Gli Accordi del Venerdì Santo compiono oggi venticinque anni ma la stabilità in Irlanda del Nord gode di salute incerta.
L’accordo che il 10 aprile 1998, Venerdì Santo, concluse i Troubles nordirlandesi è oggi sfidato dall’onda lunga della Brexit, dalla rivoluzione politica venutasi a creare col voto del 5 maggio 2022 che per la prima volta ha dato la maggioranza ai cattolici nazionalisti, dalle fragilità economiche e sociali dell’Irlanda del Nord.
In un certo senso, dunque, il Good Friday sta scricchiolando sulla prova decisiva a cui è stato chiamato un quarto di secolo dopo l’accordo tra il primo ministro britannico Tony Blair e il Taoiseach, premier d’Irlanda, Bertie Ahern che regolò la soluzione della crisi nordirlandese e addirittura un eventuale futuro percorso di riunificazione dell’Isola Verde.
Con gli Accordi del Venerdì Santo per la prima volta nei suoi settant’anni di indipendenza Dublino riconosceva esplicitamente le sei contee dell’Ulster come facenti parte del Regno Unito e sotto l’esclusiva sovranità di Londra. Parimenti, però, il Regno Unito apriva a un percorso che non escludeva, in prospettiva, la sovranità intera della Repubblica d’Irlanda sull’isola in futuro e iniziava a discorrere di devolution interna. Al contempo, il Sinn Fein rappresentante l’ala indipendentista della politica di Belfast, proiezione dell’omonimo partito d’Irlanda e braccio politico dell’Ira concludeva l’accordo di condivisione del potere con il Democratic Unionist Party (Dup), fedelissimo della Corona di Londra e esponente dell’Irlanda del Nord protestante.
Si apriva all’idea di un governo guidato dalla coalizione maggioritaria tra unionisti e nazionalisti ma diviso equamente tra i due campi. Il governo di Belfast o è di larga coalizione o non può esistere: su questo scoglio si è infranto, dopo il 5 maggio 2022, il processo di distribuzione dei poteri nelle sei contee a causa del rifiuto del Dup di concedere al Sinn Fein la carica di First Minister. Convitato di pietra la Brexit, col protocollo irlandese che di fatto crea una barriera interna al Regno Unito mettendo la dogana nel Mare d’Irlanda per non far tornare i confini rigidi per merci e persone tra le due anime dell’Irlanda. Premessa scelta nel 1998 per porre fine a trent’anni di conflitto a bassa intensità che avevano causato 3mila morti tra attentati, scontri e repressioni militari.
Dal Bloody Sunday di Derry del 2 febbraio 1972, in cui i protestanti irlandesi appartenenti a sindacati e organizzazioni per i diritti sociali furono mitragliati dai parà britannici, alla morte di Bobby Sands e dei compagni nello sciopero della fame dopo la linea della fermezza decisa da Margareth Thatcher nel 1981, i nazionalisti nordirlandesi avevano recriminato molto per le pratiche britanniche di controllo del separatismo. Ma anche l’Ira aveva imposto un duro tributo di sangue: dall’uccisione di Lord Mountbatten, cugino di Elisabetta II, nel 1979, al tentativo di uccidere la Thatcher nel 1984 i guerriglieri avevano alzato la posta più volte. Nel 1976, a Kingsmill, l’Ira uccise a sangue freddo dieci cittadini di fede protestante, nel 1985 a Newry nove poliziotti morirono in un attacco a una caserma nel 1987 a Enniskillen, nel Fermanagh, una bomba dell’Ira colpì uccidendo undici civili. E l’elenco potrebbe continuare.
Per fermare questa spirale di violenza nel 1994 fu proclamata la fine delle operazioni militari e, salito al potere, nel 1997 il laburista Blair spinse per completare la pacificazione. Mediata dagli Usa di Bill Clinton, desiderosi di cessare la divisione politica tra la vasta comunità irlandese nel Paese, la pace ha iniziato sul fronte interno a scricchiolare sulla base della spirale di violenze, non priva di vittime, che negli ultimi anni tra Derry e Belfast ha ripreso piede. Al governo britannico di Rishi Sunak è riuscito l’obiettivo di ottenere una revisione al protocollo per presentare come meno “esclusa” dal resto del Regno, ai sensi della Brexit, l’Irlanda del Nord. Ma la protesta del Dup contro l’accordo e i timori per l’ascesa di una maggioranza cattolica, che potrà in futuro aprire a un referendum per la riunificazione, hanno iniziato a far scricchiolare le certezze. E nuovamente dunque, venticinque anni dopo, a Londra e Dublino e al loro buonsenso è affidata la custodia di una pace che oggi preoccupa soprattutto sul fronte interno. L’Irlanda del Nord entra nell’era di Carlo III, sovrano del Regno Unito, senza certezze tranne il patto di un quarto di secolo fa. Oggi sottoposto a diversi crash test che proveranno la sua capacità di durare nel tempo.
FONTE:https://it.insideover.com/politica/gli-accordi-del-venerdi-santo-venticinque-anni-dopo.html
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