Vittoria o negoziato
Sostanzialmente, le guerre possono finire solo in due modi: o con la vittoria di una parte, che impone agli sconfitti le sue condizioni (vedi alla voce WWI e WWII), o con un negoziato. Ovviamente, questa seconda ipotesi si dà solo quando il proseguimento del conflitto, e per entrambe le parti, risulta non essere più conveniente. Stiamo parlando di una convenienza complessiva, a 360°, non semplicemente, sul terreno. Deve insomma verificarsi quella particolare congiuntura in cui tutti i soggetti coinvolti, magari per motivi diversi, giungono alla conclusione che una trattativa offra maggiori vantaggi del proseguimento delle attività belliche.
A questo punto, si apre il negoziato, che può anche essere lungo e complesso e necessita non solo di una mediazione forte ed autorevole, ma anche di una effettiva e salda volontà di trovare un accordo. Poiché, è chiaro, tutti cercheranno di ottenere il massimo in cambio del minimo.
Va da sé che, affinché una guerra trovi una soluzione negoziata, deve anche sussistere un reale terreno di mediazione, reciprocamente accettabile, nell’ambito del quale la trattativa avrà un range più o meno ampio in cui muoversi.
Alla luce di questo assunto, è francamente difficile immaginare una fine del conflitto ucraino.
Innanzitutto, perché nessuno dei tre soggetti coinvolti (gli USA/NATO, l’Ucraina e la Russia) è effettivamente giunto a maturare un’autentica volontà di mediazione. Che – è necessario ribadirlo – significa innanzitutto stabilire cosa è trattabile e cosa non lo è.
Sicuramente, tutti gli attori coinvolti hanno, per ragioni diverse quanto ovvie, la volontà di porre fine alla guerra. Persino per il NATOstan, che apparentemente ne persegue ostinatamente il prosieguo, si tratta più di una reale difficoltà a trovare una exit strategy praticabile, che non della effettiva volontà di andare avanti.
Non solo, infatti, contro ogni previsione la Russia ha retto perfettamente sia sul piano economico che su quello politico-diplomatico (anzi, per certi versi esce addirittura rafforzata da questo primo anno di guerra), oltre che ovviamente sul piano militare (ma questo di certo, al Pentagono, già lo sapevano), ma ad accusare il logoramento è proprio la NATO, nelle sue diverse articolazioni.
Nell’ambito della propria guerra ibrida globale, finalizzata a ri-stabilire il dominio mondiale, gli Stati Uniti si trovano oggi nella condizione-necessità di fronteggiare due poderosi avversari (Russia e Cina), sfidandoli su quello che a Washington ritengono essere ancora l’unico terreno di superiorità, cioè quello militare. Con la costante espansione europea della NATO prima, con l’escalation ucraina poi (dal golpe del 2014 in avanti), gli USA hanno spinto verso il conflitto con la Federazione Russa, concretizzatosi nel 2022 con l’inizio della proxy war. Ugualmente, stanno spingendo sempre più affinché il format venga più o meno replicato con la Cina, con Taiwan al posto dell’Ucraina. E probabilmente, poiché la sproporzione tra l’isola e la massa continentale è troppo grande, con l’idea che questa nuova proxy war venga combattuta prevalentemente dal Giappone. Con questa prospettiva, gli States si stanno impegnando in un massiccio riarmo di Taipei, che però si va a sommare all’impegno per armare e sostenere Kyev – che a sua volta è un vero e proprio buco nero, che ingoia armamenti (e denaro) a velocità spaventosa. Tanto da superare le capacità produttive dell’industria bellica.
Giusto per fare un esempio, persino banale nella sua minimalità, nel 2019 il governo di Taiwan aveva stipulato un contratto per la fornitura di FGM-148 Javelin (1), un’arma anticarro portatile; a seguito dell’avvio del conflitto in Ucraina, e quindi dell’urgenza di fornire all’esercito ucraino questi mezzi, le consegne sono state ritardate, ed a tutt’oggi non è stato possibile effettuare la fornitura. Stessa cosa per gli F-16, che Taipei attende dal 2019.
Dal punto di vista di Washington, quindi, uno stop alla guerra guerreggiata in Ucraina presenterebbe molti vantaggi, a partire proprio dal guadagnare tempo per rimettere l’industria bellica al passo con le nuove esigenze di un conflitto su due fronti e ad alta intensità.
Ma per la NATO ciò che è intrattabile è, del resto logicamente, uscire dal conflitto con la Russia apparendone sconfitta. I contraccolpi politici, sia interni che internazionali, sarebbero devastanti. Il massimo che il deep state può accettare, per uscire dal pantano ucraino, è – per dirla con il linguaggio sportivo che sembrano amare i media statunitensi – un pareggio.
Un esito di questo genere presuppone che non si possa in alcun modo pensare che la Russia abbia vinto. Poiché in USA il dibattito sul se e sul come porre fine al conflitto ucraino esiste, e non da oggi. È ovvio che in esso abbiano parte non secondaria anche le ipotesi concrete, sul come tirarsi fuori dagli impicci. La più gettonata, e che ritorna periodicamente, è quella che va sotto il nome di soluzione coreana, recentemente rilanciata dal magazine Politico (2).
Secondo questa ipotesi, si tratterebbe di congelare di fatto il conflitto, senza alcun trattato che ne sancisca in qualche modo i termini, per poi dar vita a due entità, separate da una eventuale fascia smilitarizzata – la nuova Ucraina, privata dei territori conquistati dai russi, e questa espansione occidentale della Federazione Russa, comunque non riconosciuta a livello internazionale.
Nella visione statunitense delle cose, questa soluzione avrebbe sia il vantaggio di fermare i combattimenti (quindi, anche il dissanguamento dell’esercito ucraino e degli arsenali NATO), sia quello di non concedere alla Russia nulla che non abbia già preso.
L’occidente non vede oltre se stesso
Si tratta di quello che io definisco autismo occidentale (3), ovvero quell’atteggiamento delle élite anglo-americane, e più in generale occidentali, che sono a tal punto prigioniere della propria narrazione da non riuscire neanche a concepire una realtà difforme, rifiutandola sic et simpliciter. In pratica, prendono atto dell’impossibilità di piegare la Russia sul campo di battaglia (almeno per il momento), ma rifiutano di trarne sino in fondo tutte le conseguenze.
La soluzione coreana, infatti, non sarebbe altro che una sorta di Minsk III, solo su scala più ampia. Ovviamente, del tutto improponibile per Mosca.
Del resto, questa ipotesi è rigettata anche dalla dirigenza ucraina. Mikhail Podolyak, consigliere dell’Ufficio Presidenziale ucraino, sostiene che l’ipotesi di congelare il conflitto sarebbe addirittura dovuta agli “sforzi di lobbying da parte della diplomazia russa”! (4)
Il che appare anche abbastanza comprensibile, visto quanto è costato – e costerà… – all’Ucraina aver scelto deliberatamente lo scontro all’ultimo sangue con la Russia. È abbastanza evidente che qualsiasi ipotesi negoziale, tale da essere anche solo discutibile per la Russia, non potrebbe avvenire senza un completo avvicendamento della leadership a Kyev.
Ma questa ipotesi, appunto, rischia di rimanere del tutto accademica (e di una accademia esclusivamente statunitense), poiché ignora totalmente sia il dato oggettivo che quello soggettivo della Russia.
Per Mosca sarebbe infatti assolutamente impensabile avviare qualsiasi negoziato, senza che questo preveda di prendere in considerazione sia le proprie esigenze strategiche, sia il costo umano ed economico sostenuto per l’Operazione Speciale Militare, sia la situazione reale sul campo. L’idea del congelamento, di cui si starebbe discutendo all’interno di svariati ambiti politico-militari americani, nasce fondamentalmente da una duplice convinzione: da un lato, che l’Ucraina – per quanto supportata dalla NATO – non sarà mai in grado di ribaltare la situazione sul terreno, e dall’altro che “né Kiev né Mosca sembrano inclini ad ammettere mai la sconfitta” (5). Ma, appunto, ecco che torna l’autismo dei vertici NATO: totalmente prigionieri della propria narrazione propagandistica, questi si auto-convincono che l’obiettivo di Mosca fosse la conquista dell’intera Ucraina, obiettivo il cui conseguimento sarebbe stato impedito dalla resistenza delle sue forze armate. E quindi il non essere riusciti ad occupare l’intero paese sarebbe la sconfitta che la Russia non vorrebbe ammettere. In questo senso, l’ipotesi coreana offrirebbe una via d’uscita.
Questo colossale abbaglio pone due grossi bastoni tra le ruote di un possibile negoziato. Innanzitutto, conferma che a Washington sono davvero molto pochi – e contano ancora meno – coloro i quali comprendono le ragioni russe, e sanno guardare davvero obiettivamente alla situazione sul campo di battaglia. Mosca, infatti, non ha mai, neanche lontanamente, pensato di invadere ed occupare tutta l’Ucraina, un’operazione che avrebbe richiesto un approccio radicalmente diverso, e tanto per cominciare almeno un milione di uomini, non certo i 200.000 con cui è andata avanti per mesi l’OSM.
Per la Russia la questione fondamentale sono le garanzie di sicurezza. Che si concretizzano quantomeno nella certezza che in Ucraina non stazioneranno truppe NATO, che Kiev non stipuli alcun accordo militare bilaterale con paesi membri dell’Alleanza, che la Crimea venga riconosciuta come parte legittima della Federazione. Ma che, in buona sostanza, riguardano il nuovo ordine mondiale post-guerra.
Per quanto dolorosamente (e soltanto in presenza di garanzie ferree) potrebbe trattare su parte dei territori dei quattro oblast annessi. Ma tutto ciò che attiene alla propria percezione di sicurezza è chiaramente inderogabile.
Ma riconoscere alla Russia, sia pure non de jure, quelle che sono le sue richieste fondamentali – e che erano le stesse che poneva prima della guerra… – significherebbe non solo ammettere la vittoria di Mosca (e quindi la sconfitta della NATO), ma anche che la guerra si sarebbe potuta evitare riconoscendo quelle medesime cose prima del febbraio 2022. In pratica, una debacle totale per la NATO e gli USA, quindi assolutamente inaccettabile per la Casa Bianca.
Anche a prescindere dall’attore minore (Kiev), la posizione dei due protagonisti rimane tale da escludere una soluzione negoziale, pur in presenza di un interesse di entrambe a trovarla. Sia per Mosca che per Washington, infatti, ciò che è non negoziabile per la controparte, risulta inaccettabile.
Manca quindi del tutto il terreno per una mediazione, sia pure tacita e non ufficializzata, su cui possa aprirsi una negoziazione.
Stando così le cose, soltanto un mutamento del quadro generale può far sì che questo terreno si apra, aprendo a sua volta ad una soluzione diversa dalla vittoria manu militari.
Salvare capra e cavoli
I fattori che possono portare ad un tale mutamento sono abbastanza ristretti.
Può determinarsi un cambiamento strategico della situazione sul campo, tale che – pur senza arrivare alla sconfitta immediata dell’uno o dell’altro – muti i rapporti di forza in misura tale da rendere evidente ed inevitabile la resa futura di uno dei due.
Può incrinarsi in maniera decisiva il fronte dei paesi NATO, rispetto alla prospettiva di un prolungamento infinito del conflitto.
Può determinarsi un collasso delle capacità occidentali di alimentare la guerra nel teatro europeo, pompandovi armi ad ibitum, ed al contempo fomentare quella nel teatro pacifico, pompando armi a Taiwan.
Può determinarsi una non pianificata escalation, che rischi di portare il conflitto oltre una soglia che né gli USA né la Russia intendono varcare.
Le possibilità che l’Ucraina possa ribaltare la situazione strategica, sono ovviamente pressoché pari a zero. E più il conflitto perdura, più diventano impossibili.
Parimenti, appare improbabile che ciò avvenga a parti invertite. Non tanto per una incapacità militare russa, quanto perché questo richiederebbe uno sforzo suppletivo (che Mosca non è ancora pronta a fare), e soprattutto perché la strategia perseguita dal Kremlino prevede la distruzione lenta e sistematica del potenziale bellico ucraino, a qualsiasi costo. Imprimere una accelerazione si teme che possa spingere la NATO ad intervenire, cosa che ovviamente si vuole evitare in ogni modo.
Per come si è delineata la situazione politica, una spaccatura in ambito NATO sembra essere una pura fantasia; i governi dei singoli paesi si sono prontamente pronati ai voleri di Washington, dimostrando di non possedere alcuna capacità e velleità di autonomia, l’Unione Europea si è felicemente e subitaneamente trasformata nel braccio politico della NATO, e stante la totale apatia ed afasia dei cittadini europei manca anche qualsivoglia spinta dal basso, che possa premere in tal senso.
Che il sistema produttivo bellico occidentale possa entrare in crisi seria, incapace di rispondere efficacemente alla domanda, è possibile, ma non sul brevissimo periodo, e comunque ci sono ancora svariate opzioni – sia pratiche, sia politiche – per fronteggiare questa eventualità. Probabilmente, una crisi del genere potrebbe deflagrare solo in presenza di una improvvisa impennata della richiesta, ma non si vede cosa potrebbe determinarla.
Data la compresenza di numerosi attori in scena, non tutti disposti ad obbedire sempre e comunque al capocomico, la possibilità che si inneschi un meccanismo che sfugge al controllo è sempre latente. Che si tratti di una provocazione, di una false flag, o di un evento bellico reale, il rischio è effettivamente possibile. Ma, se pure le cose dovessero per qualche ragione muoversi verso un’escalation, questa ha solo due possibili esiti: l’intervento, e quindi lo scontro diretto tra truppe NATO e russe, oppure il ricorso ad armi nucleari tattiche.
È assai probabile che, di fronte ad una tale eventualità, scatterebbe una sorta di freno automatico, ma è molto difficile prevedere come si presenterebbe la situazione dopo la frenata, e non è detto che favorirebbe l’avvio di qualche negoziato.
Va a questo punto aggiunto che il tempo lavora contro l’occidente, e comunque la si guardi questa potrebbe non essere una buona notizia. Mentre la Russia lavora sulla lunga distanza, per gli USA/NATO più tempo passa più le cose si complicano. Il che è poi fondamentalmente la ragione per cui negli states si interrogano sul come trovare una via d’uscita capace di salvare capra e cavoli. Ma fintanto che a Washington non verrà accettata l’idea che per uscirne bene è necessario dare a Mosca assai più di quanto ora si sia disposti a dare, non si vede quale possa essere l’exit strategy. Quindi, c’è il rischio che prima o poi salti fuori qualche dottor Stranamore, e si faccia strada l’idea di forzare la mano.
Insomma, la mancanza di prospettive di pace, od anche solo di apertura di una fase negoziale, sono davvero poche al momento, e non solo per mancanza di volontà. Le cose si sono spinte troppo avanti, e la partita è importantissima per entrambe, il che rende molto difficile individuare spazi di mediazione. Se poi una parte rifiuta di vedere la realtà, diventa quasi impossibile. E questa è davvero una brutta notizia.
Se guardiamo a questa guerra, com’è giusto che sia, inquadrandola nell’ambito di un più ampio conflitto, ancora tutto in divenire, e che oppone gli Stati Uniti ed i suoi alleati ad un’altra serie di paesi, guidati da Russia e Cina, risulta evidente come essa rappresenti un fondamentale punto di svolta. La guerra russo-ucraina segna un giro di boa, nel confronto globale in atto. Per un verso, perché lo ha fatto drammaticamente emergere, e dall’altro perché segna un punto di non ritorno.
Con però una differenza rilevantissima. Per la Russia perdere questa battaglia significa essere definitivamente sconfitta, ed in pratica essere espulsa dal novero delle grandi potenze (e per inciso, questa è una eventualità inaccettabile non solo per Mosca, ma anche per Pechino, che a quel punto perderebbe un partner insostituibile; se le cose si mettessero male per la Federazione Russa, la Cina interverrebbe nel conflitto). Per gli USA perdere in Ucraina sarebbe un colpo gravissimo, ma non mortale. Quando ha ritenuto che non avesse più valore, non ha esitato a scappare dall’Afghanistan in quattro e quattr’otto. È stata largamente sconfitta nella precedente proxy war contro la Russia, quella in Siria – ed oggi, con il rientro di Damasco nella Lega Araba, la sconfitta è completa e totale.
Quindi Washington cercherà sino allo stremo di ottenere un risultato militare significativo in Ucraina, ma alle brutte mollerà tranquillamente Kyev per concentrarsi altrove. Chi pagherebbe il prezzo maggiore, in termini politici ed economici, di una guerra di lunga durata sarebbe soprattutto l’Europa, appecoronata agli interessi statunitensi. E se domani alla Casa Bianca decidessero di lasciare la proprio destino gli ucraini, sarebbe sugli europei che ricadrebbe il costo maggiore della ricostruzione – oltre a dover gestire qualche milione di profughi, niente affatto felici di tornare in un paese devastato, ed alcune centinaia di migliaia di combattenti nazisti e loro simpatizzanti, inferociti come belve.
Gli USA non sono interessati a proteggere né gli ucraini né gli europei. Se non si profila una via negoziale che gli consenta di uscire dal pantano senza risultare sconfitti (e per come stanno le cose ciò appare impossibile), e la continuazione della guerra dovesse risultare impraticabile, abbandoneranno Kyev come hanno fatto con Kabul.
Paradossalmente, quindi, la cosa migliore per gli europei sarebbe una vittoria militare russa, che costringa l’occidente a negoziare.
1 – I Javelin sono stati progettati dalle industrie Raytheon e Lockheed Martin, ed hanno un costo unitario di 256.000 $
2 – “Ukraine could join ranks of ‘frozen’ conflicts, U.S. officials say”, Politico.com
3 – “L’autismo occidentale”, Giubbe Rosse News
4 – “Qualsiasi idea di ‘conflitti congelati’ che si sente periodicamente nei media è una finzione, un prodotto pseudo-analitico e un fulcro degli sforzi di lobbying da parte della diplomazia russa. Non ci sono tali scenari all’ordine del giorno e non vengono discussi in nessun ufficio. Tutti gli attori sono ben consapevoli delle risorse e del tempo limitati a disposizione della Federazione Russa e dell’élite di Putin. Il percorso è invariato. Lo finiremo”, Twitter
5 – “Ukraine could join ranks of ‘frozen’ conflicts, U.S. officials say”, Politico.com
FONTE:https://giubberosse.news/2023/05/22/aspettando-stranamore/
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