Luigi Luccarini è avvocato cassazionista titolare di studio legale in Perugia
Le sentenze della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’obbligo vaccinale per il Covid 19 sono intervenute il primo dicembre dello scorso anno, quando già era stato emanato il D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, che aveva anticipato al 1. novembre la fine di quell’obbligo, per consentire il reintegro di 4.000 sanitari sospesi ed ovviare così ad una carenza di professionalità nel settore, definita dal Governo “preoccupante”.
Un norma indotta da necessità contingenti, insomma, se non da semplice convenienza, che testimonia come l’idea di quell’obbligo fosse dall’origine una scelta “politica” che ben poco aveva a che fare con i principi di diritto, naturale e positivo, che dovrebbero informare il nostro ordinamento.
Era quindi tristemente logico attendersi dalla Consulta, investita del problema di stabilire se l’obbligo ormai venuto meno fosse stato o meno legittimo, una tipica decisione fondata sul “cosa fatta capo ha”, con rigetto di tutte le eccezioni di legittimità costituzionale. Che, vale la pena rammentare, arrivano al vaglio della Corte in quanto le vengono rimesse da Giudici, ordinari o amministrativi, che le hanno considerate, evidentemente, non manifestamente infondate.
Comunque, come si diceva, capitolo chiuso.
La pandemia in qualche modo è stata sconfitta; le vittime, sia del Covid che degli effetti avversi dei vaccini, possono mettersi l‘anima in pace: il senso di ineluttabilità che fa parte della nostra tradizione di pensiero, un po’ cattolica, un po’ borbonica, unito a quello di predominio necessario dello Stato sull’individuo che fa parte della cultura di derivazione asburgica, hanno prevalso anche in questa vicenda, come in altre del nostro passato.
Le 3 sentenze della Corte Costituzionale possono alla fine passare in archivio, come quelle che, ad esempio, nella quasi indifferenza generale, hanno già smantellato pilastri del nostro ordinamento.
Basti pensare all’annoso problema della compatibilità delle norme europee con quelle di diritto interno da tempo risolto in seno alla Consulta con l’affermazione del principio per cui in forza delle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. il diritto comunitario prevale anche rispetto a nostre norme costituzionali (sentenza n. 126/1996) anche se uno dei limiti di questa prevalenza dovrebbe essere l’eventuale contrasto con i diritti inalienabili della persona.
Che, però, si intendono quasi per definizione ben protetti dalle norme europee, per cui alla fine è sufficiente che da Bruxelles o Strasburgo arrivino indicazioni di un certo genere per ritenere legittimo qualsiasi sacrificio venga da esse imposto ai cittadini.
Come è avvenuto per ogni questione relativa ai vaccini Covid che, per il vero, ben pochi in seno alla giurisdizione italiana o europea si sono finora presi la briga di sindacare. Avendo assunto invece, la maggioranza degli operatori del diritto, dal primo insorgere dell’emergenza Covid, un atteggiamento di totale deferenza al cosiddetto dato scientifico, fino al punto di farlo diventare una sorta di fonte autonoma del diritto, neppure limitata alle direttive emanate da organismi internazionali come l’OMS, ma addirittura alle decisioni dell’EMA, che in fondo sono soltanto pareri; oppure alle indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, organo tecnico scientifico del Ministero della Salute. Per non parlare del valore quasi certativo che si è voluto attribuire a pubblicazioni su riviste scientifiche, se non addirittura al “parlato” di medici nei talk show televisivi.
Nulla di trascendentale in linea teorica, giacché la giurisprudenza in determinate materie spesso si forma sulla scorta di quanto riferiscono esperti e consulenti nominati per la singola controversia.
Non più condivisibile però se si considera che quegli expertise sono ormai assurti al rango di presupposti di leggi che, operandovi un rinvio totalmente recettizio, vengono giudicate legittime solo se vi si adeguino pedissequamente.
Che è esattamente quanto ha stabilito la Corte Costituzionale.
Rinunciando ad assumere una qualsiasi posizione critica (non in senso oppositivo, ma nel senso proprio di attività diretta ad approfondire e motivare la valutazione di un fatto o di una situazione) ed arrivando al paradosso, non scritto, ma implicito, di stabilire che la conformità a Costituzione si misuri in base al fatto che una norma rispecchi, o meno, il pensiero del Burloni di turno.
Conclusione inevitabile leggendo quel passaggio della sentenza 15/2023 in cui viene stabilito che il sindacato di una legge, nella materia sanitaria, può riguardare al più, la “coerenza della disciplina con il dato scientifico posto a disposizione”. Senza considerare che la bontà di quel “dato scientifico” è tutta da dimostrare nel caso in cui, come per il vaccino Covid, non vi sia concorde valutazione in quella che viene definita, pomposamente, “comunità scientifica”.
Cosicché è anche possibile che il Giudice costituzionale finisca per essere condizionato da quello che legge (sui quotidiani) e che ascolta (in TV). Che però non rappresenta la verità scientifica e magari neppure riflette l’opinione della maggior parte della relativa comunità, ma soltanto ciò che gruppi editoriali, a loro volta concentrati in poche mani capaci di indirizzare la vita delle persone, vogliono far credere come tale.
Tenuto conto, poi che poiché quel “dato scientifico” viene tratto acriticamente da indicazioni, pareri, autorizzazioni e quant’altro di competenza di organismi come EMA o ISS, organi di consulenza di autorità amministrative, si arriva al paradosso di dover considerare una norma legittima soltanto perché il suo contenuto promana da un apparato di Governo. Un fenomeno di autoreferenzialità legislativa che ha pochi eguali in una democrazia costituzionale e riporta la mente ad aberrazioni del passato.
Si dirà che la Consulta ha comunque condizionato questo genere di produzione normativa al rispetto dei criteri di “non irragionevolezza e proporzionalità”.
Ma se poi ritiene il primo implicito nell’adeguarsi del legislatore al “dato scientifico” e per il secondo ci si accontenta del fatto che comunque la norma replichi altre emanate in ambito europeo, o addirittura negli USA, quale residuo spazio di valutazione rimane al Giudice costituzionale italiano?
Nessuno, e non è un caso che nella sentenza 15/2023 quel minimo di autonomia decisionale che ci si poteva attendere da un organismo così importante si sia ridotto alla constatazione che il legislatore aveva “introdotto, sin dall’inizio, una durata predeterminata dell’obbligo vaccinale, modificandola, costantemente, in base all’andamento della situazione sanitaria, giungendo ad anticiparla appena la situazione epidemiologica lo ha consentito”. Per non parlare di altre considerazioni, come quella per cui il sanitario italiano sospeso dal posto di lavoro doveva ritenersi persino fortunato perché in Germania sarebbe stato addirittura licenziato (!) e che perciò la sospensione diventa “una conseguenza calibrata, in termini di sacrificio dei diritti dell’operatore sanitario, strettamente funzionale rispetto alla finalità perseguita di riduzione della circolazione del virus”.
Il fatto poi che la “circolazione del virus” sia comunque proseguita, nonostante la vaccinazione di massa e che un numero enorme di persone abbia contratto la malattia, pur essendosi vaccinato contro di essa, non sembra neppure entrare nei considerata della Corte. Che si limita a rilevare che
Acquisendo quella nota dell’ISS, che a sua volta rimanda ad “evidenze scientifiche internazionali” non altrimenti definite, come sufficiente presupposto di ragionevolezza di una scelta così invasiva. Nonostante si tratti, a tutto voler ammettere, di valutazioni a posteriori rispetto al momento generatore dell’obbligo; e nonostante in esse si arrivi al punto di affermare, per giustificare la ben limitata efficacia di quel vaccino ad impedire la circolazione della malattia, che “del resto nessun vaccino ha tale efficacia”.
Ciò in contrasto con il principio per cui la compressione del diritto del singolo alle scelte relative alla sua salute possa realizzarsi soltanto in quanto sia provata indubitabilmente l’efficacia del TSO impostogli. Situazione che non sembra interessare la Corte, pur consapevole che la discrezionalità del legislatore in materia si esercita alla luce “delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica”, vale a dire sulla base di quel “dato scientifico” di cui si parlava sopra e che per quanto condiviso in un certo momento da parte (sia pure la maggior parte) della comunità scientifica, non è mai definitivo e potrebbe essere in un secondo momento addirittura sconfessato.
Qualcuno a questo punto si chiederà che fine ha fatto l’art. 32 ed il “fondamentale diritto dell’individuo” alla salute, intesa come suo bene primario e assoluto.
Di cui per decenni si è fatta valere anche l’indisponibilità, fino al punto di autorizzare, l’individuo, a rifiutare un trattamento terapeutico necessario per la sua stessa sopravvivenza, siccome stabilisce la Convenzione di Oviedo, ratificata dallo Stato italiano con legge 28.03.01, n. 145, al suo art. 5, subordinandolo al consenso libero e informato della persona che deve ricevere preliminarmente informazioni adeguate sulle finalità e sulla natura del trattamento nonché sulle sue conseguenze e i suoi rischi e può in qualsiasi momento, revocare liberamente il proprio consenso.
E chiaro che nessuno nega che l’interesse della collettività, pure ricompreso all’interno dell’art. 32 della Costituzione, abbia il suo peso. Così come l‘espressa previsione ed autorizzazione di TSO stabiliti per legge a cui viene ricondotta la vaccinazione obbligatoria.
Sta di fatto, però, che la Corte Costituzionale in passato ha sempre ritenuto che qualsiasi TSO, seppur giustificato da un pericolo per la salute pubblica, dovesse essere finalizzato anche alla tutela della salute del soggetto obbligato e che in ogni caso il suo limite di ammissibilità fosse quello di non porla a repentaglio. Poiché quello che poteva essere compresso con un TSO legittimo era solo il consenso individuale, esclusa la possibilità di procurare un danno alla salute dell’obbligato.
Per il resto, vigendo il principio per cui il trattamento sanitario è lecito solo nella misura in cui “non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili” (sentenza n. 258/1994). Poiché la salute in base al primo comma dell’articolo 32 della Costituzione è un diritto fondamentale dell’individuo e ciò legittima la sua pretesa a che lo Stato si astenga da comportamenti per essa pregiudizievoli. Fatto salvo quello, purché limitato, che può derivare dal contemperamento del suo diritto con l’interesse della collettività. Che però riguarda l’obbligo di prestare il consenso, non di offrire il suo corpo alla scienza.
Principio che viene ricordato nella sentenza 15/2023 laddove però si riscontra che la Consulta, in luogo di confermarlo, ne modifica lo spettro, arrivando a conseguenze estreme.
È agevole notare come quel trattamento che non incide sullo stato di salute dell’individuo “salvo che per quelle sole conseguenze che per la loro temporaneità e scarsa entità appaiono normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili”, diventi ora compatibile con un “rischio di insorgenza di un evento avverso anche grave”, “non sempre evitabile”, che nel nuovo pensiero della Consulta, rende legittime scelte legislative “ancorché in concreto non siano prevedibili i soggetti che saranno colpiti dall’evento dannoso … al limite di quelle che sono state denominate scelte tragiche del diritto”
Il fatto che la Corte, richiamando un inciso della sentenza 118/1996 cerchi di giustificare questo suo (indubbiamente nuovo) ragionamento sulla scorta di precedenti non deve però illudere che ciò sia realmente avvenuto.
La sentenza 116/1996, che riguardava la possibilità di estendere l’indennizzo statale previsto dalla legge del 1992 anche ai danneggiati da vaccinazioni ed altre pratiche sanitarie invasive per fatti pregressi, nell’occuparsi della “chiarificazione del significato del diritto costituzionale alla salute con riferimento al caso in cui la sua dimensione individuale confligga con quella collettiva” aveva infatti formulato ben altri principi.
Il primo, secondo cui tali trattamenti sono leciti solo se si prevedano ad opera del legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte a evitare il rischio di complicanze”.
Il secondo, conseguente, di portata generale ed espresso in termini quasi roboanti, per cui “nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”.
Orbene, sulle cautele si dovrebbe aprire un discorso a parte che appesantirebbe troppo la lettura.
Basterà quindi considerare che la sentenza, nel ritenere sufficiente la previsione di “medici vaccinatori, che sono all’uopo adeguatamente formati e che assumono la decisione di procedere o meno con la vaccinazione dell’interessato” ha dimenticato che il legislatore ha offerto a quei medici vaccinatori un formidabile “scudo penale”, con esclusione della loro punibilità per i reati tipici dell’esercente la professione sanitaria (589, 590 c.p.) condizionata al solo “uso conforme” del medicinale “alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità”.
Diventando sufficiente che il prodotto sia autorizzato al commercio, come accade per qualsiasi medicinale che assumiamo, perché quel medico possa iniettarlo e restare comunque indenne da qualsiasi evento avverso si verifichi nel paziente.
Ciò che può accadere certamente anche con qualsiasi altro medicinale, ma con la non trascurabile differenza che in genere un soggetto sano non ha necessità di assumerlo, e che comunque il sanitario che lo prescriva senza valutare con la dovuta diligenza le caratteristiche di quel farmaco ed i possibili effetti collaterali sul paziente non è certo esentato da responsabilità penale.
Ora, nel caso della campagna vaccinale per il vaccino Covid era plausibile che il legislatore dovesse anche garantire chi si assumeva il compito della inoculazione del farmaco dal rischio di dover poi rispondere a livello penale delle eventuali conseguenze, lesive o addirittura mortali. Ma è evidente che, di tal guisa, quelle “cautele” necessarie per giustificare la ragionevolezza dell’obbligo per tutti di sottoporsi alla profilassi, se non vengono proprio meno, rimangono così una pura astrazione. La verità essendo che, per ragion di Stato, poi divenuta ragion sanitaria, si è stabilito che il contemperamento tra il diritto individuale alla salute e l’interesse della collettività, dovesse semplicemente sacrificarsi il primo, con tradimento di quel postulato, in precedenza stabilito a chiare lettere dalla Corte, secondo cui “nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”.
Resta da considerare un ultimo aspetto, forse il più tragico in questa vicenda in cui il diritto naturale alla salute del singolo individuo viene affievolito, al punto, quasi, da doverlo ritenere, in prospettiva, alienabile.
Ed è quel passo in cui la Corte si compiace di ritenere che tutto sommato la normativa interna consente al soggetto colpito da effetti avversi dalla cura imposta di rivalersi ed ottenere un ristoro economico dallo Stato, come avviene in ogni ipotesi di responsabilità extracontrattuale.
Nel momento in cui si assume che “il rischio di insorgenza di un evento avverso, anche grave, non rende di per sé costituzionalmente illegittima la previsione di un obbligo vaccinale, costituendo una tale evenienza titolo per l’indennizzabilità”.
Ora, se è vero che il diritto all’indennizzo, sancito dalla Legge del 1992, rimane un diritto relativo e non assoluto, poiché configura solo un’obbligazione risarcitoria a carico dello Stato, l’idea di fondo secondo cui il diritto dell’individuo alla propria salute è in qualche modo “spendibile”, oltre a renderlo meno naturale di quanto si sia pensato finora – dovendosi al contrario ritenerlo una delle più tipiche espressioni dell’habeas corpus – apre la strada a conseguenze imprevedibili ma comunque non così inverosimili.
In base alla logica per cui ogni cosa che ha valore per l’individuo, compresa la sua salute, è in qualche modo monetizzabile, e perciò gli può essere espropriata purché poi gli si corrisponda il relativo giusto prezzo; unita a quella per cui comunque in nome di un interesse superiore della collettività l’esproprio si può realizzare senza che con ciò si violi alcuna norma costituzionale, porta a ritenere che la nostra Costituzione in realtà non è a presidio e protezione dei nostri diritti e libertà fondamentali, ma rappresenti piuttosto un insieme di norme organizzative che stabiliscono il modo in cui l’Autorità può incidervi, se del caso congelandoli, o addirittura annullandoli.
Non esattamente quello che il solito Benigni ha voluto farci di nuovo credere a Sanremo.
O, forse per questo, Benigni e Sanremo hanno cercato di farci credere il contrario a Sanremo.
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