Due errori
Può apparire tragicamente incredibile, ma in fondo all’origine del prolungamento del conflitto ucraino ci sono due clamorosi errori; uno, politico, di Mosca, ed uno, militare, di Washington.
È ormai abbastanza chiaro che, nel momento in cui la Russia dava il via all’Operazione Speciale Militare, l’obiettivo era quello di forzare la mano (non solo a Kiev, ma anche e soprattutto agli europei ed a Washington), portandoli rapidamente ad un tavolo di trattativa, con l’intento di ottenere ciò che non era stato possibile avere sino a quel momento: autonomia per il Donbass, riconoscimento della Crimea come parte della Federazione Russa, e garanzia di sicurezza (no all’Ucraina nella NATO).
Quello che Mosca non aveva colto è che negli USA era prevalsa la corrente più oltranzista, che puntava allo scontro militare, e che i paesi europei non avevano alcuna capacità di ritagliarsi una qualche autonomia, e quindi la prospettiva era semplicemente irrealistica. Errore politico.
D’altro canto, le mosse militari della fase inziale della OSP, per certi versi incomprensibili e confuse, hanno generato negli states la convinzione che le forze armate russe fossero decisamente non all’altezza, e quindi piuttosto che con la strategia di guerriglia (con cui la NATO pensava di impegnare i russi, e che effettivamente caratterizzò la primissima tattica ucraina), si poteva batterle in una guerra aperta. Errore militare.
Si tratta in entrambe i casi di errori clamorosi – e non solo per le conseguenze. Il fatto che la leadership del Cremlino, certo non composta da sprovveduti, anzi (uno su tutti, un personaggio di indubbia levatura come Lavrov), abbia potuto non cogliere ciò che si stava muovendo in campo occidentale, in quale direzione e con quanta determinazione, è stupefacente. E sì che si trattava a quel punto di una storia abbastanza lunga, dal golpe di piazza Maidan all’addestramento NATO dell’esercito ucraino, dai finti accordi di Minsk alle tre grandi esercitazioni NATO in Ucraina nel solo 2021, dall’aggressione alle repubbliche del Donbass all’ostinato rifiuto di accettare qualsiasi discussione sulla sicurezza in Europa.
Ugualmente, lascia stupiti che al Pentagono si siano fatti ingannare così clamorosamente sulle capacità militari della Russia, e del resto anche della stessa Ucraina. E, conseguentemente, persino sulle proprie e su quelle della NATO nel suo complesso.
La conclusione – sconcertante – è che entrambe le potenze sono arrivate ad un passo dallo scontro diretto (peraltro ancora niente affatto escluso) senza conoscersi e comprendersi davvero.
Da questo clamoroso e reciproco misunderstanding, ha preso avvio la pericolosa spirale che ancora avviluppa l’Europa. Il cui unico aspetto positivo è che, per come si sono messe le cose, la prospettiva della sirianizzazione del conflitto è definitivamente cancellata. Le possibilità di cronicizzare la guerra, congelandola in una lunga stagione di guerriglia ucraina, con i nazisti locali nel ruolo dell’Isis, è tramontata quando Washington (e Londra…) hanno convinto Zelensky che con l’appoggio NATO avrebbe potuto vincere, spingendo gli ucraini a cacciarsi in un tunnel senza uscita. O meglio, in fondo al quale c’è un gigantesco tritacarne.
Ma se per Kyev la partita ha ormai una portata drammatica, essendo in gioco non più soltanto l’integrità territoriale del paese, ma la sua stessa sopravvivenza (1), anche per i suoi sponsor la faccenda si sta facendo seria. Per dirla con le parole di Alastair Crooke (ex diplomatico britannico, fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut), “il palloncino ucraino è scoppiato. Lo sanno gli ambienti militari e civili di Washington. L’elefante nella stanza dell’inevitabile successo russo è riconosciuto (…). Sanno anche che il pallone della NATO (come forza formidabile) è scoppiato. Sanno che è scoppiato anche il pallone della capacità industriale occidentale di fabbricare armi – in quantità sufficiente e per una lunga durata” (2).
Due opzioni
Mentre Mosca, mostrando grande duttilità e prontezza, è stata rapidamente capace di riorientare non solo la propria strategia militare (e industriale), ma l’intera direzione politica su cui si muove il paese, gli ambienti NATO – ubriacati dalla veemenza oltranzista dei neocon, e da quella ideologica dei Democratici – si sono a lungo cullati nell’illusione che la propria narrazione propagandistica fosse realtà, finché non hanno cominciato a sbatterci il muso.
Sostanzialmente, da quando l’Operazione Speciale è stata posta sotto un comando unificato, ed è cominciata la pesante offensiva missilistica su tutta l’Ucraina, la NATO procede per forza d’inerzia, senza una vera e propria idea strategica, né su come conseguire un’impossibile vittoria, né su come anche solo impedire la vittoria russa.
Quella che viene rivenduta dalla grancassa propagandistica come una dosata e programmata escalation delle forniture militari (sempre troppo poche e troppo tardi, per avere un qualche effetto sul terreno), non è infatti altro che l’inseguimento degli eventi.
Ma, come tutte le narrazioni lontane dalla realtà, prima o poi si sfaldano e la lasciano apparire.
Ormai su questo dato di fatto, negli USA, si è evidenziata non solo la polarizzazione tra due opposte visioni strategiche, ma su di essa sta emergendo un vero e proprio scontro politico, i cui esiti sono al momento assai incerti.
Ovviamente, l’andamento della guerra, e le difficoltà che la NATO sta affrontando per continuare a sostenerla, sono tutti elementi che giocano a sfavore degli ambienti russofobici, che su questa guerra hanno scommesso. Ma, per quanto i dati reali ne indeboliscano la posizione, ve ne sono altri che invece la rendono ancora ben salda.
Innanzi tutto, l’entourage presidenziale ed il Democratic National Committee (3), per il quali l’investimento politico sulla guerra è stato totale, hanno ovviamente ancora moltissime leve del potere nelle proprie mani. E naturalmente, oltre a poter contare sull’influenza dei think tank neocon su parte del GOP (4), hanno l’appoggio della potente lobby dell’industria militare, che sulla guerra sta lucrando riccamente.
All’opposto, buona parte dei Repubblicani, in particolare i trumpiani, sono sempre stati scettici sull’apertura di ostilità con la Russia, avendo in mente soprattutto il conflitto finale con la Cina. A questo blocco politico si affianca – per ora assai discretamente, soprattutto attraverso gli interventi di ex-militari – una parte importante del Pentagono, che ha direttamente il polso della situazione, sia per quanto riguarda l’andamento sul campo, sia per quanto riguarda l’impatto sulle capacità operative delle forze armate statunitensi (e NATO in generale). Probabilmente, potrebbero contare sull’appoggio di alcuni grandi fondi d’investimento, che attendono la fine della guerra per avventarsi sulla colossale operazione di ricostruzione dell’Ucraina – anche se il colosso Blackrock è legato alla famiglia Biden.
Si tratta al momento di una situazione fluida, in cui lo scontro politico è ormai alla luce del sole, ma ancora in una fase soft, e senza che tutti gli stakeholder abbiano preso ufficialmente posizione. Molto dipende dagli eventi, e da come saranno gestiti. Ma indubbiamente il partito anti-cinese sta guadagnando punti, tanto da potersi permettere di criticare apertamente la scelta oltranzista dell’amministrazione.
Le due fazioni si sferrano colpi su colpi, segno che la questione sta diventando urgente per entrambe. E così, in rapida successione, si registra dapprima un’intervista al generale Mark Malley, Capo degli Stati Maggiori congiunti USA, che dichiara al Financial Times “è molto difficile che l’Ucraina cacci i russi da tutto il territorio”, un eufemismo per dire che l’obiettivo della vittoria ucraina è pura utopia. Immediata è però arrivata la risposta della Nuland (5), vera e propria anima nera dell’intero dossier ucraino, che è tornata a rilanciare, dichiarando pubblicamente (al Carnegie Endowment for International Peace) che Washington sostiene gli attacchi dell’Ucraina contro le strutture militari russe sul territorio della Crimea.
Ma è stata la Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, il palcoscenico scelto dai russofobi per inscenare un notevole fuoco di fila. Dai tedeschi (Pistorius, Ministro della Difesa: “l’Ucraina deve vincere la guerra”; Baerbock, Ministro degli Esteri: “una risoluzione anti-russa sarà presentata alle Nazioni Unite”) ai britannici (Sunak, Primo Ministro: “il Regno Unito invierà missili a lungo raggio in Ucraina”), e ovviamente la NATO (Stoltenberg, Segretario Generale: “il rischio di un’escalation del conflitto in Ucraina per la NATO è incomparabile con il pericolo di una vittoria russa”).
A calare il carico da undici sono ovviamente gli USA, rappresentati ai massimi livelli; il Segretario di Stato Anthony Blinken: “non abbiamo dubbi sulla vittoria e il successo dell’Ucraina”, la vice-presidente Kamalah Harris: “Gli Stati Uniti hanno stabilito formalmente che la Russia ha commesso crimini contro l’umanità”.
Il messaggio lanciato è una sorta di mussoliniano vincere e vinceremo!, che suona però più come un training autogeno che non come un effettivo programma politico-militare. Da un certo punto di vista, la Conferenza di Monaco sembra essere stata una gigantesca manifestazione di autismo dell’occidente, che continua a rappresentare (e rappresentarsi) la Russia come un’entità quasi demoniaca (a quando il revival de l’impero del male di reaganiana memoria?), ed al tempo stesso ne oblitera l’esistenza, quasi che l’unica cosa possibile per Mosca fosse la resa incondizionata. Paradigmatica di questo autismo occidentale è una frase pronunciata sempre da Blinken, secondo il quale “tutti i legami della Russia con il mondo sono stati recisi uno per uno”. Per i cortigiani ed i vassalli dell’impero, riuniti nella colonia germanica, sono loro il mondo intero.
Una realtà
Ciò con cui entrambe le linee devono fare i conti è comunque la realtà del conflitto. Per i neocon, la questione va risolta – appunto – rilanciando continuamente; fornendo carri armati pesanti e sistemi anti-missile, fornendo jet da combattimento, e se fosse necessario trovando il modo di fornire significativi rinforzi di personale combattente, usando a tal fine gli scalpitanti polacchi. La speranza è che, grazie a questi aiuti, l’Ucraina riesca a non collassare, a mantenere non solo una parvenza di struttura statuale e politica ma anche una capacità di combattimento, quanto meno tale da rallentare al massimo l’avanzata russa. In una sorta di corsa contro il tempo, il piano sarebbe quello di imbottire l’esercito ucraino con una dose di mezzi e sistemi d’arma occidentali, affinché riesca in estate a tentare una qualche controffensiva, recuperando magari qua e là pezzi di territorio; o quanto meno, a non farsi travolgere dalla prevista offensiva russa (che però nessuno ha idea come e quando si dispiegherà). A quel punto, sfruttando la successiva stasi autunnale, puntare ad un qualche accordicchio (una sorta di Minsk III), che dia a Kyev tempo e modo per riprendere fiato.
Ovviamente, questo approccio ha due grossi limiti: non tiene sostanzialmente conto dei russi (di ciò che faranno sul terreno, e della loro disponibilità ad accordi al ribasso), e si gioca sul filo del rasoio, con la possibilità che le cose si mettano talmente male da non potersi più tirare indietro, e trovarsi coinvolti direttamente in uno scontro con la Federazione Russa.
Stesso problema, e stessa difficoltà, per i fautori del disimpegno. Poiché la questione cruciale rimane come uscire dal cul-de-sac, come porre fine al conflitto senza aver l’aria di perdere – cosa che, dopo la sconfitta afghana, e quella (sostanziale) siriana, rischierebbe di avere enormi contraccolpi sulla credibilità di USA e NATO, sia verso amici ed alleati, sia (ancor più) verso quel resto del mondo che già li guarda con fastidio e diffidenza. Questo è ovviamente l’ostacolo maggiore, ma non il solo. Va infatti tenuto conto che, oltre ai già menzionati avversari interni, un disimpegno (relativamente) rapido (6) incontrerebbe ostacoli sia a Kyev che a Londra e Varsavia. E se da un lato la sostituzione di Zelensky non sarebbe certo un problema (i candidati stanno già scaldando i muscoli, a partire da Arestovyč (7)), incrinare i rapporti con gli ultras britannici e polacchi non farebbe comunque bene alla NATO.
Lo sganciamento graduale sarebbe ovviamente la situazione ideale, tenuto anche conto che – nella prospettiva dello scontro con la Cina – gli USA devono recuperare la loro piena capacità offensiva, senza mai perdere quella dissuasiva (8).
In considerazione di tutto ciò, i prossimi sei mesi saranno decisivi. Non solo perché sono quelli in cui è possibile che si operino dei cambiamenti significativi (in un senso o nell’altro) sul campo di battaglia, ma perché questa è anche la finestra temporale entro la quale dovranno essere risolte alcune questioni fondamentali della politica statunitense, per la quale il 2024 è anno di elezioni presidenziali.
La ricandidatura – o meno – di Biden, dipenderà molto dalle scelte che verranno operate in ambito democratico; l’attuale presidente potrebbe essere ritenuto un utile capro espiatorio, e quindi affondato in favore di un altro/a condidato/a, oppure potrebbe darsi che venga ritenuto più utile fare quadrato intorno a lui. Ugualmente, si dovrà vedere se i Repubblicani candideranno nuovamente Trump, o se opteranno per una candidatura più possibilista rispetto al conflitto. O se magari Trump deciderà di andare per proprio conto.
Una sola cosa è certa, e cioè che in tutto questo gli europei continueranno a fare da spettatori, aspettando di capire dove saranno condotti prossimamente, e gli ucraini continueranno a farsi macellare in una serie di battaglie senza speranza.
1 – Anche al netto della sempre più probabile spartizione (con polacchi ed ungheresi pronti a prendersi pezzi di territorio più o meno ampi), c’è il combinato disposto di un paese praticamente distrutto dalla guerra, privato delle sue regioni più ricche e produttive, dissanguato – tra guerra e fughe all’estero – della sua forza lavoro, e con un debito semplicemente spaventoso – destinato ad aumentare giorno dopo giorno.
2 – Cfr. Alastair Crooke, “Endgame for Ukraine: America vs America”, strategic-culture.org
3 – Organo collegiale che dirige il Partito Democratico statunitense
4 – Good Old Party, il Partito Repubblicano
5 – Victoria Jane Nuland, Sottosegretario di Stato per gli affari politici
6 – Il fattore tempo è decisivo, sia perché gioca a favore di Mosca, sia perché più si va avanti più diventa difficile la situazione dei paesi NATO, sia perché diventa sempre più complicato districarsene.
7 – Oleksij Mykolajovyč Arestovyč è un politico, militare e psicologo ucraino di origini bielorusse, ex consulente esterno per le strategie di comunicazione in ambito difesa e sicurezza nazionale dell’Ufficio di presidenza dell’Ucraina.
8 – Anche se Pechino non vuole risolvere militarmente la questione della riunificazione di Taiwan, è ovvio che qualora vedesse aprirsi una finestra di opportunità, in cui portare a termine l’operazione al riparo da qualsiasi reale reazione americana, potrebbe anche prenderla in considerazione.
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