Cristina Calderón Herban e la lingua scomparsa
di DOPPIOZERO (Cristiano Denanni)
Qual è il suono di un’umanità che scompare? Che voce ha quel momento? E che cosa succede a noi, quando un evento del genere accade? Perché questo evento ci riguarda. Anche se non ne sappiamo nulla. E anche se non sappiamo che ci riguarda.
Viviamo nella scontatezza delle cose che ci sono. Viviamo sapendo ma non percependo che tutto è temporaneo, noi per primi e poi l’intorno, che costruiamo, che tocchiamo, da cui ci facciamo abbagliare e consumare.
Se ogni nostro gesto, anche il più casuale, è quasi totalmente inserito in una reciprocità di responsabilità – e di cause ed effetti – così ramificati che la nostra mente non è in grado di comprendere, né tantomeno sviscerare, allora sì, quell’umanità che scompare si porta via qualcosa che è anche nostro.
Mi sono fatto queste domande, la prima volta, in un febbraio australe di pochi anni fa, quando ebbi modo d’incontrare, nella Tierra del Fuego, sulla Isla Navarino in Cile, Cristina Calderón Herban. Allora Cristina era l’ultima donna in vita di una etnìa, gli Yagan, che avevano vissuto per circa seimila anni in quelle terre del sud della Patagonia, e che con lei avrebbero concluso la loro storia, il loro viaggio, la loro possibilità su questa terra.
Cristina era, anche, l’ultima persona al mondo a parlare una lingua, quella degli Yamana, altro termine con cui si indicava il suo popolo (onaašáka nel loro idioma, ma nominato anche Yágankuta dalla loro comunità). Una lingua, secondo alcune fonti, costituita da oltre trentamila vocaboli, dunque molto ricca, capace di particolareggiare, di esprimere idee e concetti costituiti di più strati, una lingua che si scostava dallo “standard” (brutta parola questa, ma di un’altra lingua) canonico.
Cristina compilò, con l’aiuto di Cristina Zárraga, un dizionario che contenesse (e ricordasse) quanti più vocaboli possibile della lingua della sua storia, e del suo popolo (ricordiamo però che un primo dizionario di lingua Yamana era già stato scritto a metà del 1800 da Thomas Bridges, primo missionario e linguista britannico a compiere un viaggio presso le terre estreme della Patagonia). Cristina poi incise anche un CD con la sua voce che pronunciava, e parlava, quella lingua.
Scrisse più di un libro di memorie, uno di questi compilato a quattro mani con la sorella Ursula, morta pochi anni prima – ha la copertina rossa e riporta nel titolo queste parole: “Hai kur mamashu chis”, che in spagnolo significano “Quiero contarte un cuento”, voglio narrarti una storia, ed è il racconto della loro famiglia.
Partecipò a ricerche antropologiche sulla storia del suo popolo e divenne lei stessa una studiosa della lingua Yamana che, in fin dei conti, fino all’età di dieci anni circa era l’unico idioma che conoscesse. Ebbe modo di raccontarne ai bambini nelle scuole e di parlarne, inoltre, in una sequenza di uno dei bellissimi film documentari del regista cileno Patricio Guzmán. È stata letteralmente una portavoce della sua lingua madre, e, nella lingua, del suo mondo, prima che questi svanissero.
Cristina viveva lì, in una casetta bianca sulle rive del Canal Beagle, incarnando, con la complicità di quegli stessi luoghi, un molteplice particolarissimo primato, l’essere l’ultimo individuo di un intero popolo, l’ultimo che sa parlare una lingua che morirà assieme a lei, all’interno di un villaggio – Villa Ukika – che è l’ultimo centro abitato australe (un chilometro a est di Puerto Williams) prima del tratto di mare alla confluenza tra Atlantico e Pacifico (a detta degli esperti il più bizzoso del pianeta), che a sua volta anticipa l’Antartide. Un insieme, esotico ma reale, e prezioso, di ultime cose di un mondo che vive perdendo la pelle, lasciando tracce, e soltanto a volte curando, ma in quei casi con caparbietà, possibili memorie di sé.
Cristina se n’è andata il 16 febbraio del 2022, all’età di 93 anni.
Quale vincolo vi è tra madrelingua e madre terra?
La lingua, la nostra, è la nostra terra. E questa terra ci ricorda che il più di ciò che siamo è costituito da ciò che non sappiamo.
Eppure anche lingue a noi straniere possono migrare conoscenza alla nostra terra/lingua. Magari aiutandoci a riposizionarla. A collocarla.
Se centinaia di idiomi differenti dicono “bicchiere”, può modificarsi anche il concetto che abbiamo di quell’oggetto? E quante parole d’altrui idiomi, alle nostre orecchie significano più chiaramente quella cosa là?
Siamo una possibilità del mondo – ed un modo di stare in esso – perché abbiamo avuto la possibilità – una fra le tante – del nostro linguaggio. Se avessimo posseduto, o conosciuto, parole diverse, avremmo vissuto vite diverse, in una realtà differente. La lingua è l’orizzonte del nostro tempo. Abitiamo la nostra lingua nella misura in cui la mattina, alla finestra, riconosciamo quel che vediamo. A un altro idioma, corrisponde un altro panorama. In un ipotetico mondo recente, ci ricorda Gabriel García Màrquez, le cose ancora senza nome bisogna indicarle col dito. Ma un mondo indicato col dito, è necessariamente un altro. E un oggetto indicato soltanto col dito, in qualche modo deve nascere ancora.
Quanta intenzione abbiamo messo nel generare il linguaggio? Ma anche, all’inverso: quanto la geografia ci ha condizionati nel coniare un linguaggio? Parole con suoni aperti, o gutturali, e poi tronche, accenti, gesti, sintassi, sono risultanti del territorio, come lo siamo noi stessi. E in quale misura ne siamo (stati) artefici intenzionali?
Mi rendo conto, sto compilando un testo con una cospicua quantità di domande, e rileggendo appare chiaro che non corrispondono ad altrettante risposte. Ma una lingua non è soprattutto il nostro sistema migliore – o semplicemente più immediato – di porci domande sulla forma e i modi di girarci intorno del mondo e, nel mondo, delle complicazioni – e le implicazioni – del tempo? Esisterebbe il tempo se non vi fosse la lingua a significarlo? Esisterebbe la relazione che ciascuno di noi intesse con esso? Esisterebbero le società per azioni, le franchigie sulle coperture assicurative, le cause legali, i matrimoni, le linee del fronte, le nazioni, i confini, le democrazie, fino ad arrivare alla labile, e inconcludente, diatriba tra le idee di bene e di male, senza la parola, e il relativo linguaggio? È evidente, persino banale: no. Quanto di noi non sarebbe, ovvero quanto non saremmo, quanto di noi non avrebbe vita, senza lingua? E a seguire: come vivremmo con altre parole?
Lo so, lo vedo, ancora domande. Forse perché esse sono la porta d’ingresso della lingua al discorso su se stessa.
Che suono emette, dunque, una umanità che scompare, portandosi appresso, come un segreto, un linguaggio di trentamila parole? È scritto in almeno due dizionari, ora, l’idioma degli Yaghan, è vero. Ma nessuno lo parla. Non più. E che lingua è una lingua non parlata? Esiste? Probabilmente nella misura in cui esiste una sinfonia scritta su di uno spartito chiuso in un cassetto. Eppure il mondo l’ha modificato, detto, plasmato, per seimila anni.
Ricordo che alcuni anni fa persino il Guinness dei primati si occupò della lingua Yamana – un certo termine era stato dichiarato il più sintetico ma anche di più difficile traduzione al mondo. Si tratta di Mamihlapinatapai. Si tradurrebbe così: “guardarsi reciprocamente negli occhi sperando che l’altra persona faccia qualcosa che entrambi desiderano ardentemente, ma che nessuno dei due vuole fare per primo”. Quanto ci potremmo riconoscere, noi stessi? Io, con schietta onestà, posso dire d’aver “praticato” – o assecondato – il Mamihlapinatapai decine di volte in vita mia. Ma la questione, ora, è un’altra. Al di là della sua tortuosa pronunciabilità, è infatti evidente che un termine riferito a una costruzione concettuale tanto articolata non faccia parte del nostro ventaglio semantico. Non è la nostra terra, quell’idioma. Ecco tornare la corrispondenza tra madrelingua e madre terra.
Il suono, o il grido che emette un popolo che muore porta in sé molteplici significati per l’intera nostra storia, per la storia del nostro genere, per la vita nello spazio e nel tempo a noi dedicati, o di cui ci siamo appropriati, su questa terra. Ma il suono di una lingua che muore, forse più significativamente ancora, viene a dirci che è andata persa una parte di quella stessa terra, che ci apparteneva. Anche se non ci fossimo spinti mai fino là. Come una parte della nostra casa, chiusa, murata, per sempre. Un possibile modo di dire, e di abitare il mondo. Un modo possibile di dirci, di abitarci, e di capirci, e di raccontarci.
La nostra lingua è una testimonianza. Ed è condanna e assoluzione. È favola, arcano, svisceramento. In essa ci evolviamo, o involviamo. Cambiamo. Diveniamo. Attraverso di essa, a partire dalla rivoluzione cognitiva di settantamila anni fa abbiamo cominciato a plasmare il mondo, ovvero a narrarcelo in funzione delle nostre parole, del tipo di linguaggio che, nella geografia e via via nel tempo, abbiamo coniato. Prima ancora della rivoluzione agricola, scientifica e industriale, il nostro segno sul mondo lo abbiamo posto con la parola. Dopo il fuoco e prima degli strumenti e delle macchine, dell’amore, dell’odio, dei primi viaggi e del resto della storia, e delle storie.
Aveva lineamenti incisi, percorsi in tratti verticali dal tempo e dal freddo, Cristina Calderòn, ma uno sguardo mite e stupito ancora. Primigenio. Quasi un testamento. Forse lei non si è portata appresso questi interrogativi, perché li ha incarnati, ed è bastato esserne vita.
M’immagino che il suono di un’umanità che scompare assomigli a quello di uno strumento che viene meno nell’insieme di una grande orchestra. Come un grido sordo. Un’assenza che si fa presente. È solo un’ipotesi, una possibile fra migliaia. Perché anche il racconto di un popolo e di una lingua si fa con le parole.
FONTE:https://www.doppiozero.com/cristina-calderon-herban-e-la-lingua-scomparsa
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