una misura così estrema e controversa per contenere la pandemia? Avere dubbi sulla sua effettiva necessità voleva dire essere un pericoloso oscurantista antiscientifico? Si può parlare di scienza anche senza essere uno scienziato? Perché uno scienziato poteva liberamente parlare di politica, e di misure di ordine pubblico?
Il problema, con la verità, è che non esiste al singolare, ma solo al plurale. Non c’è la verità, ci sono le verità. È evidente che se di verità ne esiste solo una è facile sapere che fare, mentre se ce ne sono molte, e fra loro in competizione, diventa molto difficile decidere come comportarsi. In realtà l’abbiamo sempre saputo, ma è appunto diventato del tutto evidente con la pandemia, quando abbiamo assistito avviliti allo scontro televisivo fra i diversi esperti, tutti autorevoli e qualificati, che troppo spesso non erano d’accordo fra loro sull’epidemia e su come affrontarla.
Ricordiamo la faccenda delle mascherine, nelle prime settimane del 2020? Non servono, servono, forse sì, forse no, ma dipende dal tipo, dalla distanza interpersonale, dal tessuto. Ci è stato subito detto che la scienza è democratica, e che dovevamo essere contenti, in fondo, di questa ricchezza di opinioni, perché è proprio il pluralismo il principale valore della ricerca scientifica. Guardate che succede in Cina, ci veniva detto, volete una società schiacciata sotto l’unica verità imposta dal Partito? Come giustamente scrive Origgi, è urgente “rendere più democratica la scienza [e questo] significa semplicemente riconnetterla con la sua matrice democratica, di apertura al dibattito, rivedibilità permanente, e orientamento al bene comune.
Un’attività pubblica di intelligenza collettiva, come dovrebbe essere la migliore politica. Rendere la scienza più democratica significa accettarne i limiti e la rivedibilità, significa in qualche modo ‘umanizzarla’ e non escluderla dal mondo della vita e dei valori che deve restare a fondamento della sua stessa esistenza (p. 40). Si capisce perché abbiamo scritto che Gloria Origgi è ottimista, perché nonostante tutti i problemi che la gestione della pandemia ha messo in evidenza è chiaro che non possiamo fare a meno della scienza e, con la scienza, della nozione di verità. Allo stesso tempo i problemi legati a quel plurale rimangono tutti, e quindi è più che mai necessario provare a rispondere alla domanda su come “evitare la conclusione relativista che ogni convenzione si equivale e che dunque, se la verità è politica è per forza relativa a un punto di vista?” (p. 21).
Un modo per rispondere a questa domanda sarebbe quello di affidarsi agli esperti, ossia a persone che – per rimanere nel campo della scienza – dovrebbero garantire di parlare soltanto a nome della verità, indipendentemente da ogni intromissione politica. Ma proprio il caso del virus ha mostrato quanto anche l’esperto, forse ancora più del filosofo, sia uscito malconcio dalla prova terribile dei dibattiti televisivi. Origgi non si nasconde il problema, acuito, se possibile, dalla (peraltro legittima) ambizione dell’esperto.
Un’ambizione che lo porta spesso a presentare il proprio punto di vista come l’unico esistente, finendo così, paradossalmente, per lasciare ancora più nello sconcerto chi avrebbe invece voluto affidarsi al suo parere per farsi un’idea chiara sul da farsi: “chi produce il sapere dovrebbe quindi rendersi conto dei suoi paraocchi, imparare a farsi delle domande sulla presunta neutralità e oggettività della conoscenza” (p. 84).
In effetti quando si passa alla parte propositiva del libro Origgi insiste soprattutto su questo punto, l’autoconsapevolezza dell’esperto che non sempre, a essere ottimisti, è consapevole della funzione che occupa in una società moderna, una società che è moderna non malgrado la sua complessità, ma proprio in virtù di questa molteplicità di punti di vista. Il difficile momento della verità forse è dovuto più che alle fake news o alla post-verità al fatto che chi per primo dovrebbe difenderla, in particolare lo scienziato, presume di rivolgersi a un pubblico di persone incapaci di farsi un’opinione documentata, e ragionevole, su fatti e problemi che li riguardano in prima persona.
Insomma, scienza, politica, valori e società non solo sono inseparabili, ma sono necessariamente tali: il mito di una scienza neutra, scevra dai valori della società rischia di essere solo un modo di evitare di prendersi le responsabilità che vanno con il dovere di rappresentare la realtà. Si può essere oggettivi, anzi, ancora più oggettivi, se si riflette sui propri pregiudizi, sul posizionamento e i valori dai quali si guarda il mondo, rendendosi più consapevoli dei possibili pregiudizi che il nostro sguardo sempre situato proietta sulla realtà (p. 110).
Ecco perché scrivevamo che questa di Gloria Origgi è una proposta ottimistica, perché non cessa di credere nella capacità del discorso scientifico di prendere coscienza della inevitabile parzialità della propria stessa prospettiva: “dobbiamo fare prosperare la fiducia, l’unica arma contro l’idiozia scettica di pensare che tutte le idee si equivalgano: le persone non dovrebbero essere sanzionate per la loro naturale fiducia che […] è persino razionale. Piuttosto, dovrebbero essere incoraggiate a fidarsi in modo sicuro e a utilizzare pienamente la loro cognizione sociale senza sentirsi vulnerabili alla disinformazione” (p. 163). È proprio questo il punto decisivo, la questione della fiducia.
Bisogna fidarsi della scienza, è giusto, ma forse e soprattutto bisogna fidarsi delle persone, che non vanno trattate come incapaci di proteggersi e di badare al proprio interesse. La posta in gioco, come scriveva Ivan Illich in Per una storia dei bisogni, è “l’incapacità, peculiarmente moderna, di usare in modo autonomo le doti personali”. La modernità tecno-scientifica, e il potere politico da cui è inseparabile, non crede più nelle risorse delle persone, che ritiene infatti che vadano protette anche da loro stesse. La verità è importante, ma di una verità senza libertà non c’è alcun bisogno. Perché solo di questo, in fondo, si occupa la filosofia, della libertà. Non è un bel tempo quello in cui per offendere qualcuno lo si definisce un “filosofo”.
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