Generazione senza futuro
di La Fionda (Luca Pellegrino)
In risposta al “dubbio” di Recalcati
Il 28 febbraio su Repubblica è apparso un articolo a firma dello psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, il quale, partendo da un caso clinico, ci ricorda una grande conquista del sapere umano: dopo il ribaltamento prospettico nello studio della cosmologia – con Keplero – e della biologia – con Darwin – Freud sostiene che «L’io non è padrone nemmeno in casa propria». Tre grandi lezioni di umiltà e di libertà che la coscienza collettiva umana ha impiegato diverso tempo ad accettare e mettere a frutto.
Non solo, la psicoanalisi, come ci insegna Recalcati, mostra che non è il dubbio ma la sua assenza ad essere profondamente patologica. Ed è nell’adolescenza che si può manifestare tale patologia sotto forma di “una tendenza dei giovani ad identificarsi con un ideale eroico di purezza che in nome del dubbio vorrebbe poter spegnare ogni dubbio […] attribuendo fuori di ogni dubbio ai propri genitori o alle vecchie generazioni la responsabilità del loro disagio.” È la certezza che arma la mano del terrorista e il cui unico antidoto è il sapere socratico, ovvero quello che riconosce di non poter apprendere la verità assoluta.
Ebbene, chi scrive concorda con l’analisi eziologica della violenza dei singoli ma ritiene che vi sia uno scarto non colmabile con il solo sapere psicoanalitico tra l’esperienza individuale e l’esperienza collettiva storica. Invero, la teoria “declinista” espressa dal pensiero lacaniano ci spiega buona parte della fenomenologia della psiche collettiva e della psiche individuale, come il venir meno dell’autorevolezza della funzione paterna, di cui i movimenti giovanili e insurrezionali del ’68 sarebbero un esempio storico (Massimo Recalcati, Patria senza padri). La “tendenza dei giovani ad identificarsi con un ideale eroico di purezza” ha generato la violenza terroristica degli anni Settanta. Da ciò sarebbero scaturite nell’età contemporanea nuove patologie e disagi psichici, come l’indeterminatezza di fondo della persona, la difficoltà a concepire un progetto di vita durevole e inserito nel mondo del lavoro, l’indifferenza sessuale, il predominio della legge del godimento, di un desiderio malato in quanto mercificato, non più regolato dall’istanza di castrazione del padre.
La spiegazione della storia mediante la psicologia risulta, ad oggi, ancora problematica e corre il rischio, se assunta come sapere autoreferenziale, non solo di non far maturare le potenzialità epistemiche ivi espresse ma di creare una insanabile incomprensione generazionale che porta alla morte per repressione e asfissia di quelle più giovani. E se affermo ciò non penso di essere mosso né da “odio edipico” né da un “ideale eroico di purezza” che sfocia nell’estremismo della violenza di un pensiero che non ammette dubbi di sorta.
La concezione che pone alla base dell’attuale crisi del mondo occidentale l’evaporazione del padre non sembra spiegare compiutamente né il passaggio dalla mente dell’individuo al piano storico (mente collettiva) né di come il declino dell’autorità paterna e della famiglia patriarcale rimandi all’imporsi di un altro “Nome del padre”, che è quello dell’ordine totalitario-capitalistico.
Ritengo che tale modello descrittivo, particolarmente efficace nel dar ragione dell’irrazionalità del singolo, utile anche nell’analisi dei fenomeni storici (quale ad esempio quel comportamento collettivo che ha caratterizzato il popolo italiano durante il fascismo e che va sotto il nome di “servitù volontaria” o secondo il lessico di Gramsci di “rivoluzione passiva”), sia carente di altre prospettive, soprattutto di quelle tradizionalmente definite “materialiste”. In altre parole, a mio modesto parere, l’approccio lacaniano avrebbe bisogno di un “bagno di realtà”. Il rischio, altrimenti, è quello di fare della psicoanalisi una dottrina morale che punta alla normalizzazione del soggetto e dunque di trasformare uno straordinario strumento analitico dell’universo interiore in un pensiero politico reazionario.
Se, infatti, si può concordare nel ritenere i movimenti sessantottini affetti da un errore ideologico politico di fondo, richiamandosi, nella maggioranza dei casi, all’esaltazione irrazionale di modelli autoritari come quelli di Stalin e Mao (ideali eroici di purezza), nonché deviati dall’apologia del modello economico del socialismo reale, senza rendersi conto che si trattava solo di una diversa declinazione delle strutture capitalistiche in uno Stato illiberale, ugualmente di apologia si pecca quando si difende dogmaticamente il concetto di democrazia, non accorgendosi che lo stesso modello economico autoritario vi è perfettamente inscritto.
La critica del «godimento immediato e senza limiti», della «libertà che non conosce limiti né legge» e «l’evaporazione del Padre», critiche ed analisi che condivido, non sono da sole in grado di cogliere un aspetto del reale tanto banale quanto assolutamente concreto: i processi sociali sono dominati dalla sempre più totalitaria legge del profitto.
È la dinamica capitalistica che ha reso obsoleta la tradizionale famiglia a conduzione patriarcale, relegando i genitori in un ruolo sempre più marginale rispetto alle funzioni educative riconducibili allo Stato e al sociale, oggi “privatizzato” dal mercato. Un’economia che ha bisogno continuamente di creare nuove opportunità di profitto, e che per questo sposta sempre in avanti il confine dello sfruttabile e del consumabile fino a eliminare ogni limite. È il lavoro il luogo nel quale si manifestano le più acute contraddizioni e violente imposizioni di un sistema che si è elevato a verità assoluta, non potendo più essere messo in discussione, pena l’immediata marginalizzazione del soggetto prontamente marchiato con lo stigma della non credibilità in quanto non allineato (varianti politicamente corrette della pazzia sono oggi quella del “complottista”, “no-vax”, “pro-Putin” ecc.)
La natura disumana del rapporto di dominio capitalistico del lavoro sembra sfuggire non solo alle riflessioni di Recalcati, ma all’intera generazione da lui rappresentata. Di pochi giorni fa è una pronuncia della Cassazione (ordinanza n.3769/2022) che ha stabilito il non diritto ad essere mantenuto da parte di un “ex-giovane” 32enne avvocato. Decisione presa da uno dei più alti funzionari della Repubblica, un magistrato che generalmente in tale ruolo è di età compresa tra i 60 e 70 anni, che percepisce uno stipendio superiore ai 100.000€ annui. Nessun rappresentante delle istituzioni che si sia chiesto come mai una persona di 32 anni sia costretta ad esigere un letto dai suoi genitori o che si ponga nei panni di chi dopo una vita di studio capisce che non può trarre dignità dal lavorare e vive di continui rifiuti ed umiliazioni. In fondo il funzionario pubblico ha già da tutelare il proprio orticello.
C’è un enorme conflitto generazionale in atto: i nati tra il 1946 e il 1965 soffocano – per troppo amore e per un malsano senso di responsabilità – le libertà di chi è nato dopo il 1980. Il nostro è attualmente un sistema sociale che dà il primato ai proprietari di case e un peso sproporzionato ai residenti delle aree urbane centrali, in cui la partecipazione è più facile per i pensionati e i ricchi che tendono ad escludere i giovani e i poveri. I neo liberi professionisti, siano essi avvocati, architetti o ingegneri, percepiscono compensi di mera sussistenza (tra gli innumerevoli articoli si veda da ultimo, Professionisti a 1000 euro lordi, La Stampa del 20 febbraio 2023). Il lavoro per i più è divenuto lavoro inutile e/o povero. E quando non è inutile è di puro sfruttamento (i settori del commerciale, della logistica, del turismo, dell’agricoltura degli appalti e delle mono-committenze, sono esemplari ambiti nei quali si sperimentano le condizioni socio-giuridiche del servaggio 4.0). Per non parlare del settore pubblico dove lo Stato si è fatto da anni assuntore di ultima istanza, arruolando, o promettendo di arruolare, milioni di individui con contratti anche precari, laddove gli enti pubblici territoriali rimangono privi del numero minimo indispensabile di dipendenti per poter erogare servizi e gestire quel poco di patrimonio pubblico ancora rimasto. Non solo, da ultimo lo Stato ha imposto il bavaglio ai propri dipendenti, sanzionando la manifestazione di qualsiasi pensiero ritenuto critico nei propri confronti che sia espresso pubblicamente. Sembra che la ratio di tale divieto possa così essere espressa: dal momento che ti ho salvato dai gironi infernali del libero mercato, concedendoti uno stipendio di sussistenza, non ti è accordato di criticare il tuo datore pubblico. L’indirizzo dell’esecutivo, che oggi è l’indirizzo del legislatore, si mantiene nella direzione della più assoluta flessibilizzazione del lavoro che, in ultima istanza, non potrà che trovare la sua compiuta realizzazione nella mercificazione del lavoratore, non più titolare di diritti né retributivi, né sindacali, né umani. In fondo tutto è piegato al mantra ordoliberista: crescita, crescita, crescita, di cui principio cardine è la privatizzazione non solo dei beni pubblici, ma di qualsiasi cosa possa produrre in qualche modo, valore. Valore, valore, valore, ma di “capitale” si sente parlare solo quando si tratta di essere umani. Si valorizza anche il capitale umano. In questo sistema c’è così tanta umanità che sembra di vivere in uno Stato socialista. E, probabilmente, nel nuovo bi-pensiero ci convinceremo che essere schiavi è essere liberi.
I conti, però, in un sistema capitalistico si devono fare. E, evidentemente, le politiche aziendali applicate agli Stati non hanno funzionato. Trent’anni in cui si è assistito alla più grande espropriazione di ricchezza dal basso verso l’alto. In nome di chi? Quanto ancora questa politica che ha le mani legate continuerà a prendere in giro chi dovrebbe rappresentare?
Non si tratta di rivendicare una verità assoluta al cospetto della quale imbastire una condanna alla generazione dei “boomer”; non c’entra la psicoanalisi, bensì la gestione dell’economia, la geopolitica e il diritto. Anzi ci rivolgiamo proprio a voi che siete i nostri padri e le nostre madri, perché in un ordinamento imperniato sul principio maggioritario voi, in questo periodo storico, costituite la parte determinante dell’ago della bilancia in quanto numericamente maggiori rispetto alla nostra generazione. Chiediamo conto dello scollamento totale tra la politica e l’interesse della nazione ed invochiamo una vostra presa di posizione rispetto al ribaltamento in atto dei valori costituzionali.
Il sottoscritto non si identifica in nessun ideale di purezza che azzera ogni dubbio in nome di una verità assoluta. La mia generazione, quella dei cosiddetti ‘Millennial’, non conosce, non parla e comunque non vorrebbe alcuna rivoluzione violenta né alcuna dittatura del proletariato. Rivendichiamo il diritto alla libertà e dignità. Perché crediamo che il lavoro abbia un profondo potenziale liberatorio oggi annichilito sotto il peso del ricatto salariale. Non possiamo liberare l’uomo se non lo liberiamo dal ricatto impersonale del Capitale. Non è vero che non possiamo costruire un’alternativa a questo modo di convivenza. Non continuiamo a confondere (la promessa) di una maggiore sicurezza materiale con l’acquisizione di una maggior (fasulla) libertà. Vi hanno illuso. Se l’azione non coglie l’obbiettivo (perché degenera in violenza) non significa che l’obbiettivo non sia raggiungibile o moralmente sbagliato. Liberatevi dal giogo del senso di colpa che più che ai vostri ideali è da attribuirsi alla mala gestio (leggasi: cospirazione) e codardia della politica di allora e guardate il futuro assieme a noi. Avete ottenuto molto (dallo Statuto dei lavoratori alla legge sul sistema sanitario), ma noi stiamo perdendo ciò che voi avete conquistato. Non credete a chi parla di sussidiarietà in un sistema economico basato esclusivamente sul profitto, ovvero sullo sfruttamento umano e naturale. La responsabilità umana cresce se è coltivata la libertà, non l’obbedienza che, all’opposto, facilita il disimpegno morale e l’azione politica reazionaria. Sono le generazioni che vi hanno preceduto che ci hanno insegnato che nella vita si sta con le “spalle diritte”. E che la quotidianità è eroica se qualche volta si sa dire “no”.
L’aiuto della vostra generazione è fondamentale e si riassume, da parte nostra, in una invocazione: non rinnegate l’esistenza del dominio di questo sistema economico in nome di un ideale eroico di purezza (falsamente) democratica (poiché securitaria), altrimenti sarete compartecipi dell’annichilimento del nostro futuro.
Fonte: https://www.lafionda.org/2023/03/08/generazione-senza-futuro/
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