Le due facce del potere 3 e 4: il regno e il governo; anarchia e politica
da QUOD LIBET, BLOG UNA VOCE (Giorgio Agamben)
Con un po’ di ritardo pubblichiamo la terza e quarta parte de “le due facce del potere”.
Le due facce del potere 3: il regno e il governo
«Le roi règne, mais il ne gouverne pas», «il re regna, ma non governa». Che questa formula, che è al centro del dibattito fra Peterson e Schmitt sulla teologia politica e che nella sua formulazione latina (rex regnat, sed non gubernat) risale alle polemiche secentesche contro il re di Polonia Sigismondo III, contenga qualcosa come il paradigma della doppia struttura della politica occidentale, è quanto abbiamo cercato di mostrare in un libro pubblicato quasi quindici anni fa. Ancora una volta, alla sua base sta un problema genuinamente teologico, quello del governo divino del mondo, esso stesso in ultima analisi espressione di un problema ontologico. Nel capitolo X del libro L della Metafisica, Aristotele si era chiesto se l’universo possegga il bene come qualcosa di separato (kechorismenon) o come un ordine interno (taxin). Si trattava, cioè, di risolvere la drastica opposizione fra trascendenza e immanenza, articolandole insieme attraverso l’idea di un ordine degli enti mondani. Il problema cosmologico aveva anche un significato politico, se Aristotele può paragonare immediatamente la relazione fra il bene trascendente e il mondo a quella che lega lo stratega di un esercito all’ordinamento dei soldati che lo compongono e una casa alla reciproca connessione delle creature che in essa vivono. «Gli enti» egli aggiunge «non vogliono avere una cattiva costituzione politica (politeuesthai kakos) e deve quindi esserci un unico sovrano (heis koiranon», che si manifesta in essi nella forma dell’ordine che li collega. Ciò significa che, in ultima istanza, il motore immobile del libro L e la natura del cosmo formano un unico sistema a due facce e che il potere – sia esso divino o umano – deve tenere uniti i due poli ed essere tanto norma trascendente che ordine immanente, tanto regno che governo.
Sarà compito della scolastica medievale e, in particolare, di Tommaso tradurre questo paradigma ontologico nel problema teologico del governo divino del mondo. Essenziale, a questo fine, è l’idea di ordine. Essa esprime, da una parte, la relazione fra Dio e le creature (ordo ad Deum) e, dall’altra, la relazione delle creature fra di loro (ordo ad invicem). I due ordini sono strettamente connessi e, tuttavia, la loro relazione non è perfettamente simmetrica come può sembrare. Che il problema abbia anche questa volta un aspetto politico, è evidente nel paragone che Tommaso istituisce con la legge e la sua esecuzione. «Come in una famiglia» egli scrive «l’ordine è imposto attraverso la legge e i precetti del capofamiglia, che per ciascuno degli esseri ordinati nella casa è principio dell’esecuzione dell’ordine della casa, allo stesso modo la natura degli enti naturali è per ogni creatura il principio dell’esecuzione di quanto gli compete nell’ordine dell’universo». In che modo, tuttavia, la legge, come comando di uno solo, può tradursi nell’esecuzione dei molti rispetto ad esso ordinati? Se l’ordine – come l’esempio certamente non casuale dello stratega e del capofamiglia sembra implicare – dipende dal comando di un capo, in che modo la sua esecuzione può essere iscritta nella natura degli enti così diversi tra di loro?
L’aporia che segnerà in modo crescente tanto l’ordine del cosmo quanto quello della città comincia qui a diventare visibile. Gli enti stanno fra loro in una determinata relazione, ma questa non è che l’espressione della loro relazione all’unico principio divino e, viceversa, gli enti sono ordinati in quanto stanno in una certa relazione con Dio, ma questa relazione consiste soltanto nella loro relazione reciproca. L’ordine immanente non è che la relazione al principio trascendente, ma questo non ha altro contenuto che l’ordine immanente. I due ordini rimandano l’uno all’altro e si fondano reciprocamente. Il perfetto edificio della cosmologia medievale riposa su questo circolo e non ha alcuna consistenza al di fuori di esso. Di qui la complessa, sottile dialettica fra cause prime e cause seconde, potenza assoluta e potenza ordinata, attraverso il quale la scolastica cercherà, senza mai riuscirci pienamente, di venire a capo di questa aporia.
Se torniamo ora al problema dell’ordine politico da cui siamo partiti e che rimanda esplicitamente a questo paradigma teologico, non sorprenderà ritrovare in esso le stessa circolarità e le stesse aporie. Stato e amministrazione, regno e governo, norma e decisione sono reciprocamente connessi e si fondano ed esistono l’uno attraverso l’altro; e, tuttavia – anzi proprio per questo – la loro simmetria non può essere perfetta né inequivocabilmente garantita. Il re e i suoi ministri, la «politica» e la «polizia», la legge e la sua esecuzione possono entrare in conflitto e nulla assicura che questo conflitto possa essere una volta per tutte composto. La macchina bipolare della politica occidentale è sempre in atto di corrompersi e frantumarsi, perpetuamente in balia di cambiamenti e rivoluzioni che ne mettono in questione il funzionamento e la bipolarità nella misura stessa un cui sembrano ogni volta riaffermarli.
Il primato del governo sul regno e dell’amministrazione sulla costituzione che noi stiamo oggi vivendo non è in realtà senza precedenti nella storia dell’Occidente. Esso raggiunse la sua prima e radicale formulazione nell’elaborazione della dottrina del rex inutilis da parte dei canonisti del XIII secolo. È sulla base di queste elaborazioni che, nel 1245, il pontefice Innocenzo IV, su richiesta del clero e della nobiltà portoghese, emanò la decretale Grandi non immerito, con la quale deponeva il re Sancho II dal governo del regno, che si era dimostrato incapace di amministrare, assegnando al fratello Alfonso di Boulogne la cura et administratio generalis e lasciando tuttavia a Sancho la sua dignitas regale. La duplice struttura della macchina governamentale contiene la possibilità che la bipolarità in cui si articola possa essere messa in questione se essa cessa di risultare funzionale al sistema. È significativo tuttavia, dal momento che nessuna delle due facce del potere ha in sé il suo fondamento, che anche in questo caso estremo la dignità regale non sia stata tolta. La dualità di legittimità e legalità non è che un aspetto di questa bipolarità: il regno legittima il governo e, tuttavia, la legittimità non ha altro senso che la legalità dell’azione e dei provvedimenti del governo.
FONTE: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-le-due-facce-del-potere-3-il-regno-e-il-governo
Le due facce del potere 4: anarchia e politica
È stato un costituzionalista tedesco della fine del XIX secolo, Max von Seydel, a porre la domanda che suona oggi inaggirabile: «che cosa resta del regno, se si toglie il governo»? È venuto infatti il momento di chiedersi se la frattura della macchina politica dell’Occidente abbia raggiunto in questi anni una soglia al di là della quale essa non può più funzionare. Già nel XX secolo il fascismo e il nazismo avevano risposto a loro modo al quesito attraverso l’istaurazione di quello che è stato a ragione definito come uno «stato duale», in cui allo stato legittimo, fondato sulla legge e la costituzione, si affianca uno stato discrezionale solo parzialmente formalizzato e l’unità della macchina politica è quindi soltanto apparente . Lo stato amministrativo in cui sono più o meno consapevolmente scivolate le democrazie parlamentari europee, non è in questo senso dal punto di vista tecnico che una discendenza del modello nazifascista, in cui organi discrezionali estranei ai poteri costituzionali si affiancano a quelli dello stato parlamentare, progressivamente svuotato delle sue funzioni. Ed è certamente singolare che una separazione di regno e governo si sia manifestata oggi anche al vertice della Chiesa romana, in cui un pontefice, trovatosi nell’impossibilità di governare, abbia spontaneamente deposto la cura et administratio generalis, mantenendo però la sua dignitas.
La dimostrazione più estrema della frattura della macchina politica è però l’emergere dello stato di eccezione come paradigma normale di governo che, ormai in atto da decenni, ha raggiunto la sua forma ultimativa negli anni della cosiddetta pandemia. Ciò che, nella prospettiva che qui c’interessa, definisce lo stato di eccezione, è la rottura fra costituzione e governo, legittimità e legalità – e, insieme, la creazione di una zona in cui essi diventano indiscernibili. La sovranità si manifesta qui infatti nella forma di una sospensione della legge e nella conseguente istaurazione di una zona di anomia, nella quale tuttavia il governo afferma di agire legalmente. Pur sospendendo l’ordine giuridico, lo stato di eccezione pretende, infatti, di essere ancora in relazione con esso, di essere, per così dire, legalmente al di fuori della legge. Da un punto di vista tecnico, lo stato di eccezione invera, infatti, uno «stato della legge», in cui da una parte la legge teoricamente vige, ma non ha forza e dall’altra provvedimenti e misure che non hanno valore di legge ne acquistano la forza. Si potrebbe dire che, al limite, la posta in gioco nello stato di eccezione è una forza-di-legge fluttuante senza la legge, una legittimità illegale cui fa riscontro una legalità illegittima, nella quale la distinzione fra norma e decisione perde il suo senso.
Essenziale è comprendere la relazione necessaria che unisce lo stato di eccezione e la macchina politica. Se sovrano è colui che decide dell’eccezione, lo stato di eccezione costituisce da sempre il centro segreto della macchina bipolare. Fra regno e governo, fra legittimità e legalità e fra costituzione e amministrazione non vi può essere alcuna articolazione sostanziale. In quanto segna il punto della loro coincidenza, la cerniera che li congiunge non può appartenere né a un polo né all’altro e non può essere in sé né legittima né legale. Come tale, può essere soltanto oggetto di una decisione sovrana, che li articola puntualmente attraverso la loro sospensione.
Proprio per questo, tuttavia, lo stato di eccezione è necessariamente temporaneo. Una decisione sovrana presa una volta per tutte non è più tale, così come un’articolazione permanente fra i due poli della macchina finirebbe col comprometterne la funzionalità. Uno stato di eccezione normale diventa indecidibile e abolisce pertanto il sovrano, che può definirsi solo attraverso la decisione. Non è certamente un caso che tanto il nazismo che lo stato amministrativo contemporaneo abbiano risolutamente adottato lo stato di eccezione come paradigma normale e non temporaneo del loro governo. Comunque si definisca questa situazione, in ogni caso in essa la macchina politica ha rinunciato al suo funzionamento e i due poli – il regno e il governo – si specchiano l’uno nell’altro senza alcuna articolazione.
È nella soglia fra regno e governo che il problema dell’anarchia può essere correttamente situato. Se la macchina politica funziona attraverso l’articolazione dei due poli regno/governo, ciò che l’eccezione sovrana mostra con chiarezza è che lo spazio fra di essi è in realtà vuoto, è una zona di anomia senza la quale tuttavia la macchina non potrebbe funzionare. Come la norma non contiene la sua applicazione, ma ha bisogno per questo della decisione di un giudice, così il regno non contiene in sé la realtà del governo e la decisione sovrana è ciò che, rendendoli indiscernibili, apre lo spazio della prassi governamentale. Lo stato di eccezione è, pertanto, non soltanto anomico, ma anche anarchico, nel duplice senso che la decisione sovrana non ha fondamento e la prassi che esso inaugura si muove nell’indistinzione fra legalità e illegalità, norma e decisione. E poiché lo stato di eccezione costituisce la cerniera fra i due poli della macchina politica, ciò significa che questa funziona catturando al suo centro l’anarchia.
Si potrà allora definire autenticamente anarchica una potenza capace di liberare l’anarchia che è stata catturata nella macchina. Una tale potenza può esistere solo come arresto e destituzione della macchina, è, cioè, una potenza integralmente destituente e mai costituente. Nelle parole di Benjamin, il suo spazio è lo stato di eccezione «effettivo», contrapposto a quello virtuale su cui si fonda la macchina, che pretende di mantenere l’ordine giuridico nella sua stessa sospensione. Regno e governo esibiscono in esso la loro definitiva sconnessione e non può essere più questione di restaurare la loro legittima articolazione, come vorrebbero i critici benpensanti, né di giocare, secondo una malintesa concezione dell’anarchia, l’amministrazione contro lo stato. Sappiamo ormai da tempo, con lucida consapevolezza e senza alcuna nostalgia, di muoverci ogni volta quotidianamente in questa soglia impervia e rischiosa, dove l’articolazione fra regno e governo, stato e amministrazione, norma e decisione è irrevocabilmente spezzata, anche se lo spettro mortifero della macchina continua a girare a vuoto intorno a noi.
FONTE: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-le-due-facce-del-potere-4-anarchia-e-politica
Commenti recenti