“Teologia politica e diritto” di Geminello Preterossi. Un libro “più moderno di ogni moderno”
di La Fionda (Carlo Magnani)
Teologia politica e diritto è il titolo del libro di Geminello Preterossi uscito per i tipi di Laterza nell’ottobre del 2022. Si tratta di un testo importante, che rappresenta forse una epitome del lungo e apprezzato lavoro di ricerca che l’Autore ha inaugurato con la monografia Carl Schmitt e la tradizione moderna nella metà degli anni Novanta. I due ambiti tematici indicati nel sobrio titolo, cioè la teologia politica e il diritto, costituiscono infatti la materia viva su cui Preterossi riflette da sempre, ma in questa circostanza si registra un salto, che consiste nella intensificazione della loro esposizione alla luce di quel magma filosofico che chiamiamo ancora il Moderno. Siamo costretti ad essere parte del Moderno, anche nostro malgrado, nonostante le mode culturali, nonostante i vari prefissi “post” che vorrebbero spingerci verso un ineffabile “oltre”. Il messaggio che ci giunge da queste pagine è che per comprendere la dimensione politico-giuridica bisogna confrontarsi con tutta la tradizione moderna, che è quella che parte da Cartesio (nella metafisica) e Hobbes (nelle scienze politiche e giuridiche) per giungere sino ai nostri giorni.
Il rapporto che Preterossi allaccia con questa trazione è passionale e coinvolgente, riprodotto in una prosa che è al contempo misurata e accalorata, precisa e debordante. Non si tratta affatto di un testo facile, tantomeno da recensire, anzi, presenta una complessità notevole, necessitando una assimilazione lenta e meditata. Come avviene in tutti i grandi libri, al centro c’è una sola grande idea che trova sviluppo in variegati pensieri, una sola grande questione che viene approfondita con la forza con cui si deve maneggiare la pietra portante che dovrà reggere tutto l’edificio. Anche la costruzione del libro testimonia questa sorta di pluralità monolitica, le quasi trecento pagine sono organizzate attorno a sei capitoli, cintati da una introduzione e da una conclusione, che si presentano nella loro nuda essenzialità come un unico lungo pensiero, senza l’intervento di paragrafi che spezzerebbero il ragionamento e con un ricorso minimo a note a piè di pagina, che non sono tanto bibliografiche ma veri e propri incisi esplicativi dell’Autore, quasi dei ceselli autografi.
Ma quale è questa idea di fondo, quindi? “La tesi fondamentale di questo libro è che la teologia politica sia inestinguibile. Anche al tempo della sua negazione quale è quello presente” (p. 3)[1]. Questo è l’incipit del testo, e Preterossi non poteva davvero essere più esplicito nella dichiarazione di intenti. La questione della teologia politica moderna, come è noto, è stata fissata indelebilmente da Carl Schmitt nel celebre saggio Teologia politica, nel quale in avvio del paragrafo terzo afferma lapidariamente che “Tutti i concetti più preganti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati” (p. 61)[2]. Si tratta di una formula sintetica da cui Preterossi prende le mosse per ricavarne la massima prestazione possibile, percorrendola sia orizzontalmente, in senso quindi storico dalla modernità ai giorni nostri, sia verticalmente, scavando alacremente dentro le categorie teoriche. La modernità politica e giuridica si struttura a partire dalla fine del Seicento mediante una rivoluzione spirituale che ha portato al tramonto il vecchio ordine tradizionale eretto sulla garanzia delle verità di fede. La metafisica sostanzialista teologica basata sull’ordine delle cose lascia il posto alla secolarizzazione del potere e del diritto, alla loro costruzione razionale e artificiale che si appoggia su una nuova idea di natura: la città degli uomini si fa del tutto autonoma da quella di Dio, secondo il brocardo di Hobbes che fonda il diritto statale moderno “auctoritas, non veritas facit legem”. Da questa condizione spirituale e sociale possono scaturire varie risposte. Vi può essere il rimpianto del passato, come avviene nel tradizionalismo conservatore. Può sorgere anche un atteggiamento opposto, di estrema enfasi dell’immanentismo moderno, come avviene nell’illuminismo liberal-progressista che confida nella spinta acceleratrice del Moderno. Per certi versi anche lo storicismo marxista risulta assimilabile a tale posizione. Delle filosofie della storia progressiste diffidano al contrario coloro che nel nichilismo implicito della secolarizzazione valorizzano invece la dimensione del negativo.
La teologia politica non è però assimilabile ad alcuno di questi orizzonti. La relazione che essa costruisce col Moderno è del tutto interna, come nelle filosofie della storia, essa infatti è “laica e non sostanzialista”, ma è in grado di smentire – a differenza di quelle – “le auto-rappresentazioni liberali e illuministe della ragione politica moderna” (p. 12)[3]. A fare la differenza è la capacità di rappresentare – e il termine va inteso in tutta la sua portata, come rappresentazione dell’assente –, anche e soprattutto simbolicamente, le contraddizioni del politico, cioè la capacità di rendere conto di una “eccedenza” del moderno, che è data dalla dimensione disordinante, caotica, conflittuale, dialettica su cui si erge l’ordine politico-giuridico. In questo senso la teologia politica è katechon, cioè apparato frenante del nichilismo immanentista della modernità. Ma ciò che preme rilevare, e che Preterossi non si stanca mai di ripetere, è il carattere del tutto interno della teologia politica alla modernità giuspositivista. Essa non può esprimere alcuna nostalgia della metafisica sostanzialista e teologica, perché ha una origine politica e quindi è idonea a fondare anche il diritto del tutto laicamente. Tuttavia, resta aperta sull’abisso della obbligatorietà di un fondamento senza fondamento, indica il senso di vuoto e al contempo il bisogno di un senso: ma dentro l’immanenza, non oltre e non prima. Gli autori che Preterossi affronta per delineare il quadro concettuale della teologia politica sono la triade Hobbes-Hegel-Schmitt. In tutti e tre emerge l’irriducibilità del Politico ad una socialità pacificata, di per sé produttiva di ordine, pace e diritti. Sia il razionalismo positivistico (Hobbes), sia la dialettica sociale e l’immane potenza del negativo (Hegel), che la ricerca genealogica sulle categorie della politica (Schmitt), disegnano un percorso alternativo a quello consolidato nel liberalismo (Locke, Kant, Kelsen), che mostra tutta la dimensione conflittuale insita nella società moderna e tardo-moderna. Preterossi valorizza una linea che presenta il conto di una modernità inquieta e scomoda, che cerca la dimora del Politico oltre le procedure razionali e che non si accontenta della finzione della Grundnorm. In questa operazione percorre un crinale molto insidioso, in cui rischia anche di finire nei paraggi dell’irrazionalismo: è come se portasse al limite estremo, sino al margine della rottura, il paradigma del Moderno, provando a valorizzarne al massimo il paradosso del carattere auto-fondativo. Rispetto alle filosofie della storia, la teologia politica non gode della polizza assicurativa del superamento dialettico; rispetto al pensiero negativo non si accontenta di ammirare il baratro delle rovine della storia: è troppo moderna per un verso, e lo è troppo poco per un altro. Trovare un senso nel nichilismo senza ricorrere ad alcuna forma di finzione è davvero una impresa improba, che forse solo la decisione politica artificiale può adiuvare. Così come riconoscere l’oggettività e la legittimità del presente rischia di scontrarsi con la produzione di soggettività politiche trascendenti. Queste contraddizioni restano aperte nel libro di Preterossi, che per questo porta il Moderno ai confini più estremi della sua pensabilità: un metro prima c’è l’apparente sicurezza del Progresso, un centimetro dopo si cade nella voragine del Negativo. Non è una condizione molto comoda.
Ad arricchire il testo arrivano poi anche altri autori, a segnare il passaggio del libro a temi più contemporanei, dove l’impianto teorico teologico politico dei “tre terribili” viene messo in attualità toccando tutte le questioni più cogenti che attraversano la sfera giuridico-politica. Così Gramsci, Laclau, Foucault, ma anche Benjamin e Agamben, diventano interlocutori efficaci della prestazione della teologia politica. Un breve inciso: molto interessante e originale il tentativo di ricavare dallo storicismo assoluto di Gramsci risorse teologico politiche. Una impresa di cui l’Autore non nasconde le difficoltà e le ambiguità, ma che decide di affrontare muovendo dal combinato disposto di egemonia-religione-nazionalpopolare-partito politico, provando a estrarne una meta-politica che sfugge al marxismo gramsciano. E vista che l’influenza che questo ha avuto sul marxismo e sulla politica della sinistra italiana è un filone davvero da approfondire.
Preterossi legge la fenomenologia della politica e del potere odierni alla luce della crisi della modernità globalista neoliberale: così crisi della forma partito e della democrazia costituzionale, bio-diritto e bio-politica, populismo, ma anche l’economia finanziaria, l’emergenzialismo, diventano comprensibili grazie alla speciale prospettiva offerta dal paradigma della teologia politica. Qui troviamo la risposta al quesito iniziale, se cioè è possibile una dimensione del Politico che prescinda dalla teologia politica. Quando Preterossi parla di teologia politica oscilla, a nostro modesto avviso, tra due concezioni del Politico, una ontologica e una normativa, che si intrecciano nel testo. Nel primo caso la teologia politica serve per rispondere alla domanda su ‘che cosa è il Politico’, ne delinea l’essenza: ed infatti polemizza co Laclau e Mouffe sul loro anti-essenzialismo, mostrandosi ancora una volta dentro il Moderno. Nel secondo caso, invece, la teologia politica sembra indicare che ‘cosa dovrebbe essere il Politico’, cioè quali profili servirebbero per una politica emancipativa e di autonomia democratica. Dalla teologia politica, quindi, è possibile ricavare tanto una ontologia del Politico che una normatività della politica. Le due visioni si presentano sovrapposte e si sorreggono vicendevolmente, a volte prevale l’una altre volte l’altra, realizzando una forte produttività di analisi. Sembra che Preterossi individui una sorta di epoca d’oro della politica in cui la dimensione ontologica e quella etico-prescrittiva erano pienamente soddisfatte: è il Trentennio Glorioso del costituzionalismo democratico-sociale, in cui il Politico tramite i partiti di massa (la Costituzione materiale di Mortati) occupa la scena ed esplica la sua autonomia dall’economico e da altre istanze sociali, divenendo anche produttore di senso popolare. Oggi invece è l’età della crisi del Politico, la teologia politica è sostituita da surrogati quali la teologia economica e la teologia giuridica, che per l’Autore negano tanto l’essenza del Politico quanto i valori democratici. E questo è il rovello della domanda iniziale, può davvero estinguersi la teologia politica? Preterossi sostiene che non è possibile perché c’è un’essenza in gioco che non può essere cancellata, al massimo rimossa pagandone prezzi pesanti (crisi della democrazia, ideologia dei diritti astratti, universalismo economico globale). In questa mossa rivela quello che definirei (forse impropriamente?) un certo platonismo: mette cioè al riparo dalla storia l’essenza del Politico, e lo fa sfuggendo da ogni versione storicista della modernità. La tradizione moderna allora ritorna come dispositivo paradossale, come fondamento senza fondamento, con una dialettica che non si chiude mai perché resta aperta su un lato, dove si apre uno spazio che si può solo vedere e mai percorrere. Dentro il moderno c’è la necessità della trascendenza, sia pure laica e auto-fondata. Questo elemento ontologico della teologia politica è forse il nucleo teorico più autentico di questo testo, che mette in secondo piano la normatività del Politico. A partire dalla trascendenza secolare possono sgorgare esiti aperti. Ne sono una testimonianza due commenti che il libro ha ricevuto. In uno, di Mariano Croce[4], prevale l’aspetto laico e persino ateistico, nell’altro di Gabriele Guzzi[5], in maniera speculare e opposta, invece si enfatizzano gli esiti ultra-mondani e religiosi del momento teologico politico.
Precisata la centralità della tradizione moderna nella forma istituzionale della teologia politica, resta però aperto un dilemma, cioè se le vicende della storia (che sono pur sempre connesse alla immane potenza del negativo) non siano ormai soverchianti questa tradizione, sino al punto di travolgerla o di svuotarla del tutto dall’interno; cioè se l’ontologia del Politico possa ancora reggere gli urti delle nuove teologie tecno-bio-economiche. Insoddisfatti del presente e disillusi di ogni ideologia progressista, siamo costretti a domandare e a usare risorse preziose come il libro di Preterossi, coi piedi ben dentro la tradizione, come Pasolini “più moderni di ogni moderno”.
[1] G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Laterza, Roma-Bari, 2022.
[2] C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna, 1972.
[3] G. Preterossi, cit.
[4] M. Croce, Senza Dio tutto è possesso: contro la teologia economica, in Minima&Moralia, 15 ottobre 2022.
[5] G. Guzzi, Sovranità filiale. Cristo e la teologia politica, LaFionda, 23 dicembre 2022.
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