È diventato un luogo comune affermare che l’attuale fase storica si configura come una fase di transizione egemonica. Tuttavia, benché sia innegabile che l’attuale fase storica sia caratterizzata dalla crisi dell’egemonia americana, non vi è una lotta tra potenze per stabilire quale sia la nuova potenza egemone, come accadde nel secolo scorso. L’attuale fase storica, infatti, è caratterizzata piuttosto dalla crescita di molteplici centri di potenza, a livello mondiale e regionale, e di conseguenza dalla formazione di un’area geoeconomica non più egemonizzata dagli Stati Uniti (e che può favorire pure l’impiego di monete diverse dal dollaro).
Nondimeno, se da un lato questi nuovi centri di potenza (Cina, India, Russia, Turchia, Pakistan, Iran, ma anche Paesi come l’Arabia Saudita, il Vietnam, l’Algeria, il Brasile ecc.) hanno acquisito un’autonomia strategica tale da non permettere più agli Stati Uniti di essere gli indiscussi “arbitri” della politica internazionale e di conseguenza dell’economia mondiale, dall’altro non costituiscono alcun blocco anti-egemonico, dato che alcuni di essi sono perfino in lotta tra di loro.
Va da sé allora che la crisi dell’egemonia americana non si può comprendere “invertendo” il rapporto tra il Politico e l’Economico, come se non fosse stata l’eccezionale crescita della potenza militare dell’America nella Seconda guerra mondiale a creare le condizioni (in particolare già con gli accordi di Bretton Woods, nell’estate del 1944) per stabilire l’egemonia del dollaro. In sostanza, senza egemonia politico-militare non ci può essere un’autentica egemonia economica, anche se la potenza economica è indubbiamente condizione necessaria per acquisire una egemonia politico-militare, come dimostra la stessa crescita della potenza militare americana nel secolo scorso.
Ciò nonostante, ci si potrebbe chiedere se la Cina non abbia le “carte in regola” per prendere il posto dell’America in questo secolo, considerando la sua eccezionale crescita economica negli ultimi decenni.
Che la Cina sia un gigante economico e pure geopolitico, tale da rappresentare l’avversario più pericoloso per gli Stati Uniti, è indubbio. Ma notevoli sono pure i limiti geopolitici della Cina che – a differenza dell’America che non subisce alcuna pressione geopolitica ai propri confini e non ha alcun problema a “proiettare” la propria potenza nell’Oceano Pacifico e nell’Oceano Atlantico, al punto che sotto il profilo geopolitico l’America si può considerare come una “grande isola” – subisce una fortissima pressione geopolitica sia da terra che dal mare.
Difatti, la Cina confina non solo con la Russia e il Pakistan ma con l’India e il Vietnam (due Paesi con cui la Cina non è certo in ottimi rapporti) e al tempo stesso subisce la pressione (dal mare) del Giappone, di Taiwan e dell’Australia, ossia tre Paesi (cui si deve aggiungere pure la Corea del Sud) che fanno parte del “sistema geopolitico” egemonizzato dagli Stati Uniti, che del resto comprende anche la quasi totalità dei Paesi europei.
Pertanto, a prescindere dai problemi politici, sociali e anche, sotto certi aspetti, economici che Pechino deve ancora risolvere, evidenti sono i limiti geopolitici (e geografici) che – rebus sic stantibus – impediscono alla Cina una proiezione di potenza simile a quella degli Stati Uniti. D’altronde, il declino dell’America è soltanto un declino relativo. Non solo gli Usa, grazie al loro ruolo di “gendarme” del sistema liberal-capitalista internazionale, possono limitare i danni derivanti da una minore potenza economica (deficit della bilancia commerciale ecc.) e quindi anche “sfruttare” le risorse (economiche e militari) dei propri alleati (ossia, considerando i rapporti di forza, dei propri “vassalli”), ma sono ancora una potenza industriale di primaria importanza in settori strategici – si pensi, ad esempio, all’industria aereospaziale, a quella dell’elettronica e a quella delle comunicazioni (satelliti inclusi) -, che contano anche e soprattutto sotto il profilo militare.
Casomai – benché non vi sia attualmente (un avverbio necessario) un’alternativa valida al liberal-capitalismo, sempre che non si ritenga tale un regime autocratico o comunque autoritario, “nazionalista” o “imperialista” che sia, ben diverso quindi da un sistema politico-sociale democratico e non “illiberale” ma “con mercato” anziché “di mercato”-, sono dei “fattori endogeni”, per così dire, che sembrano costituire non solo per l’America ma per il mondo occidentale il problema più difficile da risolvere, dato che è proprio il sistema liberal-capitalista che genera sempre più squilibri e problemi (anche di carattere geopolitico, ovviamente) che non riesce a risolvere.
In definitiva, gli ordinamenti politici e sociali dei diversi attori geopolitici incidono pure sul modo in cui questi ultimi agiscono sulla scacchiera mondiale (come ha dimostrato anche la guerra che si combatte in Ucraina), ragion per cui un’analisi geopolitica deve necessariamente tener conto anche del contesto storico e politico-culturale che caratterizza il declino (relativo) dell’attuale potenza egemone nonché la stessa formazione di un “mondo multipolare”.
FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-geopolitica_ed_egemonia/39602_48441/
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