Le reti di Danilo Dolci e l’organizzazione di comunità, tra mediazione e agitazione
di GLI ASINI (Marco Grifo)
Venticinque anni fa, il 30 dicembre 1997, moriva a Trappeto, in provincia di Palermo, Danilo Dolci. A Trappeto, 45 anni prima, nel 1952, aveva cominciato la sua opera di intervento sociale, educativo, economico, cooperativo, con contadini, pescatori e disoccupati di una delle aree più povere dell’Italia del dopoguerra. Per ricordarlo, riprendiamo qui alcuni estratti del libro Le reti di Danilo Dolci. Sviluppo di comunità e nonviolenza in Sicilia Occidentale (Editore Franco Angeli, 2021), di Marco Grifo. Questo libro, al cui autore la scorsa estate abbiamo conferito il premio “Gli Asini” 2022 (https://gliasinirivista.org/premio-gli-asini-2022/), è importante non solo perché propone una ricostruzione storica accurata e ricca di documenti della vicenda di Dolci in Sicilia, capace di mostrarne anche le difficoltà, le contraddizioni, le ambiguità, ma anche perchè pone giustamente l’attenzione sulle reti che circondarono, sostennero, arricchirono l’opera di Dolci: i valdesi, alcuni gruppi cattolici, gli intellettuali legati al Partito d’Azione, Aldo Capitini, la casa editrice Einaudi, il movimento di Comunità di Olivetti, le scuole che formavano i primi assistenti sociali, alcune sezioni del Pci siciliano. Le reti sono più importanti dei singoli: è questo uno degli insegnamenti di questo testo e di questa vicenda. Va tuttavia ricordato che in quelle reti vi erano anche profonde divergenze di metodo e di approccio al lavoro sociale, educativo e di comunità. Il libro ricostruisce quei dibattiti, che ci sembrano ancora oggi utili strumenti di ragionamento. Ringraziamo Marco Grifo per averci consentito di riprendere queste pagine, da cui abbiamo espunto le note a pie’ pagina, per le quali rimandiamo alla lettura del testo originale (Gli Asini).
Il processo per lo sciopero alla rovescia del 1956 fu uno dei momenti di massima mobilitazione dell’opinione pubblica intorno a Dolci. Fu proprio in quel frangente che alcune delle personalità a lui vicine provarono a coordinare le energie che si erano messe in moto. Nel già citato incontro del 18 maggio 1956 al Circolo della riforma di Milano, era stata approvata la proposta di Vittorini di costituire un comitato per promuovere un reale progetto di sviluppo. I primi a muoversi in questa direzione furono, dunque, i comitati di Milano e Torino. A Milano, Riccardo Bauer, esponente di fama dell’antifascismo, ex-azionista e presidente della Società Umanitaria, redasse un progetto volto a stimolare nella popolazione locale una capacità autonoma di lavoro produttivo. Il comitato propose quindi di dare vita, attraverso l’invio a Partinico dell’assistente sociale Pietro Nuccio, a botteghe di lavoro artigianale (falegnameria e fabbro), a un piccolo centro di edilizia e a una scuola di cucito femminile. Anche il comitato di Torino e l’Animi decisero di intervenire, inviando le assistenti sociali Angela Sana e Adriana Barbaglia. Questo primo progetto e soprattutto, di lì a breve, la nascita dell’Associazione per l’iniziativa sociale, segnarono l’inizio di una nuova fase per il lavoro sociale in corso a Trappeto e Partinico, un momento di ripensamento generale e d’immissione di personale qualificato.
La nuova direzione che stava prendendo il lavoro sociale in Sicilia occidentale era in sintonia con le più innovative esperienze di comunità e d’intervento socio-educativo che caratterizzavano l’Italia di quegli anni. L’immediato dopoguerra aveva visto nascere una fitta rete di piccoli gruppi, scuole e organizzazioni che, incrociando culture e prospettive molto diverse, riuscirono a creare esperienze di sviluppo sociale e culturale. La dimensione in cui si muovevano queste minoranze era quella comunitaria, poiché l’ambito territoriale limitato, come ad esempio un quartiere urbano periferico o un centro cittadino rurale, era considerato lo spazio migliore in cui operare a partire dalle reali esigenze dei suoi abitanti. Il pilastro di questa prospettiva di sviluppo era la ricerca di soluzioni condivise con la popolazione.
[…]Nel gennaio del 1957, i sostenitori della causa di Dolci, in un incontro a Sermoneta, decisero, infatti, la costituzione dell’Associazione per l’iniziativa sociale. Erano presenti i delegati dei comitati in favore di Dolci e diverse personalità dell’associazionismo di matrice laica operante nel settore dell’educazione e dell’intervento sociale. Il progetto discusso in quella sede era il risultato di un’inchiesta compiuta sul territorio siciliano da Rocco Mazzarone, Angela Zucconi e Manlio Rossi-Doria. Questi avevano già collaborato al progetto per la città di Matera, che prevedeva lo spostamento della popolazione che viveva nei Sassi nel nuovo quartiere La Martella. Il progetto realizzato dal Cepas, l’Unrra-Casas, la Scuola agraria di Portici e dall’Istituto nazionale di urbanistica di Olivetti si era però rivelato un fallimento, a causa dei contrasti tra i partiti della maggioranza governativa, interessati principalmente ad allargare il proprio consenso politico, e il movimento comunitario, impegnato a favorire la crescita di una coscienza democratica. Nonostante ciò, Mazzarone, Zucconi e Rossi-Doria cercarono di impostare un progetto di sviluppo nella Sicilia occidentale, provando a ricondurre le energie che si erano concentrate intorno a Dolci nell’ambito della nuova politica a favore delle zone depresse auspicata dal cosiddetto “Piano Vanoni”, nella speranza che le recenti condizioni politiche rendessero più agevole il loro lavoro. La relazione, frutto della loro inchiesta in Sicilia, fu consegnata il 30 settembre 1956. Essa circoscriveva innanzitutto una zona d’intervento omogenea, ovvero quella che si sviluppava intorno a Trappeto e Partinico, delimitata a est da Giardinello e Montelepre e a ovest da Balestrate e da una parte del territorio del comune di Alcamo, comprendendo una superficie di 17.000 ettari e una popolazione di quasi 50.000 abitanti. La relazione descriveva una zona la cui economia si basava fondamentalmente sulla produzione del vino e la cui superficie era coperta dalla coltivazione di vigneti per più di 8.000 ettari di terreno. Le fasce più povere della popolazione erano dedite alla pastorizia o al precario bracciantato ed erano le stesse che avevano rapporti diretti o indiretti con il fenomeno del banditismo, che proprio nella zona aveva il suo epicentro. La relazione infine individuava nella concreta prospettiva della realizzazione di una diga sul fiume Jato, che permettesse di incrementare e trasformare l’agricoltura della zona, il modo per poter arginare la drammatica condizione fin qui descritta.
[…]I membri dell’Ais concordavano tutti su alcuni dei principi base dello sviluppo di comunità, come ad esempio il superamento di una semplice assistenza, la promozione di strumenti che facilitassero l’autoaiuto, l’implementazione delle capacità tecniche e professionali dei cittadini e soprattutto l’importanza della partecipazione dal basso, che attraverso il dialogo e la discussione rendeva lo sviluppo di comunità uno strumento di democrazia. Per Dolci, però, lo sviluppo non poteva fermarsi a un miglioramento delle capacità produttive e della coscienza civica, assumendo invece sfumature religiose e accenti di aspirazioni rivoluzionarie e di trasformazione integrale dell’uomo e dei rapporti umani. Proprio mentre era in corso la costituzione dell’associazione, Aldo Capitini, nel libro Rivoluzione Aperta (1956), descriveva i centri di Dolci come l’esempio migliore in Italia di esperienze che muovevano, appunto, verso la «rivoluzione aperta». Capitini elencava alcune caratteristiche dei centri: spontaneità di adesione e libertà di separazione in qualsiasi momento; comunione di mezzi e modi di vita; apertura dei servizi a tutti, «dando aiuti di pensiero, parola, cultura, animo, mani, cose, a chi è possibile, senza nessuna distinzione»; eguaglianza di tutti i partecipanti; apertura nei confronti di tutte le idee religiose e politiche, «l’unica cosa che bisogna avere per entrare nel centro è la fede che tutti i mali degli uomini sono guaribili, e sentire il dovere di fare il possibile con animo amorevole». Erano elementi che Dolci aveva sicuramente ripreso da Capitini, dalla sua esperienza a Nomadelfia e dalla comunità di Agape.
Si deve notare, però, come quest’approccio “aperto” a tutti, che si basava sulla valorizzazione del contributo volontario di ciascuno, potesse essere problematico per chi in quel momento cercava di impostare un lavoro di comunità per lo sviluppo della zona. Si ponevano, in particolare, una serie di questioni riguardo all’identificazione dei destinatari del lavoro, ai volontari e alla loro formazione. Per spiegare bene la divergenza tra l’impostazione di Dolci e quella di Angela Zucconi possiamo soffermarci sul saggio che quest’ultima aveva scritto nel 1952 per affrontare la questione della leadership locale e del ruolo degli assistenti sociali. Nel saggio si poteva leggere:
Il leader che si presentasse al “vicinato” come il suonatore di Hamelin (e la tentazione è fortissima) si accorge ben presto che il Centro sociale diventa fatalmente un punto di attrazione per ogni varietà di dilettanti, di falliti, di squalificati e di addomesticati. “Gli altri” possono interessarsi a queste iniziative, solo quando chi le sollecita, tiene presente il contesto, quel “mondo migliore” non meglio identificato, per costruire il quale, comunque, non si possono adoperare soltanto gli avanzi. Un centro sociale aperto soltanto a individui dalle “munizioni bagnate”, un centro sociale dal quale restassero escluse “le anime ad alta tensione”, politica o religiosa, finirebbe per essere un ennesimo istituto di ricovero, anziché un modesto tentativo di rendere vera la democrazia.
Come si intuisce, anche semplicemente dalle scelte linguistiche, il ruolo che Dolci e Zucconi attribuivano al centro sociale non poteva essere più distante. Da una parte vi era l’apertura, lo sforzo di valorizzare chiunque, anche i più deboli ed emarginati, dall’altro vi era una visione meno conciliante e più severa, che puntava all’individuazione delle persone più capaci a cui affidare la leadership del processo di sviluppo. Lo stesso problema ma da un’angolazione più intima era presente in una lettera che Gigliola Venturi scriveva a Dolci nel 1956:
Una critica molto severa a te per aver trasportato Borgo da Trappeto a Partinico. Giustamente tu giudichi Trappeto una retroguardia, Partinico la trincea dove più dura e fervida è la battaglia. Sii conseguente allora: bambini piccoli, grandicelli e ragazzi (specialmente se indisciplinati e disordinati come i vostri) sono degli “impedimenta”, e vanno lasciati nella retroguardia. Mi dici che occorreva, che i ragazzi si sentivano dei privilegiati, che bisognava toglier loro di testa quest’idea. È vero, il problema esiste, ma non l’hai risolto, anzi l’hai reso più difficile. A Partinico i vostri ragazzi si fanno servire dalla mamma o dalle donne del vicinato. Neanche il letto si rifanno, si siedono a tavola e aspettano che Vincenzina, stanca, li serva. Non lavorano, non studiano, non si lavano, si pisciano addosso per pigrizia di andare al gabinetto (parlo specialmente dei più grandi), di notte rubacchiano i soldi dalle tasche dei grandi e poi reciprocamente tra di loro. Insomma, scusa la durezza, c’è talvolta un’atmosfera di pezzenti che si fanno servire da più pezzenti ancora.
Le critiche di Venturi sembravano ricalcare le paure che Zucconi aveva espresso nel saggio del 1952, mettendo in risalto le contraddizioni presenti in un centro sociale che voleva perseguire una politica di empowerment, ma finiva per risultare esclusivamente assistenziale.
Queste contraddizioni erano ben presenti nella già citata inchiesta di Zucconi, Rossi-Doria e Mazzarone del 1956. Nella parte conclusiva del resoconto, gli autori avevano infatti evidenziato alcune criticità del lavoro di Dolci. Innanzitutto, avevano messo in risalto come nella sola estate di quell’anno, tra il campo di lavoro e le inchieste, fossero transitati per Partinico e Trappeto più di cento giovani, considerando questa eccessiva affluenza un fatto negativo per il rapporto con la popolazione locale. Non soltanto poteva comportare incomprensioni e momenti di tensione, ma l’organizzazione dei giovani volontari sottraeva notevoli energie a Dolci. Suggerivano anche di scegliere se portare avanti «un’azione tutta rivolta al miglioramento materiale e spirituale della gente di Trappeto e di Partinico» oppure «un’opera di assistenza ai giovani che risultano per la grande maggioranza dei disadattati». Le loro critiche inoltre non risparmiarono l’atteggiamento di molti volontari che erano portati a «identificarsi» con «la gente in mezzo alla quale lavorano». Dolci aveva sempre considerato essenziale una sorta di comunione con le persone locali e ciò è testimoniato dalla sua scelta di vita e dalla sua decisione di sposare una vedova del luogo. Ben diversa era la posizione degli autori del resoconto, che si spaventarono soprattutto per le condizioni in cui trovarono, durante la loro visita, Goffredo Fofi a Cortile Cascino. Questo episodio è ricordato dallo stesso Fofi in un suo lavoro del 1994, in cui ha scritto:
Dopo pochi mesi di vita nel Cortile ero sporco e piagato come un ragazzo del posto; e Rocco Mazzarone, che venne in visita assieme ad Angela Zucconi e Manlio Rossi-Doria si spaventò della mia denutrizione, e ne fece, mi ha detto anni dopo, tutta una questione con Danilo. Mi hanno anche detto che questi amati maggiori [le persone del luogo] mi chiamavano tra loro “San Giovannino” […]. Avevo capito quale pericolo di inefficienza comporti farsi troppo assorbire, diventare troppo come le persone che dovresti assistere o aiutare a cambiare, abolire ogni distanza, farsi totalmente simile. Eppure, quella del Cortile, è stata l’esperienza più viva, più bella che io abbia vissuto, l’esperienza di un assoluto negarsi in una collettività, di un’osmosi assiepata, calda, quasi feroce60.
Danilo Dolci, si era ormai allontanato dall’impostazione religiosa iniziale e non era affatto contrario a una impostazione tecnica del lavoro. La sua formazione di architetto e i contatti con gli esperti di sviluppo sociale dell’Ais lo avevano portato a considerare positivamente l’apporto che i tecnici po- tevano dare al suo esperimento in Sicilia. La questione era semmai trovare una sintesi che non comportasse l’eccessivo snaturamento della sua esperienza. Questa preoccupazione è testimoniata dalle ripetute lettere a Capitini dell’ottobre 1956, mese in cui si stava lavorando alla costruzione dell’Ais. In queste lettere Dolci pregava l’amico di essere presente alle riunioni preparatorie perché senza la sua partecipazione «le cose potrebbero non impostarsi perfettamente». In particolare, in una lettera del 21 ottobre, Dolci scriveva:
inutile specificarti come sia importante, indispensabile diremmo, che tu con tutti i tuoi consigli (e progetti e dubbi e critiche), partecipi a questa riunione attesa da mesi. È il momento decisivo: la forma, la buona organizzazione e l’efficienza del piano, ormai dipenderanno soprattutto dall’intesa, tanto profonda quanto franca e cordiale, tra tutti noi.
Dolci sembrava auspicare che Capitini, con la sua esperienza e saggezza, svolgesse un ruolo da garante nella sintesi tra le diverse anime dell’Ais e che salvaguardasse in particolare quell’impostazione di “apertura” che stava tanto a cuore a entrambi.
Nella crisi del primo comitato esecutivo furono determinanti i dissidi circa il comportamento da tenere nei confronti delle autorità pubbliche. Rossi-Doria, Zucconi e Balbo consideravano il metodo di pressione nonviolento come un ostacolo al lavoro sul territorio. Manifestazioni eclatanti, come i digiuni organizzati da Dolci nel 1956-57, creavano tensioni con le autorità locali e nazionali, contravvenendo ad uno dei presupposti per una serena azione sul territorio. I tre ritenevano che una funzione di ausilio tecnico-amministrativo allo sviluppo socio-economico che il paese stava vivendo fosse il miglior modo per sostenere un’azione altamente positiva nel processo di trasforma- zione del meridione. Dall’altro lato Dolci in un saggio dal titolo Ciò che ho imparato (1967) avrebbe dichiarato che non era sufficiente prendere coscienza di un problema per risolverlo. Quando il problema è risolvibile in piccola scala, al gruppo non resta che mettersi di buona lena e risolverlo. Ma nel caso di soluzioni che vanno oltre le competenze del piccolo gruppo, per esempio la costruzione di una diga o l’ottenimento del pieno impiego, era necessario fare attraverso gli strumenti della nonviolenza, della non-collaborazione, e «operando pubblicamente in tutte le diverse forme che possono venir suggerite dalle circostanze, dalla propria coscienza e dalla necessità». Per Dolci, dunque, la valorizzazione avviene non soltanto attraverso la formazione tecnica ma anche attraverso la mobilitazione sociale, che mira sia alla conquista di opere fondamentali per il territorio, sia alla formazione di una società giusta ed eguale. Volendo sintetizzare, sembrerebbero riproposte le differenze evidenziate dalla letteratura sociologica tra un approccio di sviluppo di comunità, seguito da Zucconi, Rossi-Doria e Balbo, e uno di organizzazione di comunità, seguito da Dolci. Con la conseguenza che nel primo caso all’operatore di comunità viene riservato il ruolo di mediatore, nel secondo caso quello di agitatore/attivista. Per Dolci i due approcci, in realtà, erano complementari e andavano entrambi nella direzione da lui auspicata, ovvero quella di una trasformazione delle condizioni materiali, morali e relazionali del territorio in questione. Questo tentativo di sintesi, invece, era considerato problematico e fonte d’instabilità da molti membri dell’associazione.
Per spiegare la definitiva crisi dell’Ais dobbiamo aggiungere alla riflessione un ultimo elemento, ovvero il ruolo e il peso che la leadership di Dolci esercitava sul lavoro sociale così come era stato impostato. A differenza di altri lavori di comunità coevi e successivi, il lavoro in Sicilia, nonostante il contributo di volontari, intellettuali ed esperti, nasceva dall’azione individuale di Dolci. Il tentativo peculiare di trovare una sintesi tra lavoro di comunità e metodo nonviolento rendeva l’esperimento di grande fascino e interesse per diversi ambienti nazionali e internazionali ma, al tempo stesso, finiva per legare ancora più strettamente l’esperimento siciliano alla sua leadership carismatica. […]
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